Archivi del mese: febbraio 2012

The Sick Rose – The Month Of The Rose (Onde Italiane)

C’è una nuova etichetta discografica cui dare il benvenuto e fondarne una nel 2012 è quasi un atto di fede. Un po’ di  meno se è il vinile il supporto fonografico cui si sceglie, e oltretutto esclusivamente, di legarsi: è un mercato che cresce, diversamente da quello in continua contrazione del CD, e in ogni caso se si decide di limitare le stampe a qualche centinaio di esemplari – cinquecento copie in questo caso, rigorosamente numerate – il rischio si riduce drasticamente. Credo poi che di questo numero 001 del catalogo se ne sarebbero potute fare tranquillamente il doppio e non sarebbero rimaste a prendere polvere. Tant’è. Gli interessati adesso sanno che dovranno affrettarsi a metterselo in casa “The Month Of The Rose”.

Ne vale la pena? Certamente sì, a patto di possedere già il resto di una discografia (minimo i capisaldi: “Faces”, “Shaking Street” e il recente e strepitoso “No Need For Speed”) che fa del complesso capitanato da ormai ventotto anni dal cantante Luca Re e dal chitarrista Diego Mese uno dei nomi di punta dell’underground mondiale “sixties-oriented”. E non solo: giacché da tempo la compagine piemontese è approdata a lidi power pop avendo in precedenza abitato i territori di un rock’n’roll capace di mettere assieme Flamin’ Groovies ed MC5. Qui i Sick Rose sono però colti agli esordi assoluti, quando si preparavano a diventare  (copyright Claudio Sorge) “il migliore gruppo texano d’Italia” e anzi dell’Europa intera. Sfilano gli otto brani del primitivissimo (da ogni punto di vista) demo che si rivelò propedeutico alla partecipazione all’epocale raccolta “Eighties Colours”, seguiti dai quattro di un secondo nastro che, spedito a Greg Shaw, garantì ai Nostri l’inclusione in un volume della collana “Battle Of The Garages” e con a suggello una rilettura da manuale del cavallo di battaglia di Kenny & The Kasuals Things Gettin’ Better (una delle quattro cover, appartenendo le altre a Blues Magoos, 13th Floor Elevators e Moving Sidewalks) registrata per l’antologia “Tracce ’85”. A lasciare stupefatti è la constatazione di quanto fu veloce la crescita di una band capace in poco più di un anno di progredire dal rovinoso surfeggiare del brano che intitola l’album piuttosto che dall’ingenuo folk-rock di Janet Rye a un classico totale del garage-punk quale è l’inno Get Along Girl. Non a caso, ancora oggi immancabile nei concerti.

Potete ordinare “The Month Of The Rose” (venti euro, spese di spedizione incluse) su www.ondeitaliane.it. A seguire un’intervista che feci a inizio 1987 agli allora ragazzi.

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Lambchop – Mr. M (City Slang)

Ogni generazione ha il Randy Newman che si merita. La mia ha avuto Kurt Wagner e direi che è andata di lusso. Certo, è un Newman con un sense of humour un po’ più greve: quello se la prendeva con i Rednecks come con i Little Criminals, questo sistemava all’inizio di un disco dei suoi Lambchop una canzone intitolata My Face Your Ass avendo già messo a suggello di un EP uscito qualche tempo prima un’altra chiamata I Sucked My Boss’s Dick. E chi non ricorda – garantito: basta averla vista una volta – la copertina del loro debutto del ’94 (Wagner aveva già trentasei anni) “I Hope You’re Sitting Down”? Impagabilmente oscena. Ma, insomma, ci siamo capiti. Rispetto all’uomo che sfortunatamente per noi da troppo dedica quasi tutto il suo lavoro autoriale alla pur nobilissima arte della colonna sonora, Wagner è inoltre più obliquo nei testi. Però nel loro essere completamente fuori sintonia rispetto ai tempi toccati loro in sorte i due si somigliano parecchio, mica solo in spartiti che coniugano (infiltrandovi un tot di cose colte) il meglio della popular music americana del Novecento pre-rock’n’roll o in ogni caso al rock estranea, quasi del tutto, quasi sempre. Al buon Kurt ci vorrebbe a ’sto punto – per ringalluzzire un conto corrente che temo asfittico, per garantirci che continui a scrivere ancora a lungo un tipo di canzoni che oggi soltanto lui scrive – una You Can Leave Your Hat On. Auspicabilmente…

