Nel 2001, in occasione di una delle periodiche serie di ristampe che ciclicamente riportano in massa nei negozi il catalogo di un’etichetta che per lungo tempo fu invece un’ossessione da collezionisti, scrissi questo articolo per “Classic Rock”, l’inserto dedicato a materiali storici ospitato nell’allora settimanale “Il Mucchio”.

Hai trentadue anni. Hai inciso un paio di LP per la Contemporary e sei per la Atlantic con titoli talvolta di sensazionale arroganza: “La forma del jazz a venire” il primo; “Free Jazz (Un’improvvisazione collettiva)” il quarto. Di tale impatto che quest’ultimo, “Free Jazz”, è andato a battezzare un’intera nuova scena e allora non è che fossi poi tanto arrogante, no? Ma l’ambizione di essere considerato un compositore, oltre che un’eccezionale sassofonista, la voglia inesausta di spostare i confini del genere e addirittura di operare al di fuori di essi stanno facendo di te un emarginato. I club non ti offrono più ingaggi. I tuoi colleghi ti snobbano. I critici… be’, i critici criticano. Allora decidi di giocarti il tutto per tutto. Rompi il salvadanaio. Affitti la Town Hall. Ingaggi a tue spese un quartetto d’archi per suonare i tuoi spartiti di classica contemporanea. Ti occupi (altri soldi che se ne vanno e non ce ne sono proprio più) che l’evento venga pubblicizzato a dovere. Ah… naturalmente sarà registrato e qualcuno vorrà bene farlo uscire quel disco, no? Arriva la data fatidica, 21 dicembre 1962. E New York letteralmente si paralizza. La metropolitana si ferma e i tassisti pure. Consolati: nessuno riferirà che il teatro era mezzo vuoto, perché anche i giornali sono in sciopero. Va tutto bene nel migliore dei mondi possibili. A parte il fatto che il tecnico del suono che dovrebbe curare la registrazione ha scelto giusto quel giorno per suicidarsi.
Che storia, eh? Eppure ce la fece il nostro uomo, tale Ornette Coleman, a dare alle stampe una testimonianza di quella serata. Né rimasero a lungo nei cassetti quegli epocali nastri dacché un anno dopo provvedeva a pubblicarli non una grande casa discografica, come quelle che Coleman aveva frequentato in precedenza e che tornerà a frequentare in seguito, ma un’etichetta minuscola e neonata. “Town Hall Concert 1962” è il numero sei del sontuoso catalogo ESP, uno degli innumerevoli capolavori che dobbiamo alla passione di un avvocato di nome Bernard Stollman, fulminato per sempre, poco dopo quella sfortunata performance colemaniana di cui sopra, da un incontro con il sassofono tumultuoso e santo di Albert Ayler. Come Ornette, pure Bernard si giocò tutto, in forma di un’eredità di cui tempo un anno e mezzo non restava più nulla, in nome di un sogno. Siamogliene grati. A ventisette anni da quando la sua ESP chiuse i battenti, a più o meno trentacinque dalla sua Età dell’Oro, gli album che ha pubblicato ancora stupiscono per ardire e valore medio. Ritornati in massa negli ultimi tempi nei negozi grazie all’olandese Calibre, che ha acquisito i diritti per i CD, e alla nostrana Get Back, responsabile invece di splendide stampe in vinile per audiofili, costituiscono un corpus di eccezionale rilevanza per la storia del jazz più sperimentale e di un “rock” (fra molte, molte virgolette) principalmente di derivazione folk ma anche preconizzante il punk. Così ricorda quei tempi eroici l’avvocato, uno dei discografici più atipici mai visti all’opera.
“Ero semplicemente irritato per il fatto che non mi capitava mai di accendere la radio e ascoltare qualcosa che avesse un minimo di significato. Odiavo la banalità delle produzioni commerciali e mi piaceva l’idea di offrire a quanti avevano davvero qualcosa da dire la possibilità di farlo. A posteriori, riconosco che fui vittima di un delirio di grandezza: pensavo che avrei potuto influire sulla programmazione delle radio. Più che un discografico nel senso usuale del termine ero piuttosto un curatore, una specie di etnomusicologo. Avevo capito che stava accadendo qualcosa e che era necessario che qualcuno lo documentasse… Avessi avuto l’ambizione di arricchirmi mi sarei comportato in maniera completamente differente, ma se consideri la musica un qualcosa di misterioso e sacro il business che le gira attorno è semplicemente degradante. Come disse una volta Lillian – o era Dorothy? – Gillian, ‘Arte e affari non si mischiano’. Ecco il perché dello slogan ‘Soltanto gli artisti decidono cosa ascolterai sui loro dischi ESP’. Però qualche buona intuizione l’ebbi anche. Tipo capire che per suscitare interesse bisognava uscire subito con dieci o dodici titoli insieme… Tempo un paio di mesi arrivò un tizio della JVC giapponese e acquisì la licenza del marchio; per due spiccioli, ma era pur sempre qualcosa. Poi ricevetti una proposta dalla Phonogram europea e devo dire che loro fecero un buon lavoro. Non ero nemmeno un produttore nel senso usuale del termine. È possibile ch’io abbia chiamato uno studio una o due volte per prenotarlo. Pagavo i conti. Nient’altro. I musicisti suonavano quello che volevano e in genere, tre quarti d’ora dopo, un LP era bello pronto per essere stampato. Niente sovraincisioni, tutto ‘buona la prima’.”
