Il 19 marzo 1962 un ventenne registrato all’anagrafe come Robert Allen Zimmerman, ma già alquanto noto nei circoli folk newyorkesi come Bob Dylan, pubblicava su Columbia il suo primo, omonimo 33 giri. Per quanto il giovanotto fosse un bel tipo di mitomane mi sentirei di escludere che potesse immaginare anche nei suoi sogni più selvaggi che avrebbe cambiato il mondo – un po’ – come invece ha fatto.
Nel 2003, in corrispondenza con l’uscita sulla succursale “Extra” di un corposo articolo dedicato agli anni ’60 del nostro eroe, pubblicai sul “Mucchio” questi ben più succinti consigli per gli acquisti.
Lo scorso maggio ha compiuto sessantadue anni e ne sono trascorsi quarantuno dacché esordì. Era giust’appunto il ’62. Come pretesto “matematico” per celebrare Bob Dylan è deboluccio, ne conveniamo. D’altro canto, per festeggiare il quarantesimo anniversario del primo capolavoro, “The Freewheelin’”, si era in ritardo di qualche mese e comunque: c’è bisogno di una scusa per omaggiare l’uomo di Duluth? Profondissima è stata la traccia che ha lasciato sul mondo da quel 24 gennaio 1961 in cui, reduce da una visita in ospedale al suo idolo Woody Guthrie, mise per la prima volta piede a New York e per la precisione al Village, il quartiere dei reduci del beat (quello letterario, ché il musicale era ancora a venire) e dei malati di jazz, degli attivisti politici e dei custodi del folk (figure che spesso coincidevano), e degli artisti di ogni specie, e insomma di una variegata scapigliatura disposta sull’intero arco che dallo scioperato porta all’intellettuale vero. Lo avrebbe messo a soqquadro in men che non si dica, cantando canzoni antiche con voce nuova e nuove con voce antica e da lì sarebbe partito per conquistare in rapida successione il resto della Big Apple, l’America, il mondo. Prima vestendo con gli abiti dimessi ma fascinosi del folk testi come non se n’erano mai uditi. Quindi portando quella stessa poesia, fra la disperazione e gli alti lai dei primi discepoli che si sentirono traditi, nel rock, musica che così rese adulta e, proprio mentre veniva eletta a vessillo della generazione che invitava a diffidare dei trentenni, potenzialmente per adulti. Una rivoluzione messa in scena in quattro tumultuosi anni e sette album e che avrebbe potuto trovare una conclusione a suo modo perfetta, di quelle che amano gli archivisti, se l’incidente in moto che nel 1966 fermò la corsa del giovanotto avesse avuto conseguenze fatali. Così non fu e per fortuna, siccome il Dylan successivo se non ha più fatto la Storia agli annali del rock ha ancora regalato, fra umanissimi alti e bassi, pagine importanti e sublimi. Tante. Alle prese con la scelta, consueta per questa serie di articoli, di dieci titoli più dieci, con ammirato stupore abbiamo dovuto alla fine escludere diversi album che avrebbero meritato una segnalazione.
Il che di per sé dovrebbe bastare a dare un’idea anche al ragazzino per il quale “Bob Dylan” è al massimo un nome scorto nella collezione di dischi del fratello maggiore se non del padre (o, a questo punto, del nonno) dell’importanza di costui, della sua centralità in un universo culturale che nessuno, eccettuati i Beatles, ha contribuito a creare e a plasmare quanto lui. Per la prima volta, in coincidenza con la ben più corposa indagine sull’uomo che nacque Robert Allen Zimmerman contenuta sul numero di “Extra” appena giunto in edicola (a quella rimandiamo per gli approfondimenti), dedichiamo una discografia di base non a un genere ma a un artista. L’idea è di replicare nei prossimi mesi con profili dei due soli solisti che, in quest’ambito, vantano discografie accostabili a quella di Dylan per consistenza e picchi, ossia Lou Reed e Neil Young. E subito prima, o dopo, con uno speciale sui molti che a Bob Dylan devono qualcosa, tanto, se non tutto.