Dicevo: i Lambchop li seguo dagli esordi. Salvo perdermeli ogni tanto (una rapida ispezione dei miei scaffali ha confermato quanto temevo: nemmeno considerando una minutaglia che spesso minutaglia non è, un paio delle loro uscite maggiori manca tristemente all’appello) e poi insultarmi da solo per essermi distratto. A questo giro l’ho fatto con particolare gusto, non appena è partito un album che per la sigla è l’undicesimo in studio contando come due la memorabile coppia di gemelli diversi del 2004 “Aw Cmon”/”No You Cmon”. Difficilmente in quest’anno, o in questo decennio, o in questa vita, vi imbatterete in un altro incipit capace come quello di If Not I’ll Just Die di catturare così istantaneamente l’attenzione: sezione d’archi da musical o se preferite da Van Dyke Parks, batteria spazzolata e poi una voce che suonerebbe spaesata se anche non si cogliesse cosa dice e quello che dice è “don’t know what the fuck they talk about”. Catapultato come un estraneo all’interno del suo stesso disco (per essere una congrega tanto numerosa i Lambchop si identificano come poche band con il loro leader), il Nostro conserverà fino in fondo un’aria da “che ci faccio qui io?”, ma è svagatezza apparente, volta a occultare tempeste emotive appena sottotraccia mentre le musiche attorno a lui creano atmosfere da – fulminante definizione del produttore Mark Nevers – “psycho-Sinatra”. Alcuni altri momenti indimenticabili: l’accorata luccicanza folk-rock pronta a concedersi al neo-camerismo di Gone Tomorrow; il blues in glassa d’archi di Kind Of; la melodia di ineffabile, straripante gusto cinematografico di Betty’s Overture.

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Blow Up n. 166

È in edicola il numero 166 di “Blow Up”. Ho contribuito con uno “Strade perdute” dedicato a “4 Minute Warning”, esordio nel 1978 (rimasto senza un seguito) di Rikki And The Last Days Of Earth.

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Non si esce vivi dagli anni ’80

Una testimonianza inequivocabile su come la pensassi riguardo agli Smiths quando gli Smiths erano ancora fra noi. Un quarto di secolo dopo sono tutto sommato ancora abbastanza d’accordo con me stesso.

Per leggere senza cavarvi gli occhi basta che clicchiate sulle immagini.

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Are You ESP-erienced? L’etichetta più pazza del mondo, ever

Nel 2001, in occasione di una delle periodiche serie di ristampe che ciclicamente riportano in massa nei negozi il catalogo di un’etichetta che per lungo tempo fu invece un’ossessione da collezionisti, scrissi questo articolo per “Classic Rock”, l’inserto dedicato a materiali storici ospitato nell’allora settimanale “Il Mucchio”.

