Re Prince

Mi ha fregato ancora. Quando ero giovane e sciocco, a lungo sottovalutai l’Artista che era all’epoca conosciuto come Prince liquidandolo con qualche frase arrogante senza avergli in realtà dedicato l’attenzione che meritava, fermandomi all’apparenza kitsch e non cogliendo mai la brillantezza di brani che puntualmente scalavano le classifiche. Fino a Kiss, che non era brillante: era geniale. Correva l’anno 1986 e da allora innumerevoli volte sono andato a Canossa a rendere omaggio a quest’uomo, di cui tanto si è scritto e ciò nonostante resta un insondabile mistero. Mai però nella maniera estesa in cui mi appresto a farlo adesso che sono uno sciocco ormai prossimo alla mezza età. Fatto è che l’Artista Del Quale Un Tempo Alla Gente Importava Qualcosa (velenosa definizione di Howard Stern) mi ha per l’appunto fregato una volta di più, con un album uscito ufficialmente nel 2001 ma pressoché clandestino fino allo scorso autunno e che non avrei probabilmente mai ascoltato, io che ho quindici centimetri di scaffale occupati da dischi suoi e tutti quelli li ho comprati, non me ne avesse gentilmente fatto omaggio il distributore italiano. Prima di guadagnarsi un giro sul lettore, “The Rainbow Children” ha preso polvere per diversi giorni e rientrava nell’ordine naturale delle cose: in fondo stiamo parlando di uno che ha perso la bussola ─ si dice ─ diversi anni fa, il cui ultimo conclamato capolavoro è datato 1992 e che dopo il burrascoso divorzio dalla Warner a metà dello scorso decennio ha fatto di tutto per diventare l’Uomo Invisibile del Pop. Assenza totale dalle TV e dalle radio. Concerti fissati con pochi giorni di preavviso e non pubblicizzati. Dischi diffusi in qualche caso solo per tramite del suo sito Internet e, per quanto mi è stato dato di leggere, paurosamente ineguali, con sprazzi sì dell’antica grandezza ma soprattutto un’autoindulgenza senza più freni. Che diamine! Uno che non si sapeva nemmeno più come bisognava chiamarlo. E dunque “The Rainbow Children” era un album da ascoltare soltanto per verificare se le canzoni apprezzabili superassero oppure no quelle trascurabili e se valesse la pena di tenerlo in librerie mostruosamente ingombre. Giusto? Sbagliato.

Al primo ascolto mi è sembrato un disco con troppi materiali affastellati uno sull’altro, troppi bersagli puntati senza centrarne alcuno. Comunque interessante. Abbastanza. Al secondo ascolto ho cominciato a reputarlo alquanto buono anche se però… vuoi mettere “1999”, “Purple Rain”, “Parade”, “Sign O’The Times”, “Diamonds And Pearls”? Per intanto una cosa sapevo e cioè che di casa non sarebbe uscito. Terzo ascolto: improvvisamente, mi illumino di immenso. Quarto: peccato che sia datato 2001, peccato non poterlo quindi piazzare nella mia playlist annuale. Quinto e successivi: Prince un giorno mandò a Miles Davis un biglietto in cui, modestamente, si firmava “Dio”. Non so da voi, ma dalle parti di casa mia è tornato a esserlo.