“The Frewheelin’ Bob Dylan” (Columbia, 1963) – Epocale la copertina, con il Nostro a spasso con la fidanzata, epocale il trittico chiamato subito a esporre la sua vertiginosa maturazione come autore, a pochi mesi da un esordio in cui aveva fatto più che altro l’interprete: se Blowin’ In The Wind disegna la speranza di un mondo nuovo, Masters Of War fustiga il vecchio. Piazzata in mezzo, Girl From The North Country è un ritratto di ragazza perduta che avrebbe dovuto già da allora chiarire che Dylan non si sarebbe fatto intrappolare da qualsivoglia formula, meno che mai da quella della canzone “di protesta”. Altri classici: A Hard Rain’s A-Gonna Fall, Don’t Think Twice It’s All Right.
“Bringing It All Back Home” (Columbia, 1965) – Album di transizione, ma chi mai ne ha realizzato uno di questa forza? Una facciata che è un salto nel vuoto, un’altra che è un congedo che certifica che la rivoluzione era cominciata, sebbene nessuno se ne fosse accorto. La prima è elettrica ed è come se Chuck Berry e Allen Ginsberg fossero stati clonati, ma con il DNA mischiato. La seconda è ancora acustica, epperò è un mondo nuovo che nasce fra le drogate visioni di Mr. Tambourine Man e il più dolce addio di tutti, It’s All Over Now, Baby Blue.
“Highway 61 Revisited” (Columbia, 1965) – Cinquantadue minuti (lunghezza fenomenale per il tempo) che riescono nel miracolo di mantenere fino in fondo la tensione stabilita dai primi sei, dall’elettrizzante invettiva di Like A Rolling Stone, il brano del quale come di nessuno si può dire che nulla, nel rock, fu più lo stesso dopo. Nove canzoni colossali, unione di inaudita possenza di testi torrenziali e rock-blues esplosivo tenuto assieme dall’organo travolgente e lirico di Al Kooper, con le chitarre che graffiano e stridono come gatti in calore e la ritmica che scappa da tutte le parti.
“Live 1966” (Columbia, 1998) – A Manchester, il 17 maggio 1966, le tensioni di un tour mondiale bersagliato ovunque dalle contestazioni dei puristi del folk, che nell’elettrificazione della musica del non-più-menestrello vedono un inseguire il mercato invece che un copernicano cambiamento di prospettiva, giungono all’apice nell’insulto che uno spettatore urla a Dylan: “Giuda!”. Lui si gira e ordina alla Band di suonare a volume “fottutamente alto”. Parte la più eccitante Like A Rolling Stone di sempre. Un CD acustico e uno elettrico di valore musicale enorme e documentario incommensurabile.
“Blonde On Blonde” (Columbia, 1966) – Il primo album doppio della storia del rock è una versione estesa, raffinata e pacificata del predecessore. Più eclettico di “Highway 61”, si muove fra blues e country, shuffle chiesastici e valzerini, allucinazioni gentili (Visions Of Johanna) e gli estremi del sentimento amoroso, a un cui lato sta I Want You, all’altro Just Like A Woman.
“Blood On The Tracks” (Columbia, 1975) – A proposito, per dirla con De Andrè (uno che da Zimmie due o tre cose le aveva imparate), di amore che viene e amore che va: il nostro eroe lo ha sempre negato, ma è chiaro che fu il divorzio a ispirargli un disco caratterizzato da una malinconia struggente e da testi descrittivi come di rado. È il più intenso emotivamente dei suoi album e almeno tre dei suoi episodi – Tangled Up In Blue, Simple Twist Of Fate e Shelter From The Storm – non possono mancare neppure nella più tirchia delle antologie.