Hai trentadue anni. Hai inciso un paio di LP per la Contemporary e sei per la Atlantic con titoli talvolta di sensazionale arroganza: “La forma del jazz a venire” il primo; “Free Jazz (Un’improvvisazione collettiva)” il quarto. Di tale impatto che quest’ultimo, “Free Jazz”, è andato a battezzare un’intera nuova scena e allora non è che fossi poi tanto arrogante, no? Ma l’ambizione di essere considerato un compositore, oltre che un’eccezionale sassofonista, la voglia inesausta di spostare i confini del genere e addirittura di operare al di fuori di essi stanno facendo di te un emarginato. I club non ti offrono più ingaggi. I tuoi colleghi ti snobbano. I critici… be’, i critici criticano. Allora decidi di giocarti il tutto per tutto. Rompi il salvadanaio. Affitti la Town Hall. Ingaggi a tue spese un quartetto d’archi per suonare i tuoi spartiti di classica contemporanea. Ti occupi (altri soldi che se ne vanno e non ce ne sono proprio più) che l’evento venga pubblicizzato a dovere. Ah… naturalmente sarà registrato e qualcuno vorrà bene farlo uscire quel disco, no? Arriva la data fatidica, 21 dicembre 1962. E New York letteralmente si paralizza. La metropolitana si ferma e i tassisti pure. Consolati: nessuno riferirà che il teatro era mezzo vuoto, perché anche i giornali sono in sciopero. Va tutto bene nel migliore dei mondi possibili. A parte il fatto che il tecnico del suono che dovrebbe curare la registrazione ha scelto giusto quel giorno per suicidarsi.

Che storia, eh? Eppure ce la fece il nostro uomo, tale Ornette Coleman, a dare alle stampe una testimonianza di quella serata. Né rimasero a lungo nei cassetti quegli epocali nastri dacché un anno dopo provvedeva a pubblicarli non una grande casa discografica, come quelle che Coleman aveva frequentato in precedenza e che tornerà a frequentare in seguito, ma un’etichetta minuscola e neonata. “Town Hall Concert 1962” è il numero sei del sontuoso catalogo ESP, uno degli innumerevoli capolavori che dobbiamo alla passione di un avvocato di nome Bernard Stollman, fulminato per sempre, poco dopo quella sfortunata performance colemaniana di cui sopra, da un incontro con il sassofono tumultuoso e santo di Albert Ayler. Come Ornette, pure Bernard si giocò tutto, in forma di un’eredità di cui tempo un anno e mezzo non restava più nulla, in nome di un sogno. Siamogliene grati. A ventisette anni da quando la sua ESP chiuse i battenti, a più o meno trentacinque dalla sua Età dell’Oro, gli album che ha pubblicato ancora stupiscono per ardire e valore medio. Ritornati in massa negli ultimi tempi nei negozi grazie all’olandese Calibre, che ha acquisito i diritti per i CD, e alla nostrana Get Back, responsabile invece di splendide stampe in vinile per audiofili, costituiscono un corpus di eccezionale rilevanza per la storia del jazz più sperimentale e di un “rock” (fra molte, molte virgolette) principalmente di derivazione folk ma anche preconizzante il punk. Così ricorda quei tempi eroici l’avvocato, uno dei discografici più atipici mai visti all’opera.

Ero semplicemente irritato per il fatto che non mi capitava mai di accendere la radio e ascoltare qualcosa che avesse un minimo di significato. Odiavo la banalità delle produzioni commerciali e mi piaceva l’idea di offrire a quanti avevano davvero qualcosa da dire la possibilità di farlo. A posteriori, riconosco che fui vittima di un delirio di grandezza: pensavo che avrei potuto influire sulla programmazione delle radio. Più che un discografico nel senso usuale del termine ero piuttosto un curatore, una specie di etnomusicologo. Avevo capito che stava accadendo qualcosa e che era necessario che qualcuno lo documentasse… Avessi avuto l’ambizione di arricchirmi mi sarei comportato in maniera completamente differente, ma se consideri la musica un qualcosa di misterioso e sacro il business che le gira attorno è semplicemente degradante. Come disse una volta Lillian – o era Dorothy? – Gillian, ‘Arte e affari non si mischiano’. Ecco il perché dello slogan ‘Soltanto gli artisti decidono cosa ascolterai sui loro dischi ESP’. Però qualche buona intuizione l’ebbi anche. Tipo capire che per suscitare interesse bisognava uscire subito con dieci o dodici titoli insieme… Tempo un paio di mesi arrivò un tizio della JVC giapponese e acquisì la licenza del marchio; per due spiccioli, ma era pur sempre qualcosa. Poi ricevetti una proposta dalla Phonogram europea e devo dire che loro fecero un buon lavoro. Non ero nemmeno un produttore nel senso usuale del termine. È possibile ch’io abbia chiamato uno studio una o due volte per prenotarlo. Pagavo i conti. Nient’altro. I musicisti suonavano quello che volevano e in genere, tre quarti d’ora dopo, un LP era bello pronto per essere stampato. Niente sovraincisioni, tutto ‘buona la prima’.

