Archivi del mese: gennaio 2012

The Maccabees – Given To The Wild (Fiction)

Affermare che proclamando il terzo lavoro in studio dei Maccabees “il primo album classico del 2012” il “New Musical Express” ha un po’ esagerato sarebbe un understatement appropriatamente assai British. Del capolavoro – che per definizione è destinato a durare – “Given To The Wild” non ha nulla: non un suono che dire derivativo sarebbe di nuovo un eufemismo né una singola canzone che garantisca di durare più di tre stagioni, ossia fino a un’estate in cui il quintetto londinese prevedibilmente sarà mattatore in questo e in quel festival. E nondimeno, siccome pure a spararle sempre grosse per la legge dei grandi numeri una ogni tanto la si azzecca, proprio nei giorni in cui si copriva di ridicolo individuando in Vaccines, Bombay Bicycle Club e Iceage il futuro del rock’n’roll e negando nel contempo l’evidenza, che fra le masse il pop con le chitarre sia a uno dei suoi minimi di popolarità di sempre, l’ultimo dei settimanali musicali un bersaglio l’ha colpito: quasi non ha fatto in tempo a giungere nei negozi e subito il nuovo Maccabees è andato altissimo in classifica. Quarto nella prima settimana quando i predecessori non erano riusciti a entrare il primo nei Top 20 e il secondo nei Top 10. Che i ragazzi siano sulla strada per lo stardom è indubbio. Per le future storie del rock non mi sembrano ancora attrezzati.

Disco anche gradevole, poi, e del resto lo era parso pure “Colour It In”, che nel 2007 aveva provocato brividi di eccitazione inconsulta nelle anime belle ignare dell’esistenza di Futureheads, Interpol, Bloc Party (di loro non esattamente dei non plus ultra di originalità). E così “Wall Of Arms”, che nel 2009 non aveva nemmeno provato a nascondere la sua devozione totale per gli Arcade Fire. Comunque meno sfacciato, il successore parte dal presupposto che nel mondo possa esserci spazio per degli altri Coldplay, che forse una Glimmer (ad esempio) non si sarebbero azzardati a pubblicarla per tema che sembrasse troppo stereotipata. Laddove più che scorie di U2 incrostano Heave, i Waterboys primevi risuonano forte e chiaro in Go, i Talk Talk di mezzo in Slowly One: tutte cose studiate per bene dai Coldplay medesimi e siamo dunque alla copia della copia, l’effetto un po’ quello che si produsse – per dire – quando nei ’70 torme di gruppi presero a modellare il loro sound sui Led Zeppelin senza andarsi ad ascoltare i Willie Dixon o i Bert Jansch.

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Audio Review n. 329

È in edicola il numero 329 di “Audio Review”. Include fra il resto mie recensioni dell’ultimo cofanetto di Howlin’ Wolf, di ristampe degli Isley Brothers e di Jean Wells e dei più recenti album di Birds Of Passage, Bud Spencer Blues Explosion, Childish Gambino, Diagrams, Hanni El Khatib, Galapaghost, Lisa Hannigan, Penelope Houston, Ed Laurie (“Disco del mese”), Scott Matthew, Mint Julep, Owen, Papercranes, Pepe Deluxe, Roots, Mark Sultan e Warren Sucide. La rubrica del vinile è dedicata a “Night And Day” di Joe Jackson.

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Betty Wright & The Roots – Betty Wright: The Movie (S-Curve)

Magari non si poteva fare diversamente, visto che le due case discografiche non c’entrano nulla l’una con l’altra, o forse è stato fatto apposta e in tal caso come strategia commerciale si è rivelata controproducente: certo è che l’uscita a un paio di settimane l’uno dall’altro del decimo album in studio dei Roots e del primo in dieci anni di Betty Wright non ha prodotto esattamente gli stessi riscontri né come eco mediatica né come vendite. Lo certificano la rassegna stampa alta qualche centimetro di “Undun” e il suo debutto nelle graduatorie USA direttamente nei Top 20 a fronte delle pochissime recensioni collezionate a oggi, nonché di un impatto sulle classifiche pari a zero, da “The Movie”. E dire che la vecchia (meno di quanto si possa pensare sapendo che coglieva il primo hit nel 1968: ma non aveva allora – incredibile a dirsi – che quattordici anni) diva soul non è davvero sparita dai radar nel nuovo millennio. Inattiva in prima persona ma in compenso vocal coach di gente che i dischi di platino li colleziona e in tal guisa pure personaggio televisivo nel talent “Making The Band”. Eppure… finora nulla… O forse no: giunge notizia di una candidatura al Grammy, nella categoria “Best Traditional R&B Performance”, per la languida Surrender, la quarta e peraltro la meno convincente delle quattordici canzoni qui in scaletta, e andrà forse a finire che da slow seller “The Movie” si farà best seller. Del long seller le caratteristiche già le ha. Futuro culto?

