Un omaggio ai Jam nel trentennale di “The Gift”

Esattamente trent’anni fa, il 12 marzo 1982, i Jam pubblicavano quello che sarebbe rimasto il loro ultimo album, “The Gift”. Poco meno di dieci anni fa, sulle pagine dell’allora settimanale “Il Mucchio”, pubblicavo questa breve retrospettiva sul primo gruppo di Paul Weller. Che, dal canto suo, a fine mese pubblicherà “Sonik Kicks”, undicesimo lavoro in studio da solista.

Vent’anni fa proprio in questi giorni c’era un singolo nuovo dei Jam nei negozi. Sarebbe andato al numero due nelle classifiche britanniche, a momenti un insuccesso visto che fu quello che separò due numeri uno, A Town Called Malice e Beat Surrender, ma i fans non l’avrebbero mai dimenticato e per sempre quel titolo – tradotto: La pillola più amara (ch’io abbia mai dovuto ingoiare) – sarebbe parso loro terribilmente beffardo: la sua uscita coincideva difatti con un annuncio che gettava nel lutto la generazione che aveva eletto Paul Weller a portavoce. I Jam si scioglievano ed era da quando erano stati i Beatles a dire basta che una separazione non suscitava un simile baccano mediatico. L’anno e la vicenda del trio di Woking erano suggellati da un tour di congedo e dal live “Dig The New Breed”. Subito dopo, la Polydor ristampava diciotto 45 giri dei ragazzi e  quattordici, alcuni dei quali vecchi un lustro e già dei successi a loro tempo, rientravano nei Top 100, record quantomai indicativo della popolarità del gruppo. Sull’avventura successiva di Weller, quegli Style Council di cui si racconta altrove in queste stesse pagine e che fino al secondo album compreso avrebbero scritto alcune delle più belle pagine del pop albionico degli anni ’80, sarebbe sempre pesato, fra la stampa come fra il pubblico, il senso di delusione, di tradimento addirittura, indotto da un “rompete le righe” sembrato ai più intempestivo. Se penso oggi come allora che i Jam avessero almeno un paio di altri grandi LP nelle loro possibilità, più ancora di allora mi pare che il loro addio fu straordinariamente, oltre che coraggioso, stiloso. Salutare all’apice della propria parabola sia commerciale che artistica: dovrebbero fare tutti così. Pochi anni, ma ruggenti.

A proposito di anni: il Paul Weller che dice stop ne ha compiuti ventiquattro da poco e cinque e mezzo sono trascorsi dacché, dopo una gavetta di quattro, i Jam sono approdati all’esordio discografico minore con il basso discendente, la chitarra ascendente e la batteria sparata sulla faccia di In The City, singolo fra i più memorabili dei tanti memorabili datati 1977 e catalogati alla voce “punk rock”. Fate voi i conti e calcolate quanti ne aveva il giorno che per la prima volta affrontò il palco, con il padre John (che ne è tuttora il manager) già a sorvegliarne con affetto e perspicacia le mosse. Incredibile, eh? Ma, non fosse per la verdissima età dei protagonisti, la storia dei primi Jam è così simile a quella del tipico complesso debuttante – stessi concerti dinnanzi a platee improbabili, stessi cambi di formazione che lasciano sul campo uno o più Pete Best (due nel loro caso), stesso insinuarsi in un repertorio di cover di brani autografi; insomma: stessi sogni alla uno su mille ce la fa – che non merita soffermarsi su di essa. Tanto vale arrivare subito al fatidico ’77.