È un album di una densità stordente, “The Rainbow Children”, sin dalla canzone che lo inaugura e battezza e che è non so quante altre canzoni intrecciate in una e tanto per cominciare un plagio bell’e buono (chiamatelo omaggio se volete) dello strumentale errebì per antonomasia Green Onions. Però intrecciato a del jazz, dalle parti del Dave Brubeck di “Time Out”. Però con delle voci che paiono citare i Manhattan Transfer che rifacevano i Weather Report. Però con una chitarra alla Jimi Hendrix. Però con un sax stile King Curtis. Però con un’altra chitarra che scommetteresti essere di Carlos Santana finché non diventa quella di Tony Iommi. Qualche altro milione di cose è successo nel frattempo e miliardi si preparano ad accadere, più di quanto potreste mai immaginare che si concentri in quattordici brani e settanta minuti netti. C’è una Muse 2 The Pharaoh che parte gospel e arriva rap e nel mezzo è pop, è soul, è jazz. C’è una Digital Garden che dall’exotica transita all’hard. C’è una Everywhere che mischia funk, jazz e musica latina inestricabilmente e come di rado si è udito. C’è una Last December che diresti di un redivivo Marvin Gaye fin quando non decidi che certo che no, questo è Ozzy Osbourne, impossibile sbagliarsi. Raccontato così, potrebbe dare l’idea di un gran guazzabuglio, di una sterile dimostrazione di virtuosismo di quelle che amava offrire Frank Zappa. È un concept oltretutto, un romanzo in musica questa storia dei bambini dell’arcobaleno, e si sa quanto farraginose risultino di norma operazioni siffatte. Ma voi non curatevi di quest’ultimo dettaglio come non vi ho badato io, che del resto mai ho fatto più che scorrere a grandi linee le complicatissime storie a fumetti che si snodavano sulle copertine dei dischi di George Clinton e p-funkadelica compagnia. Chissenefrega, fin quando swinga? E “The Rainbow Children” swinga da paura quand’anche cambia stile ogni poche battute con frenesia a momenti zorniana. Ci sono poi brani più lineari, di un’incisività che in altri tempi li avrebbe spediti in cima alle graduatorie di vendita: una The Work Pt.1 che è distillato di James Brown, una Mellow favolosamente sexy, una She Loves Me 4 Me ruffianamente M.O.R., una The Everlasting Now dall’incastro basso-batteria semplicemente travolgente. Sono canzoni che più ancora che l’artista portano ad ammirare l’uomo e la sua attitudine incompromissoria fino all’autolesionismo. Farebbero furore in mano a una multinazionale. Se il portafoglio di Prince di ciò non beneficerebbe forse più di tanto, per il suo ego vorrebbe dire parecchio. Sacrificato persino quello, ed è costui un egocentrico patologico, all’ansia creativa che lo sobilla. Questo signore merita rispetto.

(Dicono che Prince si prenda troppo sul serio 1 ─ Si sa: lui e Michael Jackson si sono sempre scrutati con diffidenza. Il primo non ha mai considerato il secondo un serio concorrente, aspirando piuttosto a essere contato fra i Marvin Gaye e i Miles Davis, e pur di evitare ogni raffronto rifiutò a suo tempo una barca di soldi dalla Coca Cola perché Jackson sponsorizzava la Pepsi. Il secondo ha viceversa cercato il confronto più volte, mostrando di patirlo. Deducete ciò che volete da questi due fatti: 1) Michael Jackson ha chiamato il suo primogenito Prince; 2) Michael Jackson una volta invitò Prince a cena a casa sua, presenti le sorelle Janet e LaToya, e Prince non gli rivolse quasi la parola, preferendo conversare e provarci con quest’ultima. Quando stava registrando “Bad”, Jackson invitò il nostro uomo a duettare con lui nel brano omonimo. Prince: “La prima frase di quella canzone è ‘Il tuo culo è mio’. Io gli dissi: ‘Chi la canta a chi? Perché di certo tu a me non la canti’. Da lì iniziarono i problemi”.)

Che Prince Roger Nelson sia a dir poco un eccentrico, che è un modo elegante per descrivere una persona che proprio “normale” non è, è sempre stato sotto gli occhi di tutti. È un argomento sul quale in linea di massima sorvolerò nelle cartelle a seguire, così come non scriverò di una complicata vita sentimentale che pure qualche riflesso sulla sua arte lo ha avuto e limiterò al minimo le annotazioni sui tanti musicisti che lo hanno affiancato negli anni e questo perché Prince sostanzialmente basta a se stesso: molti dei suoi dischi li ha non soltanto interamente composti, arrangiati e registrati da solo ma se li è pure cantati e suonati senza aiuto alcuno. Il punto è proprio questo: Prince basta a se stesso. Potesse decuplicarsi sul palco, lo farebbe. Potesse avere una relazione sentimentale a uno (direi che ce l’ha), non ne cercherebbe altre e l’aspetto più sgradevole della sua personalità è il modo in cui ha sempre liquidato collaborazioni e amicizie ogni volta che le ha pensate al capolinea: per interposta persona e chiudendo definitivamente, spesso senza un motivo. Leggendarie le bizze di questo narciso e per certo vivergli intorno non dev’essere facile. Ritengo tuttavia che ciò non debba interessarci, contano i dischi e di quelli parlerò. Che l’uomo abbia difficoltà a rapportarsi al mondo è affar suo. Si può magari essere dispiaciuti per lui ma la domanda è: non fosse sempre vissuto in un sostanziale isolamento (quello di un uomo solo al comando, non l’hughesiana follia di Jackson) che ha alimentato il suo stakanovismo, avrebbe prodotto la musica straordinaria che ha prodotto? Sarò egoista come lui ma mi va bene così. Credo comunque che sia felice. Credo che non si sia mai posto seriamente il problema.