“Infidels” (Columbia, 1983) – Il ritorno alla forma che nemmeno il più accanito dei cultori si sarebbe potuto attendere, dopo la famigerata trilogia religiosa inaugurata dal musicalmente non disprezzabile “Slow Train Coming”. Asciutto il suono, denso di sentimento soul e con il giusto piglio rock’n’roll, fantastici i musicisti all’opera (e fra essi la sezione ritmica che mai ti aspetteresti: Sly Dunbar e Robbie Shakespeare; ma ci sono anche Mark Knopfler e Mick Taylor), stellare la scrittura, con apici in Jokerman e in Sweetheart Like You.
“Oh Mercy” (Columbia, 1989) – Altri tre LP di decorosa routine e poi Dylan suggella col botto un decennio iniziato con tanti tentennamenti. È il suo disco che suona meglio in assoluto, grazie alla mirabile produzione di Daniel Lanois e agli stessi musicisti che in quei mesi fecero colossale “Yellowmoon” dei Neville Brothers. Registrato a New Orleans e si sente. Pagliuzze d’oro sparse dappertutto fra i solchi e pepite grosse come un pugno chiamate Man In The Long Black Coat e Most Of The Time.
“The Bootleg Series Volumes 1-3” (Columbia, 1991) – Stupore e un po’ di sgomento fra gli esegeti quando si scopre che “Infidels” avrebbe potuto essere ancora più immane di quanto non sia se inspiegabilmente l’autore non avesse escluso dalla scaletta Blind Willie McTell, la sua canzone più memorabile da Tangled Up In Blue in poi. È una delle gemme regalate a decine da un cofanetto (triplo il CD, quintuplo il vinile) che razzola in trent’anni di carriera recuperando inediti sontuosi e versioni alternative dall’intrigante (una Subterranean Homesick Blues acustica) al singolare (una Like A Rolling Stone a tempo di valzer).
“Time Out Of Mind” (Columbia, 1997) – Fedele alla regola “almeno un capolavoro per decennio”, Bob Dylan saluta anzitempo i ’90 rinnovando il sodalizio con Lanois. Sarà che una grave malattia lo ha ridotto mesi prima in fin di vita, sarà che è a mezza via fra i cinquanta e i sessanta e certi pensieri non possono non venire: fatto è che la Grande Livellatrice è tangibile presenza in un album il cui primo verso dice “cammino lungo strade morte”. Lavoro che non offre conforto alcuno se non una vitalità che abbaglia, “Time Out Of Mind” dura qualche minuto in più di “Blonde On Blonde” e – trentuno anni dopo! – ne replica la grazia. Diavolo di un uomo.
Ne voglio ancora!
“Bob Dylan” (Columbia, 1962) – Se l’autore è ancora legato ai moduli alla Guthrie sui quali in parte si è formato, l’interprete mostra già una maturità straordinaria per i suoi vent’anni, muovendosi con disinvoltura fra folk bianco e blues.
“The Times They Are A-Changin’” (Columbia, 1964) – Corrucciato come la foto che campeggia in copertina, chiama a raccolta le tribù giovanili con il brano omonimo e risulterà il disco più “politico” del Nostro.
“Another Side Of” (Columbia, 1964) – Echi di Lennon e presagi di Springsteen in quello che per ventotto anni resterà l’ultimo LP acustico di Dylan. Ma in Black Crow Blues già rintocca un piano rock’n’roll. Chimes Of Freedom ha una forza immaginifica indicibile, My Back Pages è un annuncio di cambiamenti in corso e a venire.
“John Wesley Harding” (Columbia, 1967) – Il ritorno dopo l’incidente fa arrabbiare i fans del rock per ragioni opposte a quelle per le quali i dischi prima avevano fatto infuriare i folkettari. Non sanno che farsene di questo Dylan bucolico e non colgono un’epica più forte che mai. Andranno a Canossa.
“New Morning” (Columbia, 1970) – Testi bellissimi (per una volta più prossimi a Verlaine che a Rimbaud, alla Dickinson che a Whitman) ce lo hanno fatto preferire a un album più coeso quale “Desire” e alla colonna sonora di “Pat Garrett & Billy The Kid”.