Momento di transizione e presago di rivoluzioni quello in cui Stollman si trovò ad agire. Ridotto ai minimi termini il rock’n’roll (non ancora scatenatosi il sisma Beatles) a New York, centro degli Stati Uniti e dunque del mondo, era certo folk politicizzato nei contenuti ma blando negli spartiti a dominare l’underground. Da un lato. Dall’altro, dalle cantine e dai loft ruggiva un jazz tanto inaudito da non venire nemmeno più considerato – prima dai critici; poi dai suoi stessi artefici – jazz. Li collegavano un sottobosco di poeti rimasuglio del beat e annuncianti le rivolte hippie e nera e, nell’ambito delle arti figurative, la vibrante scena di quella che si era appena battezzata la Pop Art e che aveva in Andy Warhol il massimo esponente. Stollman fu prezioso tramite fra tutto ciò. Valga come impagabile documento il trentaquattresimo titolo da lui pubblicato, quell’“Electric Newspaper” che ambiva a essere un foglio di protesta in vinile e lo fu: con contributi dei poeti Allen Ginsberg e Peter Orlovsky, di Tuli Kupferberg e Ed Sanders dei Fugs, del sassofonista Marion Brown, delle stelline del giro di Warhol Gerard Malanga e Ingrid Superstar e dei non ancora celebri Velvet Underground. Proprio così: non lo sanno in molti, ma Lou Reed e compagni in un certo qual senso debuttarono su ESP.

Fu tuttavia al jazz che Bernard Stollman dedicò dapprincipio in maniera esclusiva la sua attenzione. Fu su ESP che Albert Ayler consumò la prima e più innovativa parte della sua carriera. Fu su ESP che Sun Ra pubblicò alcuni dei più memorabili fra i 33 giri della sua sconfinata discografia, che Pharoah Sanders esordì (attirando l’attenzione di John Coltrane che lo volle con sé), che Bob James e Gato Barbieri realizzarono le cose più intriganti di carriere poi più rilevanti mercantilmente che artisticamente e fu sempre Stollman a regalarci quel sublime spostato di Giuseppi Logan e l’eccezionale debutto del New York Art Quartet. A fargli allargare i già ampissimi orizzonti fu la tragedia del Vietnam e la voglia di dare voce a chi le si opponeva. Siccome era quello che era, non fu la scena folk più revivalistica ad attirarlo ma il folk dilettantesco, sghembo e sboccato dei Fugs e quello corretto a LSD, con esiti affatto diversi, di Holy Modal Rounders e Pearls Before Swine. Quattro suoi dipendenti organizzarono poi un’orgia protopunk chiamata Godz e lui chiaramente si preoccupò di immortalarla su vinile.

Paradossalmente, fu l’imprevisto successo commerciale di Fugs e Pearls Before Swine a determinare, sul lungo termine, la fine della ESP, che fin quando si era limitata a stampare astruso jazz patrimonio di poche migliaia di appassionati in giro per il mondo aveva potuto (soprav)vivere tranquilla. Da un lato attirò sulla premiata ditta Stollman la sgradita attenzione dell’FBI e una serie di maligne persecuzioni. Dall’altro (le autorità chiusero entrambi gli occhi) suggerì operazioni piratesche ai danni dell’etichetta da parte di chi pressava i dischi, che ne stampò in numero molto maggiore del richiesto e distribuì per conto suo la differenza. E fu Stollman a subire le ire degli artisti.