Momento di transizione e presago di rivoluzioni quello in cui Stollman si trovò ad agire. Ridotto ai minimi termini il rock’n’roll (non ancora scatenatosi il sisma Beatles) a New York, centro degli Stati Uniti e dunque del mondo, era certo folk politicizzato nei contenuti ma blando negli spartiti a dominare l’underground. Da un lato. Dall’altro, dalle cantine e dai loft ruggiva un jazz tanto inaudito da non venire nemmeno più considerato – prima dai critici; poi dai suoi stessi artefici – jazz. Li collegavano un sottobosco di poeti rimasuglio del beat e annuncianti le rivolte hippie e nera e, nell’ambito delle arti figurative, la vibrante scena di quella che si era appena battezzata la Pop Art e che aveva in Andy Warhol il massimo esponente. Stollman fu prezioso tramite fra tutto ciò. Valga come impagabile documento il trentaquattresimo titolo da lui pubblicato, quell’“Electric Newspaper” che ambiva a essere un foglio di protesta in vinile e lo fu: con contributi dei poeti Allen Ginsberg e Peter Orlovsky, di Tuli Kupferberg e Ed Sanders dei Fugs, del sassofonista Marion Brown, delle stelline del giro di Warhol Gerard Malanga e Ingrid Superstar e dei non ancora celebri Velvet Underground. Proprio così: non lo sanno in molti, ma Lou Reed e compagni in un certo qual senso debuttarono su ESP.
Fu tuttavia al jazz che Bernard Stollman dedicò dapprincipio in maniera esclusiva la sua attenzione. Fu su ESP che Albert Ayler consumò la prima e più innovativa parte della sua carriera. Fu su ESP che Sun Ra pubblicò alcuni dei più memorabili fra i 33 giri della sua sconfinata discografia, che Pharoah Sanders esordì (attirando l’attenzione di John Coltrane che lo volle con sé), che Bob James e Gato Barbieri realizzarono le cose più intriganti di carriere poi più rilevanti mercantilmente che artisticamente e fu sempre Stollman a regalarci quel sublime spostato di Giuseppi Logan e l’eccezionale debutto del New York Art Quartet. A fargli allargare i già ampissimi orizzonti fu la tragedia del Vietnam e la voglia di dare voce a chi le si opponeva. Siccome era quello che era, non fu la scena folk più revivalistica ad attirarlo ma il folk dilettantesco, sghembo e sboccato dei Fugs e quello corretto a LSD, con esiti affatto diversi, di Holy Modal Rounders e Pearls Before Swine. Quattro suoi dipendenti organizzarono poi un’orgia protopunk chiamata Godz e lui chiaramente si preoccupò di immortalarla su vinile.
Paradossalmente, fu l’imprevisto successo commerciale di Fugs e Pearls Before Swine a determinare, sul lungo termine, la fine della ESP, che fin quando si era limitata a stampare astruso jazz patrimonio di poche migliaia di appassionati in giro per il mondo aveva potuto (soprav)vivere tranquilla. Da un lato attirò sulla premiata ditta Stollman la sgradita attenzione dell’FBI e una serie di maligne persecuzioni. Dall’altro (le autorità chiusero entrambi gli occhi) suggerì operazioni piratesche ai danni dell’etichetta da parte di chi pressava i dischi, che ne stampò in numero molto maggiore del richiesto e distribuì per conto suo la differenza. E fu Stollman a subire le ire degli artisti.
Pochi musicisti hanno mai avuto soldi dalla ESP, compresi quelli che vendettero parecchio. Si può comprendere il malanimo di, per dire, Ed Sanders nei confronti di Stollman. Qualche ragione l’ha anche, ma guardando le cose con occhio imparziale si può assolvere questo bislacco discografico, che certo non si è arricchito con la sua creatura (tant’è che è poi tornato a esercitare da avvocato). A suo tempo su parecchi titoli probabilmente ci rimise. Il punto è che senza di lui quegli album non li avremmo mai ascoltati e la musica del Novecento sarebbe stata per questo assai più povera.
Ha ragione Marzette Watts, uno dei musicisti cui Bernard Stollman dette una possibilità: “Se sei un artista ti è stato donato un talento e non puoi pretendere anche i soldi. Non è per il denaro che si fa arte, ma perché spinti da una pulsione irresistibile”.
ESP TOP 10
Jazz?

