Katie’s Been Gone: un’apologia di Karen Dalton

Con la pubblicazione pochi giorni fa, da parte della solita Delmore Recording Society, di “1966”, collezione di inedite registrazioni “sul campo” realizzate in coppia con l’allora consorte Richard Tucker nell’anno dichiarato dal titolo, sono diventati tre gli album postumi di Karen Dalton. Gli estimatori non mancheranno di emozionarsi ed entusiasmarsi per questi altri trentasei minuti dalla qualità tecnica a dir poco traballante (più 1936 che 1966) di fantasmatici folk-blues perlopiù in moviola. Come del resto si erano emozionati ed entusiamati nel 2007 per il doppio live, con incisioni del ’62, “Cotton Eyed Joe” e nel 2008 per i nastri casalinghi all’incirca dello stesso periodo di “Green Rocky Road”. Tutte aggiunte preziose a un catalogo fino ad allora minuscolo, due appena gli LP pubblicati dalla Dalton in vita, e nondimeno chi non conosce questa artista immensa sempre da quei due capolavori dovrebbe partire. All’altezza della ristampa del secondo scrivevo per il mensile “Il Mucchio” il seguente breve omaggio.

Karen Dalton è scomparsa nel 1993, cinquantacinquenne. Non aveva un tetto. Non aveva un dollaro. Non aveva che braccia riempite per decenni di buchi e qualcuno fra quelli le aveva regalato l’AIDS. Il suo unico tesoro terreno, una collezione di nastri casalinghi di cui racconta Peter Stampfel degli Holy Modal Rounders, andata smarrita alla sua morte ed è una tragedia che fa il pari con una vita raminga e disgraziata. Il suo unico tesoro ultraterreno, un’inconfondibile voce da Lady Day rurale, da Janis Joplin annichilita dalla timidezza. Piace pensare che non si fosse sciupata più di tanto, potendosi già cogliere in essa tutto il dolore e la stanchezza del mondo, e l’anelito vano a un po’ d’amore, nelle venti canzoni appena che ci ha lasciato, incise oltre vent’anni prima. La prima foto “ufficiale” è più vecchia di dieci anni ancora e la coglie su un palco – per Karen, che odiava cantare per un pubblico che non fosse la cerchia degli amici più intimi, una rarità. È il febbraio 1961 e siamo al newyorkese Café Wha?. La ragazza è accompagnata da un chitarrista, alla sua sinistra: Fred Neil. E da un armonicista, alla sua destra: Bob Dylan. Entrambi la citeranno come la loro cantante preferita. La Band le dedicherà una canzone dal titolo premonitore, Katie’s Been Gone, e il club degli estimatori nell’ultimo decennio, dacché la Kock ristampò “It’s So Hard To Tell Who’s Going To Love You The Best” (un Capitol del 1969), ha accolto molti nuovi soci. Adesso che la Light In The Attic ha riportato nei negozi “In My Own Time” (in origine un Paramount del 1971) l’impressione è che, come con quell’altra donna perduta di Judee Sill nel 2005, toccherà mettersi in coda. Libretto firmato da Lenny Kaye, Nick Cave, Devendra Banhart. Poco ci sarebbe da stupirsi se l’industria maggiore dovesse trovarsi a rimpiangere di avere ceduto a etichettine indipendenti, presumibilmente per due spiccioli, i diritti su dischi che all’uscita vendettero nulla.

Si fa in fretta a raccontare la storia di questa donna che – parola di Zimmie – “cantava come Billie Holiday e suonava la chitarra come Jimmy Reed”. Cresciuta in Oklahoma, traslocava nella Big Apple nel 1960 e persino in un ambito anticonformista come quello del Village, ancora abitato dalla scapigliatura beat e in procinto di venire invaso dalla bohème del folk-revival, faceva scalpore quella figura di ragazza madre accanita consumatrice (passerà presto a sostanze meno innocue) di erba. Per qualche tempo il suo appartamento, prospicente il mitico Bitter End, sarà il punto di incontro preferito per i musicisti del quartiere. È ancora Stampfel a indurci a maledire l’idiosincrasia della Dalton per gli studi di registrazione, oltre che per i concerti, favoleggiando delle esecuzioni incredibili che costei era solita regalare ai convenuti fra quelle quattro mura. Irrimediabilmente perse, “come lacrime nella pioggia”. Mentre gli amici diventavano famosi uno dopo l’altro, Karen restava una minuscola celebrità locale. A fregarla, oltre che la paura del palcoscenico, il fatto che fosse “solo” interprete in un’era in cui stava diventando comune che ciascuno si scrivesse le cose che poi cantava. Karen lasciava New York. Di Karen non si sapeva più niente.

Dobbiamo alla pazienza, alla testardaggine, all’astuzia del produttore Nick Venet, che di lei aveva saputo per tramite di Neil, quello scarno, dolente prodigio intitolato “It’s So Hard To Tell Who’s Going To Love You The Best”. Venet la rintracciava nel Colorado, dove già viveva come una barbona, nel 1967 e due anni dopo la persuadeva a incidere, dicendole che era solo per la sua collezione personale, una Little Bit Of Rain (proprio di Neil) squisitamente folk-blues. E in tal modo per così dire sverginatala altre nove canzoni, tutte in una singola seduta notturna in solitudine, gli accompagnamenti – la chitarra elettrica di Kim King e quella acustica di Dan Hankin, il basso di Harvey Brooks, le percussioni di Gary Chester – aggiunti in seguito. Immaginate: un “Pink Moon” registrato da una Holiday bianca innamorata di Robert Johnson, in una capanna sugli Appalachi. Ecco, non avete immaginato abbastanza. Cigolante e narcolettico, “It’s So Hard…” è un’anestesia del cuore non andata a buon fine e dio se fa male, allora. Se non vi commuove una I Love You More Than Words Can Say – di Eddie Floyd e Booker T. Jones: non più, dopo la Dalton – nulla potrà mai.

Si approprierà di un paio di altri classici del soul la ragazza prima di perdersi per sempre e li trovate su “In My Own Time”, la When A Man Loves A Woman di Percy Sledge girata in blues, una How Sweet It Is, da Marvin Gaye, resa con sacrale, sorprendente esuberanza. Prodotto con santissima pazienza da Harvey Brooks nell’arco di sei mesi in quel di Woodstock, è un disco assai diverso dal predecessore ma per certo non meno bello. Il suono è più pieno, più rock, nel suo cielo fa capolino a tratti il sole. In una Something On Your Mind (Dino Valente) carica di languori e dove la voce è una carezza piuttosto che un lamento, in una In My Own Dream (Paul Butterfield) che profuma di Stax e magnolie, in una In A Station (The Band) liquidamente fra folk e jazz. Are You Leaving For The Country, chiede Karen alla fine e – incredibile – un sorriso le si disegna sulle labbra. Sarà lei a partire.

 Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.629, dicembre 2006.

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