I dischi, allora. Il primo album ha venticinque anni (il suo autore ne compirà quarantacinque il prossimo 7 giugno) e li dimostra.

Prosegue per altre 28.378 battute su Super Bad! – Storie di soul, blues, jazz e hip hop. Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.59, aprile 2003. Prince compirebbe oggi sessantacinque anni. Non fosse che…

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Sleaford Mods – UK Grim (Rough Trade)

“Invettive per la classe lavoratrice su basi di elettronica minimalista”: così gli Sleaford Mods – il cantante ma più che altro comiziante Jason Williamson provvede alle prime, il dj Andrew Fern alle seconde – riassumono uno stile e un sound che possono piacere o no ma perlomeno sono inconfondibili. Altri hanno provveduto a descriverli così: “loop punitivi di basso pugilistico post-punk a disegnare ritmi funzionali ma poco attraenti con sopra elementari riff tastieristici e svogliati tocchi di chitarra”. Fern la mette giù più semplice: “Un pattern di drum machine scrauso e una linea di basso”. Non sembrerebbe la formula alchemica per trasformare ogni disco in oro ma, pubblicato da una settimana, nel momento in cui scrivo il dodicesimo album del duo di Nottingham (sarebbe in realtà il settimo visto che nei primi quattro e ultraclandestini Fern non c’era e che quello che dava il “la” al sodalizio non era che un CD-R; impagabile il titolo: “Wank”) è terzo nelle classifiche UK, migliorando di una posizione il piazzamento del precedente “Spare Ribs” e di sei quello di “Eton Alive”. Che era nel 2019 il disco con il quale questi due bruttissimi ceffi (vista la copertina?) e finissimi ingegni cominciavano a diventare enormi. Un’istituzione dalle parti di casa loro in maniera non dissimile da come lo furono Ian Dury e Mark E. Smith ed è, in altro ambito, Ken Loach.

Premesso che a non essere britannici si perde metà del loro senso della vita, c’è da sottolineare come musicalmente costoro si stiano sempre più affinando. “UK Grim” è per lunghi tratti irresistibile. In particolare quando gira più dalle parti di Ian Dury (Right Wing Beast, So Trendy) che da quelle di Mark E. Smith (Don, Pit 2 Pit).

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.452, aprile 2023.

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The Church – The Hypnogogue (Communicating Vessels)

Per certo Steve Kilbey ignora cosa voglia dire “blocco dello scrittore”. Il ventiseiesimo lavoro in studio dei Church esce a sei anni da “Man Woman Life Death Infinity” e mai gli Australiani si erano fatti attendere tanto. Ma sapete quanti titoli da solista o collaborazioni ha nel frattempo pubblicato il nostro uomo? Nove. La sua produzione in proprio supera quella con la band e chissà se esiste qualcuno al mondo che possiede per intero lo sterminato catalogo. Forse nemmeno l’artista stesso, uno che fu a un passo dal diventare una rockstar e accadeva nel 1988, quando forti già di quattro album di crescente successo e una manciata di canzoni della caratura dei classici (le prime due, For A Moment We’re Strangers e The Unguarded Moment, rispettivamente prima e terza in scaletta nel magnifico debutto datato ’81 “Of Skins And Heart”) i Church andavano al numero 11 delle classifiche patrie con “Starfish” e, quel che più conta, quatti quatti ne vendevano mezzo milione di copie negli USA. Clamoroso del resto il potenziale di un sound egualmente intrigante per i fans della neo-psichedelia e quelli della new wave. Sarebbero potuti essere degli altri R.E.M., ma pure dei piccoli U2 alternativi, e sarà stata magari colpa anche di una produzione troppo dispersiva se non andò così.

Vedasi “The Hypnogogue”. Non gli difettano bei momenti – Ascendence, vagamente kosmische; Flickering Lights, pianistica e minimale alla Talk Talk; la ballata folk-rock Albert Ross; Antarctica, guerriera con tratti gotici e un interludio rarefatto – ma dura complessivamente una quaresima, troppo per sole tredici tracce molte delle quali avrebbero tratto giovamento da una sforbiciata. A chi consigliarlo senza remore? A chi ha già tutto o quasi, se c’è.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.452, aprile 2023.

