Affermare che proclamando il terzo lavoro in studio dei Maccabees “il primo album classico del 2012” il “New Musical Express” ha un po’ esagerato sarebbe un understatement appropriatamente assai British. Del capolavoro – che per definizione è destinato a durare – “Given To The Wild” non ha nulla: non un suono che dire derivativo sarebbe di nuovo un eufemismo né una singola canzone che garantisca di durare più di tre stagioni, ossia fino a un’estate in cui il quintetto londinese prevedibilmente sarà mattatore in questo e in quel festival. E nondimeno, siccome pure a spararle sempre grosse per la legge dei grandi numeri una ogni tanto la si azzecca, proprio nei giorni in cui si copriva di ridicolo individuando in Vaccines, Bombay Bicycle Club e Iceage il futuro del rock’n’roll e negando nel contempo l’evidenza, che fra le masse il pop con le chitarre sia a uno dei suoi minimi di popolarità di sempre, l’ultimo dei settimanali musicali un bersaglio l’ha colpito: quasi non ha fatto in tempo a giungere nei negozi e subito il nuovo Maccabees è andato altissimo in classifica. Quarto nella prima settimana quando i predecessori non erano riusciti a entrare il primo nei Top 20 e il secondo nei Top 10. Che i ragazzi siano sulla strada per lo stardom è indubbio. Per le future storie del rock non mi sembrano ancora attrezzati.
Disco anche gradevole, poi, e del resto lo era parso pure “Colour It In”, che nel 2007 aveva provocato brividi di eccitazione inconsulta nelle anime belle ignare dell’esistenza di Futureheads, Interpol, Bloc Party (di loro non esattamente dei non plus ultra di originalità). E così “Wall Of Arms”, che nel 2009 non aveva nemmeno provato a nascondere la sua devozione totale per gli Arcade Fire. Comunque meno sfacciato, il successore parte dal presupposto che nel mondo possa esserci spazio per degli altri Coldplay, che forse una Glimmer (ad esempio) non si sarebbero azzardati a pubblicarla per tema che sembrasse troppo stereotipata. Laddove più che scorie di U2 incrostano Heave, i Waterboys primevi risuonano forte e chiaro in Go, i Talk Talk di mezzo in Slowly One: tutte cose studiate per bene dai Coldplay medesimi e siamo dunque alla copia della copia, l’effetto un po’ quello che si produsse – per dire – quando nei ’70 torme di gruppi presero a modellare il loro sound sui Led Zeppelin senza andarsi ad ascoltare i Willie Dixon o i Bert Jansch.