In realtà questo lavoro dal minutaggio fin troppo cospicuo (ci si approssima all’ora e venti) è in egual misura eccitante e insoddisfacente. Prodotto benissimo, suonato fantasticamente, e d’altronde in tal senso i Roots sono una garanzia, e oltretutto forte anche di una scrittura di vaglia, paga il suo volere aggiornarsi per forza al XXI secolo. Paiono superflui se non posticci gli inserti rap dello Snoop Dogg ovvero del Lil Wayne di turno, spiacciono taluni tocchi modern che rischiano di confonderlo nel calderone di un soul odierno che l’anima non sa proprio cosa sia. Cento volte meglio quando il funk si distende, quando le chitarre mordono come di rado nelle produzioni di Questlove e soci e gli intrecci vocali si fanno pirotecnici. Particolarmente memorabili una Old Songs della quale dice molto il titolo, un’esultante In The Middle Of The Game e la ballata a passo di blues The One.

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Il migliore album del 2011: Jonathan Wilson – Gentle Spirit (Bella Union)

John Mayall ne restò a tal punto sedotto da andarci a vivere poco dopo averlo citato nel titolo di uno dei suoi album più belli, “Blues From Laurel Canyon”. Era il 1968. Da lì a due anni Joni Mitchell porgeva ancora più esteso e incantevole omaggio in “Ladies Of The Canyon” e questo dopo che Graham Nash aveva celebrato in Our House quell’angolo di bohème losangelena che la coppia condivideva. Avevano già abitato o ancora abitavano da quelle parti Jim Morrison e Frank Zappa, i Byrds, i Buffalo Springfield, i Love, i Canned Heat, Eric Burdon e un ancora sconosciuto Jackson Browne. Per qualche settimana persino Jimi Hendrix, addirittura i Beatles. Per il rock Laurel Canyon era il luogo leggendario ove gli ideali di “pace e amore” dell’hippysmo trovavano realizzazione e canzoni e dischi straordinari sbocciavano come fiori in un’eterna primavera, Mito che in qualche misura sopravviverà ai decenni sebbene messo a dura prova da un altro genere di residenti: John Holmes piuttosto che Marilyn Manson. E poi un imprecisato giorno, che non era ieri, si trasferisce lì dalla North Carolina tal Jonathan Spencer Wilson – cantante, autore, produttore, chitarrista, pianista, percussionista – ed è come se “quella” primavera lì fosse tornata. Come un magnete il giovanotto, nel cui studio di registrazione (quando non nel salotto di casa) cominciano a ritrovarsi musicisti di cinque o sei generazioni e cento stili. Non ci si crede a scorrere l’elenco di coloro che con costui hanno suonato professionalmente, o per il tempo piacevolmente interminabile di una jam notturna: da Erykah Badu a Jackson Browne (rieccolo), da Ramblin’ Jack Elliott a Elvis Costello, dal compianto Bert Jansch a Will Oldham, da Bonnie Raitt ai Doobie Brothers, a componenti o ex-componenti di Rage Against The Machine e Fleet Foxes, Black Crowes e Wilco, Jayhawks e Heartbreakers, E Street Band e Grateful Dead, Band Of Horses e Shins, Built To Spill e Modest Mouse. Ne ho citati una minima parte. Qualcuno dei più famosi. È andata a finire che Jonathan Wilson è divenuto un “musician’s musician” fra i più amati ma della cui esistenza erano al corrente giusto gli addetti ai lavori. Anche perché nel 2007 il nostro uomo si autocestinava un album di cui ci sono rimasti il titolo, “Frankie Ray”, e qualche brano in Rete.