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Il buio ai margini della città – I 45 anni splendidamente portati di “Darkness On The Edge Of Town”

L’abisso che divide “Darkness On The Edge Of Town” dal predecessore è scavato già da una copertina che immortala uno Springsteen stanco, lontano da quello sorridente, dall’espressione e dalla posa simpaticamente smargiasse, del disco prima. Era quello, in fondo, ancora un ragazzo pieno di illusioni romantiche che rispondeva alle sfide della vita con foga guascona. Tre anni dopo è un uomo alle prese con domande più grandi di lui e ineludibili, più o meno tutte, anche quelle più private, riguardanti il rapporto conflittuale fra lui e il padre, in rapporto con il Quesito per eccellenza degli Stati Uniti del dopo Kennedy: com’è che il Sogno Americano è andato in malora, e quando? Domanda che non permette, per citare il ritornello della dolente Something In The Night, che nulla sia “perdonato o dimenticato”. Se “Born To Run” era stato in un certo senso un American Graffiti, “Darkness”, pieno di sequenze notturne in bianco e nero e fortemente contrastate e cupo come solo “Nebraska” sarà, è davvero Furore. Il tono, in questo viaggio alla ricerca delle radici proletarie degli Springsteen, è quello del reportage e non fu casuale la scelta di caratteri da macchina da scrivere per titoli, note e testi. Nella voce del cantore di queste storie amare si avverte una desolazione (che pure non chiude del tutto le porte alla speranza) che stringe il cuore in una morsa, mentre alle sue spalle le chitarre stridono, organo e sax ululano funerei, la batteria pulsa come l’ingranaggio di un macchinario e giusto il piano di Bittan regala sprazzi di giocosità. Wow! Rock’n’roll.

La tensione drammatica è alta da subito. Nonostante Badlands sia scandita da un saltellante ritmo alla Bo Diddley la sua sostanziale fissità è l’opposto della spumeggiante gioia di vivere di una She’s The One, benché Springsteen canti “credo nell’amore che mi donasti/credo nella speranza che può salvarmi” e dichiari che “non c’è peccato nell’essere felici di esser vivi”. Un singolare contrasto con quei versi di Adam Raised A Cain, che deve la trama al film La valle dell’Eden e molto nella musica al classico soul Raise Your Hand (all’epoca una presenza fissa nei concerti), che recitano “nasci in questa vita scontando/i peccati del passato di qualcun’altro/Papà ha lavorato tutta la vita senz’altra paga/che il dolore”.

Una soffocante tristezza pervade Something In The Night e Racing In The Street, due ballate guidate dal piano che mostrano i vicoli ciechi dove sono andati a imbucarsi i corridori di Born To Run. Le inframmezza l’unico uptempo dell’album, Candy’s Room, che si apre su una voce desolata recitante sul tintinnare frenetico dei piatti della batteria e nel procedere si fa travolgente celebrazione dell’amore. Due canzoni in una, ricorderete: la migliore possibile.

Apre il secondo lato The Promised Land, che grazie al suo intreccio e alla successione di assoli è un brano esemplare per comprendere la dinamica dei rapporti fra gli strumenti della E Street Band. La Terra Promessa nella quale il protagonista dichiara di credere appare meno di un sogno, dacché la realtà è quella di Factory ─ cadenza industriale, pianoforte e l’organo di Federici che piange in lontananza ─ delle vite sacrificate a un sistema produttivo disumano. L’organo chiesastico e il gioco di vuoti e pieni, memori di Jungleland, di Streets Of Fire e l’incedere rock’n’roll di Prove It All Night introducono alla canzone che intitola il disco e lo conclude: la voce è indicibilmente mesta, la musica lentissima. Sembrerebbe che il film debba chiudersi con un fermo immagine: invece la pellicola, cigolando, si riavvia e il protagonista va a saldare il debito procuratogli dal volere cose “che possono essere trovate soltanto/nell’oscurità ai margini della città”.

Tratto da Bruce Springsteen – L’ultimo romantico del rock’n’roll. Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.7, autunno 2002. Basato in parte su materiali usati in precedenza in Bruce Springsteen ─ Strade di fuoco (Giunti, 1998). Ristampato in Extraordinaire 1 – Di musiche e vite fuori dal comune. “Darkness On The Edge Of Town” compie oggi quarantacinque anni.