“Planet Waves” (Asylum, 1974) – Comincia bene il breve soggiorno alla Asylum, con un disco che avrebbe dovuto essere cointestato a The Band tanto è decisiva in esso la presenza di Robbie Robertson e soci.
“Before The Flood” (Asylum, 1974) – Ed eccolo l’album a metà: è il primo live di Dylan e rimarrà il migliore fino al recupero del concerto del 1966 a Manchester.
“The Basement Tapes” (Columbia, 1975) – Nel 1967, nel buon ritiro woodstockiano seguito all’incidente, Dylan e la Band vanno alla ricerca delle loro radici. Mitologico viaggio di cui questo doppio darà parziale quanto imperdibile resoconto solo anni dopo.
“Live 1975” (Columbia, 2002) – Il tour con la Rolling Thunder Revue era già stato immortalato in “Hard Rain”, ma questo riassunto è più generoso.
“World Gone Wrong” (Columbia, 1993) – Secondo pannello del dittico aperto l’anno prima da “Good As I Been To You”, il disco del ritorno al folk, “World Gone Wrong” è figlio delle medesime suggestioni e influenze che nutrirono nel 1962 “Bob Dylan”. E quindi fantasticamente procrastinata chiusura (ma davvero sarà così?) di cerchio.
Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.547, 23 settembre 2003.
l’analogia tra le chitarre e i gatti in amore è una di quelle cose che rendono la giornata degna di essere vissuta. Seriamente.
Il primo disco di Dylan che ho ascoltato è stato The Times They Are A-Changin: chiaramente è un fatto personale ma rimane il mio preferito, almeno della fase folk. Comunque per me Blood On The Tracks (ma non solo) riesce ancora a fare la Storia: del Rock, dei Settanta, della Terra del Mare e pure mia, altroché…
Per la stessa ragione io sono molto affezionato a “At Bukodan”, che viene quasi immancabilmente spernacchiato, ovunque e da chiunque. E che resta un album che difenderò fino all’ultimo respiro.
Io ho passato la mia infanzia con mio fratello maggiore che ascoltava gruppi tipo Dead Can Dance, Joy Division, Fields Of The Nephilim, Virgin Prunes e così via. Ricordo lunghi viaggi in macchina con Nada! dei DIJ come accompagnamento sonoro…Un giorno vedo questo disco nello scaffale, che il caro parente aveva comprato prima di scoprire che i gruppi dark potevano far colpo sulle ragazze molto più di una vecchia gloria ammuffita, e per curiosità lo ascolto. Per me Dylan dunque era la ribellione contro lo status quo, contro la musica di “papà”, insieme ad altri della sua epoca,anche se per me erano lontanissimi come età.
Ottima scelta, ma vedo che anche tu come tutti (quasi tutti?) non ami il periodo “religioso”. Certo, “Every Grain of Sand” c’è per fortuna in “The Bootleg Series Volumes 1-3, anche se in versione differente, e io sono probabilmente l’unico ad apprezzare l’approccio alla musica gospel nera di “Saved”, ma “Slow Train Coming”, secondo me, merita di essere inserito tra le sue vette ed è molto di più che “non disprezzabile”. Non c’è ragione, poi, di ignorare quei dischi in quanto religiosi (so che la cosa può dar fastidio) perché tutta l’opera di Dylan è intrisa di riferimenti religiosi e i dischi posteriori a quel “famigerato” periodo non soltanto ne sono ancora pieni, ma alcune canzoni, anche recenti, non avrebbero stonato quei tre lavori.