Ufficialmente Wilson con “Gentle Spirit” è all’esordio, mandanto nei negozi a fine agosto quando a fine dicembre l’artefice ha compiuto trentasette anni, che proprio età da debuttante non è. Nondimeno: mai attesa fu tanto giustificata. Disco strabiliante, che più che a questi anni ’10 finora piuttosto deludenti (dopo che gli anni ’00 non avevano esattamente esaltato) rimanda a un incrocio ideale fra ’60 e ’70, fra una psichedelia a un apice di classicismo e un cantautorato con lo sguardo ancora proiettato verso il cosmo invece che già perso nella contemplazione del proprio ombelico. Pensate ai primi Spirit e ai Dead di “Aoxomoxoa”, immaginate i Pink Floyd di “Meddle” traslocati sulla West Coast e i Crazy Horse in combutta con i Quicksilver seconda maniera, fantasticate di un Neil Young influenzato da “The Cycle Is Complete” dell’ex-socio Bruce Palmer e non fermatevi lì. Osate! Sognate che David Crosby di “If I Could Only Remember My Name” ce ne abbia regalati due ed ecco, non dovrete più, dopo avere ascoltato “Gentle Spirit”. Disperavo che se ne potessero ancora fare di album così.

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I migliori album del 2011 (2): TV On The Radio – Nine Types Of Light (Interscope)

Difficile parlare di evoluzione per questo complesso quintessenzialmente newyorkese pure nel suo essere formato da gente nata magari assai lontano dalla Big Apple, come il fondatore e nigeriano di natali Tunde Adebimpe, cantante, percussionista, pittore, attore e regista. Nel senso che non è che ogni prova di costoro sia una versione riveduta e corretta della precedente. E nemmeno si può dire che il loro stile fosse definito all’altezza di quel “Desperate Youth, Blood Thirsty Babes”, del 2004, che nella vulgata comune ne risulta l’esordio quando invece era stato preceduto di due anni dall’autoprodotto e superclandestino “OK Calculator”. Lì cominciava soltanto a svelarsi un sound proteiforme, debitore di talmente tante e soprattutto distanti influenze – krautrock e doo wop, Eno e Prince, Pixies e Banshees, Bowie (ospite nel 2006 in “Return To Cookie Mountain”) e Funkadelic, Wire e Peter Gabriel, Fall (cui nel loro primo tour importante i ragazzi suonavano di spalla) e  Last Poets – da farsi unico. E perennemente cangiante: già perfettamente formato all’inizio, poi sempre diverso e nondimeno riconoscibile e lo è rimasto tanto nel capolavoro del 2008 “Dear Science” che in questo quasi altrettanto spettacolare seguito. E tuttavia: è il primo disco in cui non serve una foto per capire che i TV On The Radio sono tutti tranne uno – il secondo dei due che avviavano il progetto: David Andrew Sitek – neri.

Se il predecessore era stato giustamente raccontato come l’esempio più creativo di rivisitazione negli anni 2000 del canone new wave, di “Nine Types Of Light” salta all’orecchio sin da una Second Song simpaticamente prima e clamorosamente mediana (ma con Eno regista!) fra un Curtis Mayfield e un George Benson che è nettamente l’album più black dei nostri eroi. Bizzarro che cominci con una canzone che sarebbe stata perfetta come suggello, coerente che si concluda con la massiccia Caffeinated Consciuosness, un assalto alla Living Colour che sarebbe stato un incipit ideale. In mezzo otto brani diversamente irresistibili, dai Talking Heads sotto codeina di Keep Your Heart alla neo-electro di New Cannonball Blues, a una rappata e travolgente Repetition, passando per il soul psichedelico di Killer Crane e per una Will Do che Lenny Kravitz per scriverla oggi si venderebbe l’anima.