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Shame – Food For Worms (Dead Oceans)

Se una cosa si poteva rimproverare ai londinesi Shame ─ giovanissimi quando debuttavano nel 2018 con il contundente, ruggente, a tratti feroce “Songs Of Praise” ─ era un’eccessiva aderenza ai due modelli peraltro da lungi con più tentativi di imitazione da quelle parti, Fall e Gang Of Four. Valeva ancora per il secondo e comunque formidabile album, datato 2021, “Drunk Tank Pink”, per quanto più che cavarsela con l’abusata etichetta “post-punk” si potesse e dovesse continuare a parlare nel loro caso di “post-hardcore”. Erano “non per tutti, ma impressionanti” e impressionanti restano, ma per due ragioni una conseguente all’altra: perché, avendo inteso che con un terzo lavoro in studio sulla falsariga dei predecessori si sarebbero infilati in un vicolo cieco, hanno preferito cambiare; e per come l’hanno fatto.

Che si tratti di tutt’altra musica provvede a chiarirlo già l’iniziale Fingers Of Steel, mischiando incongruamente quanto felicemente i DNA di Arcade Fire (i primi) e Buzzcocks, e se come azzardo non vi pare abbastanza ecco tallonarla Six-Pack, che fra le dieci tracce che sfilano in “Food For Worms” è l’unica in cui il fantasma di Mark E. Smith fa una comparsata, ma per incontrarne un altro che non ti aspetteresti mai, Jimi Hendrix, e portarlo a un concerto dei black midi. Ascoltare per credere, anche se in fondo sorprende appena meno del fatto che subito dopo gli Shame declinino in Yankees classico indie rock da medi ’90, che in Orchid dispieghino chitarre acustiche (torneranno nella conclusiva All The People) e persino un piano, in World Gets Better scintilli del jazz, in Different Person si palesino quei Talking Heads evocati al giro prima ma lì mai concretizzatisi.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.451, marzo 2023.

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Audio Review n.453

È in edicola dalla scorsa settimana il nuovo numero di “Audio Review”. Nella sezione musicale mie recensioni degli ultimi album di A Certain Ratio, boygenius, Peter Case, Lucinda Chua, Deerhoof, Fever Ray, Hold Steady, Lonnie Holley, Long Ryders, Doug Paisley, Alasdair Roberts, Emiliana Torrini & The Colorist Orchestra, Yves Tumor e Nick Waterhouse e di una ristampa di Bob Weir. Pagina del vinile dedicata ai primi tre LP di Joe Ely.

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Il magico 1968 dell’ippogrifo Pentangle

Registrato nell’autunno 1968 e pubblicato nel gennaio dell’anno dopo “Birthday Blues” resterà per due anni e mezzo l’ultima prova da solista di Bert Jansch, a quell’altezza occupato a tempo pieno dall’avventura Pentangle. Ha ragione Richie Unterberger quando osserva che è un po’ come ascoltare i Pentangle ma in una versione sbilanciata, con la ritmica consuetamente lì storta e là swingante ma senza la seconda chitarra a contrappuntare quella che da sola si prende il proscenio e senza la voce femminile tanto caratterizzante e, oggettivamente, infinitamente più suggestiva. Non è la migliore prova dell’autore né da solista né in un contesto di gruppo e nondimeno qualche articolo di vaglia al suo favoloso catalogo, oltre alla già citata I Am Lonely, lo aggiunge: una fiabesca Tree Song; la virtuosistica (dedica alla sua signora) Miss Heather Rosemary Sewell; una A Woman Like You che azzarda il raga; una traccia omonima squisitamente barocca benché in solitario e scandalosamente breve.