Pochi musicisti hanno mai avuto soldi dalla ESP, compresi quelli che vendettero parecchio. Si può comprendere il malanimo di, per dire, Ed Sanders nei confronti di Stollman. Qualche ragione l’ha anche, ma guardando le cose con occhio imparziale si può assolvere questo bislacco discografico, che certo non si è arricchito con la sua creatura (tant’è che è poi tornato a esercitare da avvocato). A suo tempo su parecchi titoli probabilmente ci rimise. Il punto è che senza di lui quegli album non li avremmo mai ascoltati e la musica del Novecento sarebbe stata per questo assai più povera.

Ha ragione Marzette Watts, uno dei musicisti cui Bernard Stollman dette una possibilità: “Se sei un artista ti è stato donato un talento e non puoi pretendere anche i soldi. Non è per il denaro che si fa arte, ma perché spinti da una pulsione irresistibile”.

ESP TOP 10

Jazz?

ALBERT AYLER “Spiritual Unity” – Sarabande popolaresche di esasperato lirismo, giostre di suoni che  portano all’estremo l’ideale di improvvisazione di New Orleans anticipando di oltre dieci anni la no wave.

ORNETTE COLEMAN “Town Hall 1962” – All’indomani della fine del sodalizio con l’Atlantic, subito prima di uno sdegnoso ritiro di tre anni, Ornette declina free superbo e dirige un alato quartetto d’archi neoclassico.

NEW YORK ART QUARTET “New York Art Quartet” – Sassofono, trombone, contrabbasso, percussioni e poesia. Quella, furente fin dal titolo, del LeRoi Jones di Sweet – Black Dada Nihilismus. Spigoli che scorticano l’anima.

PHAROAH SANDERS “Pharaoh Sanders Quintet” – Ancora lontani i mantra psichedelici di pietre miliari come “Karma”, “Jewels Of Thought” e “Thembi”, è invece all’orizzonte la collaborazione con John Coltrane. Si sente.

SUN RA “Heliocentric Worlds Vol.2” – L’irregolare per antonomasia del jazz in una delle sue performance più complesse, ambiziose, articolate, toccanti. Da antologia il funereo incipit di The Sun Myth.

Rock?

FUGS “The Fugs First Album” – Surreale satira politica e di costume esposta in sbracate jam folk che prendono per il bavero il Sogno Americano e lo appiccicano al muro. Con ilare ferocia.

GODZ “Contact High With The Godz” – I non-musicisti più incapaci che mai siano stati impressi su vinile. Roba che al confronto i Ramones saranno dei virtuosi. Lester Bangs li adorava. Terrorismo sonico.

HOLY MODAL ROUNDERS “Indian War Whoop” – Il country (country?) più trasgressivo di sempre. Un manifesto a favore della bontà dell’LSD che circolava al tempo. Alla batteria c’è un certo Sam Shepard.

PEARLS BEFORE SWINE “One Nation Underground” – Folk-rock semplice e raffinato insieme, con un tocco di exotica e uno di elettronica. Come un incontro pastorale, auspice William Blake, fra Leonard Cohen e Bob Dylan.

PATTY WATERS “Sings” – Una Diamanda Galas ante litteram. Solo, molto più gentile. Una versione al femminile del Tim Buckley di “Starsailor”. Fra tutti i capolavori griffati ESP, forse il più capolavoro.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.447, 19 giugno 2001.

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Il Mucchio n. 692

È in edicola il numero 692 del “Mucchio”. Sono presenti mie recensioni dei nuovi album di Excitements, Craig Finn, Foxes, Magnetic Fields, Mouse On Mars, Amerigo Verardi & Marco Ancona, Betty Wright & The Roots. Nella sezione “Classic Rock” firmo una “Pietra miliare” dedicata a “Siamese Dream” degli Smashing Pumpkins e scrivo inoltre di Karen Dalton, Dave Davies, Lijadu Sisters, Joe Tex e della raccolta “The First Rock And Roll Record”.

