Mi devo essere perso qualcosa nel frattempo. Nell’estate 1998, alle prese con la redazione del volume dedicato al grunge nella collana “Atlanti Universali” di Giunti, mi misi provvisoriamente in casa i quattro LP pubblicati dagli Earth fino a quel momento. Non era ancora epoca di musica libera per tutti in Rete e per quegli ascolti dovetti ringraziare amici dalle collezioni molto fornite. Li ringraziai tantissimo, perché se quei dischi fossi stato costretto a comprarmeli i santi del paradiso sarebbero poi stati nominati uno per uno. Insomma: non mi piacquero e nel libro in questione salvai giusto il secondo, “Special Low Frequency Version”, raccontandolo come “un’opera che vive in un universo a sé stante e pertanto difficile da giudicare, una pulsazione mesmerica all’incrocio fra la loureediana ‘Metal Machine Music’ e il minimalismo di un La Monte Young o di un Tony Conrad”. Dicendolo “estenuante, quasi insopportabile, ma interessante”, che non so a voi ma a me non sembra comunque una raccomandazione. Non li ho mai più riascoltati quegli album. Non mi hanno indotto a farlo né la resurrezione nel 2005 della sigla, dopo quasi un decennio di silenzio dovuto ai problemi di tossicodipendenza del leader Dylan Carlson, né il fatto che i Sunn O))), gruppo che personalmente apprezzo e non poco, per quei lavori abbiano sempre dichiarato devozione. Sì, lo colgo che ne sono stati influenzati, ma mi pare che l’unidimensionalità dei primi Earth non sia che uno dei tanti elementi che concorrono a formare il suono viceversa multidimensionale di quel pur alieno e osticissimo capolavoro che è “Monoliths & Dimensions”. E, quanto ai dischi del nuovo corso di una band che Cobain sponsorizzò con una passione degna di cause migliori, non ne avevo – e a oggi non ne ho ancora a parte questo – fatto girare uno che sia uno.
A quanto pare mi sono perso qualcosa. Fra i tanti link che mi vengono inviati con cadenza quotidiana dai distributori per potere pre-ascoltare le nuove uscite con un qualche anticipo rispetto alla pubblicazione, capita che me ne arrivi uno per questo nuovo “Angels Of Darkness, Demons Of Light”, seguito registrato nelle medesime sedute di un lavoro dato alle stampe quasi esattamente un anno prima. Decido di dedicargli quei tre quarti d’ora. E ne vengo catturato. Subito. Durevolmente quanto inesplicabilmente e non valgono i passaggi che si susseguono per chiarirmi il perché di una fascinazione così forte. Ecco, potrei affermare di esserne stato ipnotizzato – e tanto di più quando, arrivatomi il CD, ho potuto maggiormente apprezzare le tante raffinatezze che si celano fra le maglie di un sound tuttora alquanto statico – e forse questo solo accomuna gli Earth odierni all’insostenibile gruppo dei primi ’90: la capacità di tenere avvinto l’ascoltatore in una qualche misteriosa maniera. Quelli forgiatori di riff bradipici (quanto? quanto un ipotetico 45 dei Black Sabbath fatto andare a 16 di giri), questi pur’essi propensi al minimalismo ma un minimalismo affatto diverso, di stratificazioni piuttosto che di bordoni, per certo con un retroterra ancora smaccatamente metal (sempre versante ossianico) ma altrettanto sicuramente affascinatissimo da certo antico acid folk britannico. Durate medie parecchio più contenute rispetto agli Earth di una volta (un brano supera i tredici minuti ma ce n’è anche uno di tre e mezzo), l’album vive di un’iterazione oltranzista di arpeggi usati come base dalla violoncellista Lori Goldston (gruppo per metà femminile: alle percussioni “d’ogni genere” Adrienne Davies) per creare melodie sottilmente insidiose, magari intersecate a un lavorìo di elettriche ora psichedeliche, ora dal twang vagamente country. Ne risulta una musica eccezionalmente cinematografica e più di altre rasente l’indicibile. All’incirca: una collisione strumentale drogata e luttuosa fra Fairport Convention, Thin White Rope, Kyuss. Oppure una versione folky degli Om, fate vobis.
E pensa che il volume I è pure meglio, e l’album Hex, Or Printing In The Infernal Method (Southern Lord, 2005) è anche meglio…
Una specie di Ry Cooder in jam con Neil Young e i Sabbath sul set di “Dead Man”….
Siamo alle solite… troppi dischi da ascoltare per una vita così breve.
Concordo. Ci sono giorni che non ne posso quasi più. Poi esce un bel disco, mi faccio “fregare” e la giostra riparte. La tortura non ha mai fine 😀
In effetti, da quando sono tornati con Hex nel 2005 hanno fatto un disco più bello dell’altro. Mi ricordo le recensioni nell’atlante grunge, e concordavo a grandi linee con quanto scritto. Ma poi hanno messo a fuoco tutto, e i dischi sono bellissimi.
Io, essendomi perso quanto accaduto nel frattempo, sono rimasto veramente spiazzato. Colgo certamente qualche elemento di continuità, ma nella sostanza sono un gruppo diversissimo da quello che conoscevo e che trovavo indigeribile.
A me, sarò pazzo, l’unico che non mi piacque fu Pentastar, pur avendo qualche buono spunto, ma Extra-Capsular Extraction, Earth 2 e Phae III li adoro. sarà per la mia passione verso i Melvins più in moviola, ma li adoro. I dischi pubblicati dopo la “rinascita” di Carlson sono tutta un altra roba, si potrebbe dire un altra band, e Dylan, probabilmente è un altro uomo oggi, ma bellissimi anche questi, con The Bees Made Honey in the Lion’s Skull all apice, a mio modestissimo parere!