Nella Londra del Giubileo bruscamente svegliata dalle sue illusioni di grandezza dai tamburi di guerra del punk il terzetto di Woking – con Paul, voce e chitarra, saranno fino alla fine Bruce Foxton al basso e Rick Buckler alla batteria – è presenza da subito fuori dagli schemi e per questo presto non granché gradita da una rivoluzione troppo svelta a farsi nuova ortodossia. Segnano uno stacco rispetto all’iconografia corrente i completi giacca e cravatta che i tre indossano allacciandosi anche visivamente alla tradizione mod. Lungi dal rifiutare almeno a parole tutta la storia precedente del rock – “né Elvis né Beatles né Rolling Stones nel 1977”, cantano i Clash sapendo di mentire – i Jam omaggiano gli anni ’60 e non solo quelli del beat e del garage, ma anche quelli del surf, del soul, del rhythm’n’blues. Più che la volontà di essere rudi e aggressivi a tutti i costi, è una non ancora impeccabile padronanza degli strumenti a fare di “In The City” il grezzo diamante che è. Considerato unanimemente fra i migliori esempi di punk primigenio, l’album non è in realtà invecchiato benissimo e paga, oltre alla tecnica approssimativa dei suoi artefici, pure una scrittura ancora da rifinire. Eccezionale è tuttavia la freschezza ed è quella, sommandosi alla rilevanza storica, a garantirgli puntualmente la presenza in ogni elenco che si rispetti dei più importanti dischi della storia del rock. Proprio la  “significatività” gli ha procurato un posto (dovreste sapere) anche fra i 500 di “Extra”. Ma la vicenda dei Jam fu caratterizzata, a parte l’inciampo di un secondo LP affrettato, da un costante progredire e andrebbe forse percorsa dal neofita a rovescio, partendo dall’ultimo “The Gift”, quello sì un capolavoro. Da qualunque parte vi si arrivi, “In The City” resta comunque album epocale, dallo “one-two-three-four” che introduce l’incalzante Art School alle ultime battute della non meno energica Bricks And Mortar. È poco più di mezz’ora senza requie di cui si imprimono indelebilmente nel ricordo il surfeggiante caracollare di Slow Down (una cover di Larry Williams), un irruvidimento dei Byrds via Who chiamato Away From The Numbers, il beat alla Kinks prima maniera (con armonie vocali alla Beach Boys) di Sounds From The Street e l’esilarante ripresa del Batman Theme.

A proposito di Who: c’è una loro spilletta appuntata sul maglione di Paul sulla copertina di “This Is The Modern World”, secondo 33 giri del gruppo pubblicato a pochi mesi dal primo, ancor prima che l’anno si concluda. “In The City” ha venduto bene, arrivando a violare i Top 20, e sia la Polydor che John Weller hanno ritenuto opportuno battere il proverbiale, rovente ferro. Paul ha però poche canzoni valide in saccoccia (in fondo per preparare l’esordio aveva avuto anni a disposizione) e altro per la testa: si è innamorato e quante altre cose possono contare a diciannove anni? La dura etica del lavoro che ne ha caratterizzato tutta la vita a oggi si prende un po’ di vacanza e nel disco si sente. Non brutto, l’album è però anonimo, il che è forse peggio. Si salvano una The Modern World che deve nondimeno troppo alla Pictures Of Lily di Pete Townshend, la malinconica Life From A Window e una London Girl la cui limpida melodia quasi redime un’esecuzione pestona. E poi un buon finale in cui un’esuberante, garagista lettura di un classico errebì quale In The Midnight Hour di Wilson Pickett è preceduta da una promessa che verrà mantenuta di evoluzioni future: Tonight At Noon dispiega chitarre acustiche e ha fragranze di Albione psichedelica, suoni e aromi fuori registro nell’Inghilterra settantasettina.