Non avrà a lungo un successore, il Blues del Compleanno, perché l’ippogrifo Pentangle (ha presente il lettore? bestia leggendaria che fonde in sé quattro diversi animali e qui sarebbero cinque, ma due sono il medesimo) a quel punto vola ormai altissimo. Ci sono voluti due americani per propiziarne l’ascesa verso empirei di stardom e immortalità: uno è Jo Lustig, manager di pochi scrupoli quanto di efficacissimo attivismo, capace di procurare alla band una copertura mediatica impressionante, su una stampa specializzata che al tempo decide fortune e sfortune così come da parte della BBC; l’altro è il produttore Shel Talmy, uno cui già gli Who e i Kinks dovevano non tanto ma tantissimo e scusate se è poco. Saranno però i Pentangle il suo capolavoro: firma la regia dei loro primi tre album e non ci si crede quanto suonino bene. Il primo in particolare, inciso con a disposizione appena quattro piste dentro le quali riusciva ad accomodare un sound pazzamente caleidoscopico. Questo sia subito chiaro: se routinariamente si indica nel quintetto, a pari merito con i Fairport Convention (uno scalino sotto gli Steeleye Span; la Incredible String Band un’altra roba), la massima espressione del folk-rock britannico è per convenzione, per comodità di discorso. Giustamente con chi glielo dice Danny Thomson si infuria e rivendica che trattavasi, semmai, di folk-jazz. Non tanto per l’uso da parte sua di un contrabbasso, e non di un basso elettrico, quanto per la preferenza data a tempi altri (che cambiano magari durante lo stesso pezzo) rispetto al canonico 4/4. Nei Pentangle quasi mai la ritmica è squadrata: ondeggia, swinga, prende abbrivi marziali. E certe sonorità e scale ─ di una chitarra elettrica che pare a volte un sitar; e ogni tanto è proprio un sitar a far capolino ─ che istintivamente l’ascoltatore di rock non può non collegare alla psichedelia arrivano in realtà dalle musiche indiane, arabe, magari dell’Est Europa. Fra l’altro: senza che ciò mai incida sulla stratosferica qualità delle performance, assai spesso la nostra combriccola si presenterà alla ribalta in stato di alterazione collettiva (in special modo i due chitarristi), ma alcolica, non di origine chimica.

Ancora Unterberger (in Eight Miles High, secondo tomo di una poderosa e imprescindibile storia del folk-rock) si spinge, un po’ spericolatamente, a dire i Pentangle i Beatles del versante britannico della scena. In questo senso ha ragione: che furono un gruppo in cui ciascuno dei cinque membri evidenziava una personalità forte, unica, chiaramente a sé rispetto alle altre quattro. Ci sta. Ma allora si può anche chiamarli i CSN&Y: per gli intrecci vocali e per l’abitudine di ricavare parentesi solistiche negli spettacoli dal vivo.

“The Pentangle” vede la luce a un anno quasi esatto (meno dieci giorni; il 17 maggio 1968) dal primo concerto. Chiaro che l’intesa si è affinata e, se la freschezza è da esordio, le si abbina la perfezione della macchina ampiamente rodata, ciascun ingranaggio funzionale all’armonioso muoversi d’assieme. Degli otto brani che compongono il succinto programma (trentuno minuti scarsi) solo metà è originale e inoltre ─ laddove Pentangling è sin dal titolo il manifesto di un suono mercuriale che scappa verso ogniddove fra momenti incantati, strappi e vortici ─ Bells e Waltz non sono che due (deliziose) scuse per esibire la magistrale padronanza dei rispettivi strumenti di Cox e Thompson. Mentre la pigramente arabeggiante Mirage è la versione per band di una peregrinazione di Jansch fra dune desertiche. Eppure: è un gruppo dalla personalità tanto straripante da evidenziarsi maggiormente nei materiali che rielabora: il gospel degli Staple Singers Hear My Call, girato jazz; i tradizionali Let No Man Steal Your Thyme e Way Behind The Sun, trascinati verso derive lisergiche da (per osare ulteriormente) Jefferson Airplane britannici; e Bruton Town, che parte minuetto e trasfigura in saga.

Proprio Bruton Town, e oltretutto relegata a fondo scaletta, è l’unica traccia del debutto presente nel disco dal vivo che, accoppiato a uno in studio, dà vita già entro fine anno al viceversa assai corposo seguito, “Sweet Child”. Scelta coraggiosa quella di uscirsene già con un doppio che giova alla crescente reputazione della band, se non a vendite che permangono modeste in rapporto all’entusiasmo di critica e pubblico pagante (ai concerti). La precedono lungo quaranta minuti undici brani inediti (la ristampa in CD oggi in catalogo offre lo spettacolo intero, chiarendo che da quel punto in poi l’esordio veniva ripreso quasi integralmente): resta forse il migliore riassunto di un canone capace di includere con disarmante naturalezza blues inacidati (l’autografa Market Song) come arcaici (il vivace omaggio a Furry Lewis Turn Your Money Green), ballate dal modernista (No More My Lord) al favolistico (Watch The Stars), una sinossi perfetta di folk barocco (Three Dances), mo-nu-men-ta-li riletture di due fra i massimi capolavori di Charles Mingus (Haitian Fight Song e Goodbye Pork Pie Hat) e poco dopo una performance a cappella di Jacqui McShee (So Early In The Spring) di una bellezza semplicemente paralizzante. Un gradito ritorno: The Time Has Come, adesso elettrica. Dal raffronto il 33 giri in studio risulta a momenti sminuito, a un primo ascolto almeno. Ma prolungandosi la frequentazione se ne evidenzia una seduzione più quieta quanto al pari persistente. Rappresentano apici stellari una canzone inaugurale e omonima dal sognante al turbinoso, l’ansiogeno strumentale (Thompson suona con l’archetto) Three Part Sing, il valzer sull’orlo della schizofrenia I’ve Got A Feeling (ispirato da Miles Davis), la ritmica Moon Dog, una Hole In The Coal che è di Ewan MacColl e parrebbe invece (ebbene sì e ancora) dell’adorato Mingus.