A irritare di “Slow Train Coming” non furono certo i riferimenti religiosi, presenti da sempre in Dylan, ma il tono predicatorio. Musicalmente resta un buon disco con un paio di canzoni almeno – “Gotta Serve Somebody” e “Man Gave Names To All The Animals” – che hanno resistito benissimo agli anni. Però in una lista di venti Dylan non sarebbe, secondo me, nemmeno il ventunesimo (“Desire”) o il ventiduesimo” (“Street Legal”, se non si vuole considerare “Pat Garrett” in quanto colonna sonora). Non conto “Modern Times” (che comunque a me, confesso, appalla alquanto) perché all’epoca in cui scrissi il pezzo non era ancora uscito.
D’accordo su “Modern Times”, rispetto la tua opinione su “Slow Train Coming”, che comunque preferisco a “Street Legal”… E, riferendomi alla tua risposta a F. Manca, mi associo nella difesa a oltranza di “At Budokan”, che forse, se ben ricordo, fu proprio il disco che mi fece amare Dylan. Il resto lo scoprii in seguito.
Io non tolgo un brano da “At Budokan”. E più gli arrangiamenti sono eccentrici, più mi piacciono. E – Heartbreakers a parte e facendo finta che lui e i Grateful Dead non abbiano mai avuto la pessima idea di unire le forze elidendosi a vicenda – non mi sembra che Dylan abbia mai più girato con musicisti così bravi.
Per favore, non toccarmi i Grateful Dead! Sì, sono partigiano, ma almeno riconoscerai che separati i Dead e Jerry Garcia con la sua band hanno fatto reinterpretazioni strepitose dei brani di Dylan.
E chi li tocca? Possiedo l’opera omnia in studio e un bel po’ di live. Ma il sodalizio con Dylan non funzionò proprio.
gli innamorati di dylan si macerano di fronte alle liste, io non fo eccezione.
il cuore sanguina per la mancanza di desire e si dispiace abbastanza per l’assenza di street legal, che continua ad essere uno di quelli che torno ad ascoltare più spesso.
live 1975 non mi ha mai del tutto convinto: i brani furiosamente trasfigurati come romance in durango, con il suo stop and go, mi lasciano a metà tra l’esaltazione e l’irritazione.
detto questo, questa discografia di base ci può stare tutta: c’è da inviarla a qualche mio amico che non ama dylan (è ora di cambiare amici, mi sa)
Ma no, gli amici sono amici. Si perdona tutto. Essere interisti, votare a destra, detestare Dylan… che sarà mai…
Immagino che per qualcuno sia più arduo perdonare un’eventuale fede nerazzura, che il voto a destra ;P
Si perdona persino il vegetarianesimo, figurati un po’. 😉
mah, essere interisti mi può anche andare giù, il problema è essere romanisti…
ma se uno ama dylan gli perdono anche l’essere tifoso della squadra che nacque 27 anni dopo della lazio.
è dura, ma concedo il perdono… se si pentono amaramente li perdono.
Always on my mind…
Ma poi lasciamo perdere il calcio, ché è argomento sul quale sono tutti suscettibilissimi. Sottoscritto compreso, sia chiaro.
Non seguo il calcio: mi annoia a morte. sono un grande appassionato di basket, però. L’unico sport che ho seguito e praticato in gioventù che ancora seguo. L’altro era il ciclismo su strada: ho lasciato stare perché già mi bastano i drogati del rock and roll. Più divertenti, più creativi.
Prova con il rugby, brother. Sportivamente/televisivamente parlando, non c’è nulla di più spettacolare di un’azione alla mano che si conclude in meta.
si scherza, veh…
Ovvio.
era chiaro, ma il mio rapportpo con lo sport è davvero come ho scritto… ;D
in effetti, Bro, alterno la palla a spicchi con quella ovale da un lustro in qua. Aneddoto per chiudere il discorso sul calcio (?). Fino a due anni fa avevo un gruppo in cui suonavo il basso: alla ricerca di batteristi, ne arrivò uno – che scartamo come non idoneo – che faceva lo sceneggiatore di fumetti, la cui band si era sciolta dopo il 5 Maggio, siccome il cantante era interista e aveva mollato tutto, partendo per il Marocco. Mi sono sempre chiesto se è mai entrato nei Pipers di Joujouka…
Manca solo PAT GARRETT, polveroso e bellissimo. Nella lista l’avrei messo al posto BEFORE THE FLOOD.