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Il corpo del reato

D’accordo: sono meno di due mesi che questo blog è su e non è passato che uno dacché è uscito dalla clandestinità. Nondimeno che il post sulla ristampa di “The Crossing” abbia impiegato meno di ventiquattr’ore per diventare il più letto di sempre è alquanto impressionante. Credo che passerò i prossimi giorni grattandomi la testa e interrogandomi su cosa significhi.

A seguire, la mia recensione originale (1983) di “The Crossing”. Un grazie a Giacomo che mi ha mandato le scansioni.

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Mulatu Astatke, dal vivo

Appena visto Mulatu Astatke qui a Torino, al Colosseo. Un concerto straordinario per eleganza, intensità, bellezza degli spartiti e valore degli interpreti.  Uno dei più memorabili ai quali io abbia assistito da un bel po’ di tempo in qua. Questa sera sarà a Bologna, al Teatro Duse.  Chi può andare non se lo perda.

A Torino come secondo pezzo hanno eseguito questo.

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Big Country – The Crossing (Mercury)

Il male che l’uomo fa gli sopravvive e ben lo sappiamo noi che bazzichiamo i settori ristampe nei negozi veri, virtuali e dell’anima. E di come il passato torni a perseguitarci è acutamente consapevole chi fa il mestiere che faccio io. Ti troverai inevitabilmente a dover giustificare, o rinnegare, le sciocchezze scritte in gioventù o anche soltanto l’anno scorso. E non potrai negare a te stesso di essere ormai… be’, un giovane di mezza età quando ti toccherà occuparti della “Deluxe Edition” di un disco che avevi recensito quando uscì. Non so quante volte mi sia già successo. Decine. Però, cazzo, di rigirarmi fra le mani la ristampa che celebra il trentennale di un LP di cui scrissi a suo tempo non mi era capitato ancora. Vale solo come parzialissima consolazione che sia un trentennale farlocco, calcolato su quando si formò la band e non su quando usciva l’album. Luglio 1983. Avevo pubblicato il mio primo articolo su “Il Mucchio Selvaggio” alcuni mesi prima e da lì a qualche mese ancora mi trovai a fronteggiare la richiesta del direttore Max Stefani di occuparmi di ’sti Big Country. “Sono un po’ tipo U2, dovrebbero piacerti”, mi comunicava nel suo solito stile succinto. Ora: potrei sostenere che me li feci piacere perché non potevo non scrivergli quell’articolo e non farei una bella figura. Però adesso ne faccio una peggiore. Mi piacquero sul serio. Ne redassi un autentico panegirico e non è granché come giustificazione che più o meno tutti all’epoca fossero entusiasti di Stuart Adamson e compagni. Io rammento che perseverai. Mi sa che elogiai pure il successivo “Steeltown”, e addirittura qualche mix, e mi va bene – per una questione di spazio e di pecunia dove abito oggi non ho che le ultime annate del “Mucchio”; le precedenti sono conservate altrove – di non potere controllare. Spero che la memoria un minimo mi inganni, siccome sono dischi che ho personalmente ri-recensito nella maniera più definitiva possibile: nei miei scaffali è rimasto giusto “The Crossing”, che comunque non credo di avere mai più riascoltato dai tardi ’80. Fino a ieri.