Dopo avere tanto seminato nel 1968 i Pentangle raccolgono nel 1969, con l’album che i più considerano il loro grande classico (tutti quelli che non gli preferiscono “Sweet Child”): “Basket Of Light”. Finalmente superstar, quinti nelle classifiche UK.

Tratto da Bert Jansch – La ballata di un enigma. Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.237, febbraio 2018. Ristampato in Extraordinaire 2 – Di musiche e vite fuori dal comune. Il primo, omonimo album dei Pentangle vedeva la luce il 17 maggio 1968, cinquantacinque anni fa.

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Robert Forster – The Candle And The Flame (Tapete)

Pur avendo ottenuto buoni risultati in una prima carriera solistica che lo vedeva pubblicare fra il ’90 e il ’96 quattro lavori in studio, per certo Robert Forster avrebbe fatto volentieri a meno di intraprenderne nel 2008 una seconda che ne ha fruttato con questo altrettanti. È che si metteva in proprio quando quei magnifici Smiths-prima-degli Smiths che furono i Go-Betweens si scioglievano, giustamente offesi dall’indifferenza del mondo (fa oggi sorridere agro che a un dato punto molti fra i loro pochi cultori li accusassero di essersi “commercializzati”: era appena uscito l’album con cui sembrò chiudersi la loro vicenda, “16 Lovers Lane”, un numero 48 nella natia Australia, 81 nel Regno Unito). E ci si rimetteva quando il sodalizio con Grant McLennan (li dissero i Lennon/McCartney del pop chitarristico degli anni ’80: esagerando un po’, non troppo; in linea di massima Robert era John), felicissimamente rinnovato nel 2000, tragicamente si scioglieva di nuovo e per sempre nel 2006, causa dipartita per infarto a soli quarantott’anni dell’amico e socio. Ne avrebbe fatto a meno, ma visto che è andata come è andata vale come consolazione che il superstite ogni tanto ci regali una manciata di canzoni nuove. Mai troppo distanti dalle vette olimpiche toccate in una giovinezza costellata di classici.

“The Candle And The Flame” ne mette in fila nove, le migliori verso metà programma: una Pale Blue Eyes sbarazzina chiamata It’s Only Poison, la ballata country a due voci I Don’t Do Drugs I Do Time, una Always da Modern Lovers prima maniera. Inaugura con giocosa grinta She’s A Fighter. Apprendere che è dedica alla moglie (nonché partner pure artistica) Karin Bäumler, alle prese con seri problemi di salute, prima spiazza, poi commuove.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.451, marzo 2023.

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Feel Like Being A Silver Machine – Hawkwind, 1970-1977

La notizia è – sarebbe – che sono usciti due box degli Hawkwind. Peccato che celebrino due decenni durante i quali il gruppo, pur restando dignitoso, ha cessato di essere rilevante. La non-notizia allora è un’altra: gli Hawkwind si apprestano a festeggiare i loro primi quarant’anni. Incredibile ma vero.

Incredibile ma vero, al dio del rock (che ultimamente si sta facendo bestemmiare come non mai) piacendo, è che – a parte il povero Bob Calvert, che ci lasciava quarantatreenne nell’agosto ’88 – ci arrivino in condizioni smaglianti per dei signori in prevalenza più prossimi ai settanta che ai sessanta e che hanno vissuto una vita spericolata come nessuno mai. I due principali protagonisti della saga, il chitarrista Dave Brock e il sassofonista Nik Turner, si sono da tempo ritirati in campagna e immaginarseli agricoltori a menare un’esistenza scandita dai cicli della luce e delle stagioni è una visione surreale. Stiamo parlando di una delle band più quintessenzialmente metropolitane di sempre. Stiamo parlando dei compagni di merende di… state a sentire come il bassista Lemmy Kilmister racconta dell’approccio a un concerto londinese rimasto epocale, quello durante il quale furono incise le piste strumentali (la voce poi sostituita in studio) del singolo Silver Machine, un numero 3 nelle classifiche UK nel luglio 1972 e rimasto la più grande hit dei nostri squinternati eroi.

