Come una discussione notturna in un bar fra Bruce Springsteen, Jimmy Page e Raymond Carver, scriveva nel 2010 un critico americano, riferendosi nello specifico a quello che resta a oggi l’ultimo album degli Hold Steady, “Heaven Is Whenever”, ma nell’ambito di un discorso più generale su un catalogo che conta una mezza dozzina di articoli maggiori. Definizione fantastica, che ho invidiato e sottoscrivo. Per un altro recensore l’affidabilità del blue-collar rock del gruppo capitanato sin dai primi passi, datati 2000, da Craig Finn (ancora prima in tutt’altre faccende affaccendato con gli art-punk Lifter Puller) si dimostrava pari a quella di una Chevy del 1969 il cui olio è stato appena cambiato da… esatto, Bruce Springsteen. Cercate tutti gli articoli che volete sulla compagine newyorkese e provate a scovarne uno, uno solo, che non citi almeno di passaggio il Boss. Non lo troverete. Questione non solo di grana della voce, talvolta simile in misura imbarazzante, o di altrettanto evidenti affinità musicali, ma soprattutto di storie raccontate e contesti nei quali le si colloca. Lo sappiamo tutti: c’è una zona oscura ai margini della città e proprio lì abitano i perdenti romantici e combattivi cantati da Finn. Che a Brooklyn nel 2000 arrivava da Minneapolis portando seco un altro altarino votivo: ai Replacements di Paul Westerberg. A chi se no? E, presumibilmente, una collezione di LP dei Thin Lizzy.
Scorro gli appunti presi ascoltando quello che per questo quarantenne occhialuto, che a guardarlo tutto diresti tranne che una rockstar, è il debutto da solista e no, “Springsteen” non l’ho scritto da nessuna parte e me ne rendo conto solo ora. Un paio di volte ho scarabocchiato “Dylan”. Commentando No Future, pop-rock su un substrato di folk dallo scintillante al vorticoso che fra le undici canzoni contenute nel disco è quella con le migliori possibilità di venire notata dalle radio. Vicino a Terrified Eyes, che insieme ha evocato l’immagine di un Jonathan Richman di nuovo plugged e con l’innocenza infine pensionata. Laddove in Rented Room ho rinvenuto più di qualcosa di un Van Morrison “into the mystic” ed è il brano che ho maggiormente apprezzato di un album tematicamente al cento per cento nel canone dell’autore ma musicalmente diverso da qualunque suo precedente lavoro. Si potrebbe dirlo, molto all’incirca, il suo disco country-rock (con un tocco di punk in una New Friend Jesus da Jason & The Scorchers) e non a caso non a New York l’ha registrato bensì a Austin. Bello, tolta la banalità di Honolulu Blues.
Bel disco. Quadrato, robusto, onesto, ecc. Sai, quegli aggettivi un po’ logori che non sai più dove e con chi utilizzare. Sì, quegli aggettivi ti fanno sentire più vecchio di quanto la carta d’identità certifichi. Alla fine del disco raccogli le tue cose e ti accorgi di aver fatto un altro passo indietro rispetto al concetto di coolness. Però ti accorgi pure di stare bene. E di avere un sorriso così out of time… Grazie della segnalazione!
Quello che mi rende straordinariamente simpatico Craig Finn, e che me lo fa stimare particolarmente, è il suo essere nello stesso tempo, e con la medesima credibilità, un finissimo intellettuale e un operaio del rock’n’roll. Mi viene quasi da applaudirlo per partito preso.
questa cosa dell’intellettualismo “materico” e operaio è, effettivamente, un tratto fortemente americano che parte già dal Fogerty e arriva ai giorni nostri. Mi fa pensare al fatto che là valutino molto la resa dei gruppi sul palco, perché – da bravi protestanti – hanno bisogno di concretezza. Vedi il fatto che l’unia band techno-pop ad aver fatto breccia alla grande oltreoceano siano i Depeche Mode, che hanno un impatto molto “rockista”. It’s only (Max) Weber ‘n’ roll, and we like it…
Io ci metterei dentro il fatto che il rock è nato lì e lì, come ovvia conseguenza, per primi hanno cominciato a dare dignità letteraria ai testi e a elaborare analisi critiche con strumenti da cultura alta.