Urge un riscatto e i Jam si prendono un anno per confezionarlo, attesa ripagata da un “All Mod Cons” che li riporta in auge fra la critica e sarà la pietra d’angolo sulla quale i tre fonderanno una popolarità senza pari nella Gran Bretagna dei primi ’80 (ove l’America non li capirà invece mai). Intatto l’anfetaminico impeto delle prime prove, il disco evidenzia una scrittura assai più variegata, capace di transitare con naturalezza da una suprema versione di David Watts dei Kinks alla folkissima English Rose e da quella a In The Crowd, uno dei più eccitanti apocrifi Who di sempre. Dai Byrds strafatti di speed di The Place I Love al clashiano rutilare di A Bomb In Wardour Street, a una Down In The Tube Station At Midnight che chiude i conti con l’equivoco punk e spalanca orizzonti di gloria. L’arroganza di Paul Weller, sempre pronto a scagliarsi nelle interviste contro contemporanei e cariatidi che punzecchia quando non irride, senza la gratitudine (riparerà) che si dovrebbe a chi ha mostrato la strada ed è stato vampirizzato, comincia ad avere una qualche giustificazione o pressapoco. Taglienti e anticonformisti (persino qualche simpatia Tory gli venne rimproverata all’inizio) i suoi giudizi, non soltanto su argomenti musicali, contribuiscono la loro parte a fare identificare in lui una gioventù britannica che dopo avere rigettato gli eroi scopre un gran bisogno di averne.

I Jam fanno ciao ciao agli anni ’70 con un LP buono e uno splendido e vedendo sempre più da vicino il vertice delle graduatorie di vendita sia dei 45 che dei 33 giri. La prima è conquistata per la prima di quattro volte a inizio 1980 con Going Underground, uno dei loro tanti singoli non tratti da album (pratica ricorrente nei ’60, poi caduta in disuso), mentre per la seconda bisognerà aspettare “The Gift”. Dischi che confermano insieme un’ossessiva ricerca dello stile e il loro essere sempre in movimento, caratteristiche che più ancora della musica rendono i tre di Woking dei perfetti esponenti della cultura mod. “Setting Sons”, del 1979, parte con l’irresistibile power pop di Girl On The Phone e prima di fermarsi rovinosamente (felicemente) con una fumigante Heat Wave, che fu di Martha & The Vandellas, sistema sulla strada pietre miliari inaudite – Little Boy Soldiers sfoggia persino rimembranze Family; Smithers-Jones (nettamente il migliore dei rari apporti compositivi di Foxton) è tutta archi e raffinatissima – o di taglio più familiare – in The Eton Rifles, chitarra tagliente, basso rotolante e un organetto scappato da una collezione di “Pebbles”. È un po’ il “Rubber Soul” dei Jam e allora “Sound Affects”, del 1980, è il loro “Revolver”, con una Pretty Green che si potrebbe pensare degli XTC, una Monday che inventa i Blur, una Start! ricalcata con fin eccessiva devozione sulla Taxman dei Fab Four, l’innodia sardonica e ineffabile di That’s Entertainment, lo squisito pasticcio di surf e ska di Music For The Last Couple, gli intarsi di fiati circensi di una Boy About Town degna di Ray Davies.

Ma, no, “The Gift”, che vede la luce nel marzo ’82, non è il “Sgt. Pepper’s” della banda Weller se non in un senso: che come quello fa epoca. È il disco in cui infine l’ossessione black del leader trova sfogo non solamente in riprese di brani altrui ma in originali strepitosi come la funkissima Precious, una Trans-Global Express che è quintessenza di Otis Redding, una title-track che è aggiornamento di Stax al dopo punk. Né meno immani risultano una Happy Together di cui sia Ray Davies che Pete Townshend potrebbero menar vanto, il mirabile congegno a orologeria chiamato Ghosts, il superbo vaudeville The Planner’s Dream Goes Wrong. Per non dire di Town Called Malice, del centinaio all’incirca di canzoni lasciateci dai Jam la più micidialmente immediata.

Giornalisti e fans applaudono fino a spellarsi le mani. Non possono sapere che, da lì a pochi mesi, Paul Weller sceglierà un’altra formula e altra gente per declinare il più convincente soul bianco del decennio. I più delusi saranno Foxton e Buckler, onesti gregari che, contrariamente al leader, non sapranno rifarsi una vita.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.503, 1° ottobre 2002.