ALBERT AYLER “Spiritual Unity” – Sarabande popolaresche di esasperato lirismo, giostre di suoni che portano all’estremo l’ideale di improvvisazione di New Orleans anticipando di oltre dieci anni la no wave.

ORNETTE COLEMAN “Town Hall 1962” – All’indomani della fine del sodalizio con l’Atlantic, subito prima di uno sdegnoso ritiro di tre anni, Ornette declina free superbo e dirige un alato quartetto d’archi neoclassico.

NEW YORK ART QUARTET “New York Art Quartet” – Sassofono, trombone, contrabbasso, percussioni e poesia. Quella, furente fin dal titolo, del LeRoi Jones di Sweet – Black Dada Nihilismus. Spigoli che scorticano l’anima.

PHAROAH SANDERS “Pharaoh Sanders Quintet” – Ancora lontani i mantra psichedelici di pietre miliari come “Karma”, “Jewels Of Thought” e “Thembi”, è invece all’orizzonte la collaborazione con John Coltrane. Si sente.

SUN RA “Heliocentric Worlds Vol.2” – L’irregolare per antonomasia del jazz in una delle sue performance più complesse, ambiziose, articolate, toccanti. Da antologia il funereo incipit di The Sun Myth.
Rock?

FUGS “The Fugs First Album” – Surreale satira politica e di costume esposta in sbracate jam folk che prendono per il bavero il Sogno Americano e lo appiccicano al muro. Con ilare ferocia.

GODZ “Contact High With The Godz” – I non-musicisti più incapaci che mai siano stati impressi su vinile. Roba che al confronto i Ramones saranno dei virtuosi. Lester Bangs li adorava. Terrorismo sonico.

HOLY MODAL ROUNDERS “Indian War Whoop” – Il country (country?) più trasgressivo di sempre. Un manifesto a favore della bontà dell’LSD che circolava al tempo. Alla batteria c’è un certo Sam Shepard.

PEARLS BEFORE SWINE “One Nation Underground” – Folk-rock semplice e raffinato insieme, con un tocco di exotica e uno di elettronica. Come un incontro pastorale, auspice William Blake, fra Leonard Cohen e Bob Dylan.

PATTY WATERS “Sings” – Una Diamanda Galas ante litteram. Solo, molto più gentile. Una versione al femminile del Tim Buckley di “Starsailor”. Fra tutti i capolavori griffati ESP, forse il più capolavoro.
Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.447, 19 giugno 2001.
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