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I migliori album del 2011 (3): PJ Harvey – Let England Shake (Island)

Decimo album “vero” in ormai due decenni di onoratissima e spettacolare carriera per Polly Jean, “Let England Shake” le ha procurato la seconda vittoria (era la quarta candidatura) al Mercury Prize. Inoltre: migliore album dell’anno per i due principali mensili britannici, vale a dire “Mojo” e “Uncut” e che io ricordi non c’erano precedenti per un simile double. Il suo personale triplete per quanto riguarda la stampa specializzata patria (oh… ci sarebbero poi i riconoscimenti che le sono arrivati dai più autorevoli quotidiani su questa e quella sponda dell’Atlantico, ma non voglio annoiare) la Harvey lo ha messo in bacheca grazie al “New Musical Express”. Che, per carità, non è più non dico prestigioso ma semplicemente acquistabile all’incirca dacché la ragazza cominciò a far dischi, ma di “Let England Shake” ha probabilmente pubblicato la recensione più centrata apparsa sulle sue pagine dall’epoca in cui l’ispettore Bloch aveva ancora i capelli. Ridotta al nocciolo: se Francis Ford Coppola realizzò con Apocalypse Now il film di guerra definitivo, se Ernest Hemingway firmò con Addio alle armi il romanzo di guerra per antonomasia, ebbene, PJ Harvey può adesso vantare di avere licenziato  la collezione di canzoni più memorabile di sempre sull’argomento. E che si può aggiungere?

Giusto che (vale ancora di più per un altro dei piccoli capolavori dell’anno appena trascorso e che in questa lista non è entrato: “Last Of The Country Gentlemen” di Josh T. Pearson) l’ascoltatore non di madre lingua si perde la ragione principale per la quale il disco è stato tanto acclamato. Per comprendere fino in fondo perché la critica – e in particolare la più colta – si sia entusiasmata come di rado è successo in questo secolo bisognerebbe forse fare come all’opera: ascoltare “Let England Shake” seguendo il libretto, ossia i testi. Il che non significa che non regali emozioni e una sua peculiare godibilità anche approcciandolo in modo più disimpegnato. In particolare grazie a una traccia inaugurale e omonima che evoca Björk nel mentre cita (astutamente) un vetusto classico del doo wop (laddove Written On The Forehead campiona direttamente Niney The Observer), a una The Last Living Rose sul limitare del reggae, a una On Battleship Hill che, si formassero oggi, probabilmente i Fairport Convention suonerebbero così.

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I migliori album del 2011 (4): Tom Waits – Bad As Me (Anti)

Dal 2004: da tanto aspettavamo il successore di “Real Gone”, ma è valsa la pena di aspettare. “Bad As Me” vale i momenti più alti di una produzione che di bassi non ne ha avuti. Al peggio, qualche disco che suonava un po’ “di maniera” e tuttavia nella maniera unica di un uomo che pure quando da giovane collezionava stereotipi trovava il modo di porgersi come “the one and only Tom Waits”. Lo fa più che mai oggi che, ormai nel settimo decennio di vita (la pubblicazione di questo diciassettesimo album di studio ha preceduto di poche settimane il suo sessantaduesimo compleanno), continua a offrirci lo spettacolo esaltante di un artista che ancora non si è stancato di reinventarsi.

Eppure non potrebbe essere che lui dalla marcetta stentorea e roca di Chicago, che apre il programma, al valzer di New Year’s Eve, che ne suggella la versione più breve mischiando al suo i dna di Leonard Cohen e Shane MacGowan. Chiusura perfetta e tuttavia a non procurarvi la versione “Deluxe” vi perdereste tre bonus imperdibili: una She Stole The Blush con un basso iperjazz in slalom fra le percussioni, la classica ballata rock Tell Me e una trottante After You Die. Naturalmente sono però sistemate prima le canzoni che rendono questo disco un secondo “Mule Variations” ma più estroso: forte di una propensione al rischio più pronunciata, di un ventaglio stilistico più ampio, di un’ispirazione quasi costantemente ad apici olimpici. Brusco lo stacco dall’ossessione errebì di Raised Right Man ai languori country-blues di Talking At The Same Time e da quella agli starnazzanti tribalismi Cramps di Get Lost, è un trittico di seduzione immane a condurre alla teatrale sguaiatezza della title-track: alla felpata e dolente Face To The Highway va dietro la giostrina natalizia (facilmente ricollocabile in un “Blue Valentine” o in un “Foreign Affairs”) di Pay Me e a quella lo shuffle confidenziale di Back In The Crowd. Se Kiss Me  daccapo rimanda ai primi ’70 del Nostro, Satisfied quasi ottunde con i suoi fragori. Piccoli capolavori antipodici, infine, Last Leaf e Hell Broke Luce: da un quadretto di malinconia surrurale a un dispiegarsi di controllata isteria urbana punteggiata da quelle che paiono raffiche di mitra in nemmeno sette minuti. Per Waits sono finiti gli aggettivi. Speriamo non ci dia il tempo di rifarne scorta.