11 commenti

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11 risposte a “Un omaggio ai Jam nel trentennale di “The Gift”

  1. Giancarlo Turra

    Non vediamo l’ora di un “non si esce vivi” con oggetto gli Style Council. Che, per inciso, a me piacciono ancora tantissimo, ovviamente fino a “our favourite shop”. Tra l’altro, è stato il primo concerto rock visto in vita mia, a Ferrara, nel 1985.

  2. Giancarlo Turra

    Vero: certi suoni, direi più per “Our Favourite Shop” che “Café Bleu”, non sono invecchiati benissimo.
    Le timbriche un pò troppo ’80 oggi fanno sorridere, a volte manca un pò di nerbo e via dicendo.

    Anche se in effetti tanti dischi di allora hanno le medesime magagne (il rullante della batteria che dall’85/86 in poi fa “bash bash”, per dire…) e andremmo allegramente “outta topic” … 😀

  3. stefano piredda

    La prima volta che ho sentito parlare dei Jam era sul mio libro di inglese di prima media (!).
    Poi (più o meno in contemporanea) arrivò una recensione di Sound Affects su Ciao 2001 (!!).
    Per ascoltarli ci volle il Mucchio (ero in terza media quando uscì la recensione di THE GIFT, credo fosse firmata da Alberto Merletti).
    Per anni li l’ho avuto solo su cassetta. Troppo bello. Troppo mio.
    Se lo riascolto mi viene un groppo in gola.

    • Complimentoni all’autore del tuo libro di inglese. Al di là di ogni nostalgia, “The Gift” resta un disco fantastico. Credo che lo sia anche per chi si trova ad ascoltarlo per la prima volta a trent’anni dall’uscita.

  4. giuliano

    gli style council li avvicinai, ragazzino, acquistando a poco prezzo the cost of loving… fui, come dire, poco fortunato. questo disco e il successivo e ultimo, confessions of a pop group, sono stati un pessimo congedo, veramente orrendi.
    ebbi poi modo di apprezzarli: fino a our favourite shop, come da consenso generale, nulla da dire.
    epperò, sono anni che non li ascolto più. calo definitivo del desiderio.
    che invece si è riacceso improvviso e feroce per i jam, dopo aver letto l’articolo di eddy: bisogno immediato di riascoltare in the city, insieme -per quei giochi analogici che riaprono mondi – a no more heroes degli stranglers e a my aim is true di elvis costello. il mio cuore li ha messi insieme, chissà perché… magari è che sono tutti del 1977

    • Su “The Cost Of Loving” già la copertina avrebbe dovuto suscitare qualche sospetto… Per me Jam e primi Style Council emotivamente sono sempre stati sullo stesso piano, perché il primo album dei Jam a entrarmi in casa fu “The Gift” e gli Style Council arrivarono a ruota.

  5. Che voglia mi è venuta (mi hai fatto venire) di riascoltare The Gift! Ricordo ancora quando mio padre me ne fece dono di ritorno da un viaggio di lavoro. Sulla copertina della mia edizione (vinile) c’è lo strillo: “Contiene il brano 1. in classifica in Inghilterra Town Called Malice”!

  6. Andrea Peviani

    Quella foto era un poster contenuto nel vinile d’epoca? Io ai Jam arrivai contemporaneamente agli Style Council con la raccolta Snap!, su cui c’era anche quella foto. Ancora oggi uno dei miei album preferiti in assoluto, anche se e’ una raccolta.

  7. Gian Luigi Bona

    Io ho conosciuto e ascoltato i Jam in diretta mentre i dischi uscivano e per me Paul Weller era la voce da ascoltare per capire il mondo. Quando seppi dello scioglimento fu come un frontale con un tram. Amai parecchio gli Style Council. All’epoca studiavo a Torino e quando percorrevo i viali per tornare nell’appartamentino che condividevo con un tizio mi sembrava di sentire “The Paris Match” o “My ever Changing Moods” che mi accompagnavano. Sono stati anni indimenticabili, Paul Weller se la cava ancora e io ho una famiglia che adoro però quegli anni sono stati unici. Grazie Eddy per i ricordi.

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