A favorire la fulminea ascesa dei Big Country fu la stessa caratteristica che poi li dannò: un suono peculiarissimo, inconfondibile, dato da una coppia di chitarre elettriche – quella di Adamson che era anche il cantante, quella di Bruce Watson – che insieme sembravano come delle cornamuse. Non lo si poteva considerare folk-rock, giacché nell’insieme del repertorio le parti acustiche erano poco più che testimoniali, e tuttavia gli influssi folk erano decisivi nel dar vita a un rock della specie più epica. Proprio così, non se n’era mai sentito. C’erano sì delle prossimità agli Horslips, a certi Thin Lizzy, agli ancora giovanissimi U2, ma non più che delle prossimità. Peccato che la trovata, pur geniale, non potesse alla lunga che stancare e difatti stancò. Alla fine le canzoni parevano tutte uguali. Credo (non ne posso essere sicuro, visto che mi fermai a “The Seer”, ma quanto leggo mi conferma in questa idea) che le migliori siano tutte qui, comprese nell’arco dei dieci brani della scaletta originale (il ricchissimo corredo di bonus è superfluo quasi in toto), fra una In A Big Country sferzante e guerriera e una Porrohman che gira verso il melò. L’accorata Chance, una The Storm con finalmente un po’ di chitarre acustiche e la giga Fields Of Fire sono ancora ascoltabili, via. Nondimeno, non mi sembrano davvero “le canzoni che avremmo voluto scrivere noi U2”, diversamente da come sostenne un commosso The Edge nell’elogio funebre che lesse alle esequie di Adamson, morto suicida nel dicembre 2001, quarantatreenne. Sorry, Stuart.

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Damien Jurado – Maraqopa (Secretly Canadian)

Con quella faccia un po’ così, quadrata, che si ritrova e quel fisico che le rockstar in genere sono un’altra cosa, Damien Jurado difficilmente lo si vedrà mai su MTV. Ce l’ha scritto in quei lineamenti tagliati con l’accetta, quest’uomo che probabilmente vive con imbarazzo la recente nomea di “padrino del rinascimento folk di Seattle”, che non sarà mai famoso sul serio. Al più un oggetto di devozione. Se ne cruccia? Macché. Venuto su suonando punk nella città che si apprestava a diventare la capitale del rock grazie al grunge, il nostro eroe esordiva ufficialmente da solista nel 1997 (dopo essersi pubblicato alcuni nastri per conto proprio) su un’etichetta locale ma mondialmente rinomata quale Sub Pop e quando nel ’99 il magnifico “Rehearsals For Departure” ne faceva crescere esponenzialmente la fama pensava bene di dargli un seguito con l’assurdo “Postcards And Audio Letters”, un collage di frammenti di conversazioni variamente raccattate. E nel 2003 dalla Sub Pop passava alla più piccola Secretly Canadian per garantirsi un profilo più basso di quello che cominciava ad avere, meno impegni a distoglierlo dalla famiglia e dal lavoro (insegnante in un asilo, se non è cambiato nel frattempo). Jurado è questo tipo di persona. Come si fa a non volergli bene?

Su che tipo d’artista sia la dice lunga che la canzone più fantastica incisa durante le sedute di registrazione che hanno fruttato questo suo decimo album nell’album non figuri. È una delle sei (e le altre cinque sono tutt’altro che scarti, a partire dall’ennesimo esercizio à la Nick Drake di Diamond Sea) disperse su tre 7” che accompagnano una limitatissima edizione in vinile del disco. Ghost Of David (The Return) la ascolteranno dunque in pochi anche fra i cultori di più stretta osservanza e che razza di spreco pazzesco che è: 8’15” rendibili come “Tim Buckley alle prese con Neil Young” e sono il Tim Buckley di “Starsailor”, il Neil Young di “On The Beach”. Procuratevela, con ogni mezzo necessario. Il secondo brano più memorabile dei sedici complessivi che il Nostro ha eternato con il determinante apporto in cabina di regia di Richard Swift (sodalizio che già aveva dato eccelsi risultati nell’album prima, “Saint Bartlett”) si intitola Nothing Is The News ed è quello sistemato in apertura di “Maraqopa”: mai sentito prima un Jurado così accesamente psichedelico. Ma del resto non ho memoria nemmeno di un Jurado in vena Phil Spector come in Reel To Reel. O, ancora, scanzonato come quello che in This Time Next Year accenna la bossanova o in Museum Of Flight si concede totalmente, risolutamente a un pop scintillante ancorché con un substrato di malinconia. Laddove suona assai più familiare in una Working Titles coheniana e nei quadretti da Neil Young bucolico di So On, Nevada e Mountains Still Asleep. Se non il suo disco più bello di sempre è quantomeno il più variegato.

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