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I migliori album del 2011 (5): Fleet Foxes – Helplessness Blues (Sub Pop)

Esiste! Il marxophone, che è uno degli undici strumenti che asserisce di suonare Casey Wescott in quello che è il secondo album dei Fleet Foxes, battendo di uno il leader – nonché autore dell’intero repertorio dell’attualmente sestetto di Seattle – Robin Pecknold. Il sospetto che la lista dei crediti di “Helplessness Blues” possa essere un elaborato scherzo, rinfocolato dall’assenza di una voce dedicata all’esoterico strumento sull’“Encyclopedia Britannica”, viene cancellato da una lunga scheda (con tanto di foto) su “Wikipedia”: dalla quale non solo si apprende che è uno zither senza tasti ma anche che è stato usato in un tot di incisioni assai famose, dalla Alabama Song di Kurt Weill versione Doors al classico dei Portishead Sour Times. Ed esistono pure il tremoloa (che è un altro zither), il waterphone (che è una sorta di ammodernamento del tamburo d’acqua tibetano) e il Crumar bass (che non è un basso elettrico bensì un sintetizzatore, fra l’altro prodotto a suo tempo in Italia). Benvenuti nel mondo dei Fleet Foxes: l’unico complesso rock che ti ci va il vocabolario per capire cosa suonino (a parte i volgari chitarra, basso, tastiere, batteria e i banali violino, mandolino, dulcimer, harmonium, moog, harpsichord, mellotron… eccetera) i suoi componenti. Manco si trattasse di musica tradizionale di qualche luogo che non riusciresti a collocare d’emblée sul mappamondo. Manco si trattasse di… uh… progressive.

Ecco: che ci sia un’attitudine progressive in Pecknold e sodali, ma dando all’etichetta la migliore delle accezioni possibili che è poi quella originaria, è indubitabile e – più per analogie filosofiche che non per effettive somiglianze – viene da pensare al più pop fra i gruppi canterburiani, ossia i Caravan. Che più o meno tutti i punti di riferimento individuabili nella loro musica  abbiano dai trentacinque anni in su – i Beach Boys nobili come i Fairport Convention, l’ISB piuttosto che Donovan, Roy Harper o il Van Morrison di “Astral Weeks” – non rende i Fleet Foxes né retrò né men che mai (davvero nel loro caso la rielaborazione di stilemi antichi è molto personale) revivalisti. Il che è un piccolo miracolo. Un miracolo maggiore, di quelli non troppo frequenti nella storia del rock, è che siano una band che mette un grande suono al servizio di grandi canzoni.

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I migliori album del 2011 (6): Tinariwen – Tassili (Anti)

Chissà se  ci verrà mai offerto almeno un riassunto della prima vita dei Tinariwen: qualcosa come ventidue anni di musica registrata e diffusa nella clandestinità più assoluta. Dal 1979, quando il gruppo prendeva forma fra questo e quel campo di addestramento militare nel sud della Libia, al 2001, quando “The Radio Tisdas Sessions” cominciava a fare conoscere in Occidente una musica nel contempo totalmente inaudita e stranamente familiare. Quel primo album con tutti i crismi (i predecessori solo delle cassette) era stato inciso già con un produttore europeo (il benemerito Justin Adams) ma negli studi non proprio avanzati tecnologicamente dell’emittente maliana da cui prende il nome. I successori – gli acclamatissimi “Amassakoul” (2004), “Aman Iman” (2007) e “Imidiwan” (2009) – saranno invece registrati e/o mixati in trasferta, fra Bamako, Parigi, la Gran Bretagna. Chi può escludere che i luoghi non ne abbiano influenzato almeno un po’ la realizzazione? Dando particolare evidenza agli elementi che alle nostre orecchie appaiono più “rock” ed è stato il rock chitarristico più eccitante dello scorso decennio: un’incendiaria miscela etnopsichedelica che fa fantasticare di Grateful Dead in jam con John Lee Hooker e i Sonic Youth fra le dune del Sahara. Altra faccenda, “Tassili”. Che, racconta il bassista Eyadou Ag Leche, è stato immortalato in una vallata desertica. I musicisti spesso colti en plein air, solo registratore e banco di missaggio protetti dagli elementi, in una tenda.