E su AT BUDOKAN concordo. In particolare sulla versione in odore di Giamaica di DON’T THINK TWICE IT’S ALRIGHT e su quella di BLOWIN’ IN THE WIND (la migliore che io abbia mai ascoltato?).
E religiosamente mi congedo con un ricco “may God bless and keep you always…”.
Che ci sta.
Sto anonimo qui sopra ero io…
E “Simple Twist Of Fate”? Vado a memoria, eh? Ma quasi da lacrimuccia.
La selezione è secondo me un po tirata per i capelli (se fosse stata fatta sul Boss forse avresti messo qualche disco in più rispetto all’essenziale). Trovo grave non aver inserito nella prima fascia “Biograph”, The Times They Are A-Changin’ e Street Legal mentre penso sia un tantino manieristico ancorché molto bello Infidels. The Bootleg Series, Vols. 1-3 del 1991 è una raccolta bellissima e indispensabile ma Biograph lo è ancora di più. Forse sempre in prima fascia avrei messo pure The Basement Tapes. Ho voluto amichevolmente innescare un po di verve polemica ma nel passato (se non vado errato su Extra nell’articolo monografico su Zimmerman) tu stesso hai confessato di non essere mai stato un fan sfegatato di Dylan. Spero di non averti fatto arrabbiare. Ciao.
ho dimenticato di mettere il nome nel commento
La formula di quella serie di articoli era 10 + 10 e non si scappava. “Biograph” è una raccolta alla carriera e in nessun modo si sarebbe potuta includere un’antologia di quel tipo in un elenco di fondamentali di un artista che ha sempre fatto dell’album il suo formato discografico di riferimento. Riguardo all’articolo di “Extra” ricordi male, molto male. Per il resto, va da sé che in qualunque lista pesino – oltre alla cosiddetta giurisprudenza – i gusti personali.
I miei preferiti di Dylan sono (ovviamente) Highway e Blonde,a seguire Bringing.Per i ’70 giudico ottimi Blood on the tracks e il sottovalutato Desire.Per approfondire Freewheelin e i Basement.Per gli ’80 salvo solo il discreto Infidels e il singolo Series of dreams mentre non mi è mai piaciuto Oh mercy(sono belli i suoni ma mancano le canzoni).Ritengo Time out discreto ma non quel gran disco che tutti dicono.Ritengo Dylan uno dei geni del secolo scorso ma non credo che abbia fatto un grande disco ogni decennio.L’ultimo suo ottimo disco credo sia Desire.
Oh Mercy, forse l’ho già scritto, ha bellissime canzoni. Ma prendi, per esempio, Man With The Long Black Coat. Ma scherzi? Ed è solo la prima che mi è venuta in mente. Ring Them Bells, poi, ma quante altre ancora? E Time Out of Mind, va bene, può destare dubbi (non a me), ma una canzone come Standing in the Doorway dimmi dove, da chi la trovi?
amo Bob Dylan!!!! :)))) ❤ ❤ ❤
Quando qualcuno cerca di essere selettivo verso i propri beniamini viene sistematicamente lapidato dal fan sfegatato! Ascolto ininterrottamente Dylan da 20 anni e,come per tutti i miei idoli,non ho problemi a riconoscere quando l’ispirazione migliore è finita.
Non ho idoli. L’ispirazione finisce, è vero. Bowie, Van Morrison, i primi che mi vengono in mente, a parte qualche sprazzo non l’hanno più recuperata. Ma Dylan secondo me non l’ha mai persa. Un disco come Modern Times non nasce dal nulla.