Io e Dikmik (Davies, il tastierista; NdA) eravamo pieni di dexedrina fino agli occhi, in piedi da quattro giorni e quattro notti e allora si cominciava a essere nervosi. Bisognava fare questo spettacolo e avevamo bisogno di calmarci. Così buttiamo giù del Mandrax, ma dopo un po’ ci piglia la noia e allora ci fumiamo un paio di cannoni di nero. Arriviamo alla Roundhouse e salta fuori dell’altro nero. Ci spariamo quell’altra decina di spinelli belli carichi a testa. Siamo di nuovo schizzati come bestie e per rilassarci caliamo altro Mandrax, tre pillole ciascuno. È stato a quel punto che ci hanno portato della coca… Cazzo, delle borse piene di coca. Be’, l’abbiamo assaggiata, naturale. Bussano al camerino per dirci che è ora di andare in scena e a quel punto ho il corpo talmente irrigidito da essere come paralizzato. Gli faccio: ‘Ehi, Dikmik! Non riesco più a muovermi!’. E lui: ‘Neanch’io! Figo, eh?

Pensate che quel concerto, registrazione di Silver Machine a parte, fu un disastro? Niente affatto. Chi c’era lo magnifica come un trionfo e, se credete siano ricordi falsati dalle sostanze assunte non solo dal gruppo ma più o meno dall’intera platea, in assenza di una macchina del tempo potete andare a toccare con orecchio il fenomenale “Space Ritual”, doppio live datato ’73, inequivocabile testimonianza di come una compagine per il resto sommamente disfunzionale messa su un palco riuscisse invariabilmente, in qualche pazzesco modo, a funzionare alla perfezione. Eccellenti in studio, trascendentali dal vivo: almeno in questo il ricorrente paragone con i Grateful Dead tiene. “Potevamo diventare degli altri Pink Floyd”, sospirava ridacchiando Brock nel 1999, concedendosi a “Mojo”. Furono invece i papà dei Sex Pistols.

Prosegue per altre 7.584 battute su Venerato Maestro Oppure ─ Percorsi nel rock 1994-2015. Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.656, marzo 2009. “Space Ritual” vedeva la luce cinquanta esatti anni fa.

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Laura Cox – Head Above Water (Verycords)

Dice qualcuno di noi vecchi babbioni che in fondo in fondo (probabilmente a destra, dove di solito stanno i bagni) è un bene che esistano i Måneskin. Che almeno grazie a loro una nuova generazione si sta appassionando al rock, che sarebbe quella musica che si suona con una chitarra elettrica o due, un basso, una batteria, magari una tastiera, e sono strumenti le cui vendite si sono impennate dacché Damiano, compagna e compagni sono in circolazione. Dice che sì, è vero, le loro canzoni paiono scritte da un programma informatico e l’esibito ribellismo sa di pantomima ma, comunque e insomma, “sempre meglio che la trap”. Parliamone. Ma anche no.

Parliamo invece di Laura Cox, nata in Francia trentadue anni fa da madre francese e padre inglese, formalmente al secondo album ma in realtà al terzo contando un debutto a nome Laura Cox Band. Brava chitarrista e a partire da Wikipedia non vi è chi non lo sottolinei, magari poi elencando quante e quali chitarre usa, corde, distorsori, amplificatori, tutto l’ambaradan. Per intendere che fa ROCK non serve nemmeno ascoltarlo, “Head Above Water”, essendo sufficiente notare la posa dell’artefice in copertina e il lettering della stessa, peraltro identico a quello del predecessore del 2019 “Burning Bright”. Primo titolo in scaletta Fire Fire: tanto per mettere le cose in chiaro. Qui il primo è una traccia omonima rigurgitata da un programma informatico che si è incaricato di fare sinossi del catalogo dei Rolling Stones. Seguono So Long, che fa lo stesso con quello degli ZZ Top, e One Big Mess, che parte con un assolo che manco il compianto Eddie Van Halen ma ci sta, perché se sai suonare perché non farlo sapere? E così via. Comunque sempre meglio che la trap. Forse.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.451, marzo 2023.

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