Il disco “come una volta” dei Tinariwen, quello che in molti hanno detto il loro “Unplugged”, regala un’idea di come poteva suonare il complesso nella sua età in ogni senso guerrigliera e, insieme, le contaminazioni sulla carta più pronunciate di una discografia formidabile. Vi sono ospitati la Dirty Dozen Brass Band, Nels Cline degli Wilco, Tunde Adebimpe e Kyp Malone dei TV On The Radio. Entrano tutti in scena in punta di piedi e restano poi defilati, ma nondimeno il loro apporto non vale solamente come sottolineatura di come il particolare sound dei Tinariwen – qui ridotto al suo scheletro acustico senza a ragion di ciò farsi meno ipnotico e labirintico – sia ormai entrato nel canone della popular music. Un’istantanea di futuro remoto.

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I migliori album del 2011 (7): Ry Cooder – Pull Up Some Dust And Sit Down (Nonesuch)

Fra il 1987, quando dava alle stampe quello che per diciotto anni sarebbe rimasto formalmente il suo ultimo album “vero”, il non proprio indimenticabile “Get Rhythm”, e il 2005, quando pubblicava l’ambiziosissimo, non perfettamente a fuoco ma intrigante “Chávez Ravine”, Ryland Peter Cooder non ha esattamente poltrito. Do i numeri? Sette le colonne sonore, cinque i lavori allestiti a più mani e fra essi il meraviglioso “Talking Timbuktu” con Ali Farka Touré, dozzina di realizzazioni cui bisogna aggiungere l’unico album griffato dal supergruppo Little Village e naturalmente l’operazione Buena Vista Social Club, uno dei più inattesi successi milionari della storia dell’industria discografica. Tutto bene, non fosse che nella percezione del pubblico l’etnomusicologo ha preso il posto del grande chitarrista e interprete. Cantautore no, giacché sono una manciata i brani autografi nella decina di LP licenziati dal Nostro dall’omonimo debutto del ’70 a per l’appunto “Get Rhythm”. Ecco: non soltanto in pochi si sono accorti di quanto siano belli gli ultimi album di Cooder, ma praticamente nessuno ha sottolineato come con “My Name Is Buddy” sia improvvisamente sbocciato nel 2007 un’eccezionale talento autoriale. Bel modo di festeggiare i propri sessant’anni, no? “Pull Up Some Dust…” è la seconda collezione di canzoni che l’artista losangeleno firma integralmente, tutta da solo a parte il sardonico gospel Lord Tell Me Why alla cui stesura ha contribuito il batterista Jim Keltner.

“My Name Is Buddy” era lavoro “a tema” incentrato sugli anni della Grande Depressione. La cara, vecchia Grande Depressione. Prima di quella che innescava pochi mesi dopo la sua uscita il fallimento di Lehman Brothers e nella quale siamo ora immersi fino al collo. “My Name Is Buddy” raccontava insomma la Storia, “Pull Up Some Dust And Sit Down” fa giornalismo come lo avrebbe inteso Phil Ochs: solo, con una scrittura (con tutto il rispetto) assai superiore e soprattutto ben più eclettica. Zibaldone di tanti se non tutti gli stili che eravamo abituati ad associare al suo artefice prima del Buena Vista, sciorina tex-mex nella sua più variegata accezione e blues, funky e soul e classic rock, senza farsi mancare un pizzico di reggae. Un brano propone John Lee Hooker For President. Ry Cooder no?

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