
Mi ha fregato ancora. Quando ero giovane e sciocco, a lungo sottovalutai l’Artista che era all’epoca conosciuto come Prince liquidandolo con qualche frase arrogante senza avergli in realtà dedicato l’attenzione che meritava, fermandomi all’apparenza kitsch e non cogliendo mai la brillantezza di brani che puntualmente scalavano le classifiche. Fino a Kiss, che non era brillante: era geniale. Correva l’anno 1986 e da allora innumerevoli volte sono andato a Canossa a rendere omaggio a quest’uomo, di cui tanto si è scritto e ciò nonostante resta un insondabile mistero. Mai però nella maniera estesa in cui mi appresto a farlo adesso che sono uno sciocco ormai prossimo alla mezza età. Fatto è che l’Artista Del Quale Un Tempo Alla Gente Importava Qualcosa (velenosa definizione di Howard Stern) mi ha per l’appunto fregato una volta di più, con un album uscito ufficialmente nel 2001 ma pressoché clandestino fino allo scorso autunno e che non avrei probabilmente mai ascoltato, io che ho quindici centimetri di scaffale occupati da dischi suoi e tutti quelli li ho comprati, non me ne avesse gentilmente fatto omaggio il distributore italiano. Prima di guadagnarsi un giro sul lettore, “The Rainbow Children” ha preso polvere per diversi giorni e rientrava nell’ordine naturale delle cose: in fondo stiamo parlando di uno che ha perso la bussola ─ si dice ─ diversi anni fa, il cui ultimo conclamato capolavoro è datato 1992 e che dopo il burrascoso divorzio dalla Warner a metà dello scorso decennio ha fatto di tutto per diventare l’Uomo Invisibile del Pop. Assenza totale dalle TV e dalle radio. Concerti fissati con pochi giorni di preavviso e non pubblicizzati. Dischi diffusi in qualche caso solo per tramite del suo sito Internet e, per quanto mi è stato dato di leggere, paurosamente ineguali, con sprazzi sì dell’antica grandezza ma soprattutto un’autoindulgenza senza più freni. Che diamine! Uno che non si sapeva nemmeno più come bisognava chiamarlo. E dunque “The Rainbow Children” era un album da ascoltare soltanto per verificare se le canzoni apprezzabili superassero oppure no quelle trascurabili e se valesse la pena di tenerlo in librerie mostruosamente ingombre. Giusto? Sbagliato.
Al primo ascolto mi è sembrato un disco con troppi materiali affastellati uno sull’altro, troppi bersagli puntati senza centrarne alcuno. Comunque interessante. Abbastanza. Al secondo ascolto ho cominciato a reputarlo alquanto buono anche se però… vuoi mettere “1999”, “Purple Rain”, “Parade”, “Sign O’The Times”, “Diamonds And Pearls”? Per intanto una cosa sapevo e cioè che di casa non sarebbe uscito. Terzo ascolto: improvvisamente, mi illumino di immenso. Quarto: peccato che sia datato 2001, peccato non poterlo quindi piazzare nella mia playlist annuale. Quinto e successivi: Prince un giorno mandò a Miles Davis un biglietto in cui, modestamente, si firmava “Dio”. Non so da voi, ma dalle parti di casa mia è tornato a esserlo.
È un album di una densità stordente, “The Rainbow Children”, sin dalla canzone che lo inaugura e battezza e che è non so quante altre canzoni intrecciate in una e tanto per cominciare un plagio bell’e buono (chiamatelo omaggio se volete) dello strumentale errebì per antonomasia Green Onions. Però intrecciato a del jazz, dalle parti del Dave Brubeck di “Time Out”. Però con delle voci che paiono citare i Manhattan Transfer che rifacevano i Weather Report. Però con una chitarra alla Jimi Hendrix. Però con un sax stile King Curtis. Però con un’altra chitarra che scommetteresti essere di Carlos Santana finché non diventa quella di Tony Iommi. Qualche altro milione di cose è successo nel frattempo e miliardi si preparano ad accadere, più di quanto potreste mai immaginare che si concentri in quattordici brani e settanta minuti netti. C’è una Muse 2 The Pharaoh che parte gospel e arriva rap e nel mezzo è pop, è soul, è jazz. C’è una Digital Garden che dall’exotica transita all’hard. C’è una Everywhere che mischia funk, jazz e musica latina inestricabilmente e come di rado si è udito. C’è una Last December che diresti di un redivivo Marvin Gaye fin quando non decidi che certo che no, questo è Ozzy Osbourne, impossibile sbagliarsi. Raccontato così, potrebbe dare l’idea di un gran guazzabuglio, di una sterile dimostrazione di virtuosismo di quelle che amava offrire Frank Zappa. È un concept oltretutto, un romanzo in musica questa storia dei bambini dell’arcobaleno, e si sa quanto farraginose risultino di norma operazioni siffatte. Ma voi non curatevi di quest’ultimo dettaglio come non vi ho badato io, che del resto mai ho fatto più che scorrere a grandi linee le complicatissime storie a fumetti che si snodavano sulle copertine dei dischi di George Clinton e p-funkadelica compagnia. Chissenefrega, fin quando swinga? E “The Rainbow Children” swinga da paura quand’anche cambia stile ogni poche battute con frenesia a momenti zorniana. Ci sono poi brani più lineari, di un’incisività che in altri tempi li avrebbe spediti in cima alle graduatorie di vendita: una The Work Pt.1 che è distillato di James Brown, una Mellow favolosamente sexy, una She Loves Me 4 Me ruffianamente M.O.R., una The Everlasting Now dall’incastro basso-batteria semplicemente travolgente. Sono canzoni che più ancora che l’artista portano ad ammirare l’uomo e la sua attitudine incompromissoria fino all’autolesionismo. Farebbero furore in mano a una multinazionale. Se il portafoglio di Prince di ciò non beneficerebbe forse più di tanto, per il suo ego vorrebbe dire parecchio. Sacrificato persino quello, ed è costui un egocentrico patologico, all’ansia creativa che lo sobilla. Questo signore merita rispetto.
(Dicono che Prince si prenda troppo sul serio 1 ─ Si sa: lui e Michael Jackson si sono sempre scrutati con diffidenza. Il primo non ha mai considerato il secondo un serio concorrente, aspirando piuttosto a essere contato fra i Marvin Gaye e i Miles Davis, e pur di evitare ogni raffronto rifiutò a suo tempo una barca di soldi dalla Coca Cola perché Jackson sponsorizzava la Pepsi. Il secondo ha viceversa cercato il confronto più volte, mostrando di patirlo. Deducete ciò che volete da questi due fatti: 1) Michael Jackson ha chiamato il suo primogenito Prince; 2) Michael Jackson una volta invitò Prince a cena a casa sua, presenti le sorelle Janet e LaToya, e Prince non gli rivolse quasi la parola, preferendo conversare e provarci con quest’ultima. Quando stava registrando “Bad”, Jackson invitò il nostro uomo a duettare con lui nel brano omonimo. Prince: “La prima frase di quella canzone è ‘Il tuo culo è mio’. Io gli dissi: ‘Chi la canta a chi? Perché di certo tu a me non la canti’. Da lì iniziarono i problemi”.)
Che Prince Roger Nelson sia a dir poco un eccentrico, che è un modo elegante per descrivere una persona che proprio “normale” non è, è sempre stato sotto gli occhi di tutti. È un argomento sul quale in linea di massima sorvolerò nelle cartelle a seguire, così come non scriverò di una complicata vita sentimentale che pure qualche riflesso sulla sua arte lo ha avuto e limiterò al minimo le annotazioni sui tanti musicisti che lo hanno affiancato negli anni e questo perché Prince sostanzialmente basta a se stesso: molti dei suoi dischi li ha non soltanto interamente composti, arrangiati e registrati da solo ma se li è pure cantati e suonati senza aiuto alcuno. Il punto è proprio questo: Prince basta a se stesso. Potesse decuplicarsi sul palco, lo farebbe. Potesse avere una relazione sentimentale a uno (direi che ce l’ha), non ne cercherebbe altre e l’aspetto più sgradevole della sua personalità è il modo in cui ha sempre liquidato collaborazioni e amicizie ogni volta che le ha pensate al capolinea: per interposta persona e chiudendo definitivamente, spesso senza un motivo. Leggendarie le bizze di questo narciso e per certo vivergli intorno non dev’essere facile. Ritengo tuttavia che ciò non debba interessarci, contano i dischi e di quelli parlerò. Che l’uomo abbia difficoltà a rapportarsi al mondo è affar suo. Si può magari essere dispiaciuti per lui ma la domanda è: non fosse sempre vissuto in un sostanziale isolamento (quello di un uomo solo al comando, non l’hughesiana follia di Jackson) che ha alimentato il suo stakanovismo, avrebbe prodotto la musica straordinaria che ha prodotto? Sarò egoista come lui ma mi va bene così. Credo comunque che sia felice. Credo che non si sia mai posto seriamente il problema.
I dischi, allora. Il primo album ha venticinque anni (il suo autore ne compirà quarantacinque il prossimo 7 giugno) e li dimostra.
Prosegue per altre 28.378 battute su Super Bad! – Storie di soul, blues, jazz e hip hop. Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.59, aprile 2003. Prince compirebbe oggi sessantacinque anni. Non fosse che…