Mah…ogni fan di x o y ti dirà che x o y ha fatto solo cose valide.Prendere le difese di tutto ciò che ha fatto qualcuno significa solo mancanza di obiettività.Inoltre dopo il punk e la new wave gli schemi del blues e del folk risultano superati e mi sembra difficile parlare di ottimi dischi se utilizzi ancora quegli schemi.Se Oh mercy e Time out sono capolavori cossa dovrebbero essere Highway 61 e Blonde on blonde(o anche Bringing)?
A parte che stiamo discorrendo di popular music (e ci aggiriamo dunque in un ambito nel quale il concetto stesso di “originalità” è relativissimo e poco o punto rilevante) ma, insomma, scrivere che “dopo il punk e la new wave gli schemi del blues e del folk risultano superati” mi sembra, in tutta franchezza, una colossale baggianata. Chi lo ha deciso? E chi ha deciso che punk e new wave fossero fenomeni rivoluzionari in assoluto? Quando il primo era semmai (musicalmente parlando) reazionario (nel senso letterale del termine) e la seconda aveva comunque la sua bella lista di antesignani. Ci dovessimo mettere a fare la tara all’attualità depennando tutto ciò che non è “nuovo” cancelleremmo il 99,9% di quanto esce e scopriremmo inascoltabile e/o pessimo lo 0,1 residuo. Stiamo parlando di popular music e, se restringiamo il discorso al rock, sono oltre vent’anni che non si ascolta alcunché di (pur minimamente) “originale”.
Quanto al dibattito “Highway 61 Revisited”/”Blonde On Blonde” vs. “Oh Mercy”/”Time Out Of Mind” è semplicemente insensato: a stabilire la superiorità dei primi è la rilevanza storica, al di là di quanto pesano le canzoni che li compongono. Per assurdo, Dylan potrebbe pubblicare domani un disco più BELLO di “Bringing It All Back Home”, ma in nessun modo potrà mai pubblicarne uno più IMPORTANTE.
Grazie, Eddy. Non ho replicato nella speranza di una tua replica. E c’è stata e mi trova assolutamente d’accordo.
Il mio ultimo intervento è stato non poco equivocato.Sono perfettamente consapevole che niente è totalmente nuovo non solo nella musica popolare ma anche nella musica classica(che è di gran lunga la musica che conosco di più):gente come Mozart o Mendelssohn non disse niente di nuovo,semplicemente fece splendidi brani musicali! Il punk e la new wave non nascono dal nulla ma trassero ispirazione da tutto tranne che da generi strasfruttati come blues,country o folk…correggimi se sbaglio.Lo stesso Joe Strummer dopo aver fondato un complesso R&B assistette ad un concerto dei sex pistols e sentenziò :il R&B è morto! Non ho mai fatto discorsi di “nuovo” e “originale”,semplicemente mentre funky,elettronica,musiche etniche,reggae,garage etc. sono stati alla base della musica dalla fine dei ’70 in poi non conosco grandi dischi da quel periodo ispirati a blues o folk perchè ritengo avessero esaurito le loro possibilità.Come detto considero Dylan fra i più grandi del xx sec.(la parte migliore della musica popolare vale mooolto più di tanta classica del dopoguerra)ma non credo che dopo Desire abbia fatto ottimi dischi.Semplice opinione,s’intende.
Ti correggo, ricordandoti che proprio quel Joe Strummer che cantava “no Elvis, Beatles or The Rolling Stones in 1977” appena due anni dopo metteva mano a “London Calling”, album nel quale di errebì ce n’è in abbondanza. Lo strasfruttato country è da buoni trent’anni rifugio privilegiato di un sacco di ex-punk (l’elenco sarebbe chilometrico), con il punk si è liberamente e libidinosamente accoppiato a più riprese e la sua evoluzione più “moderna”, il cosiddetto alt-country, è (per non fare che un nome) la pietra d’angolo del suono e del canone di uno dei pochi gruppi almeno un po’ personali degli ultimi due decenni, tali Wilco. Mutatis mutandis, se si parla di folk e senza bisogno di andare à rebours e chiamare in causa i Pogues, senza nemmeno cominciare davvero ad aggirarsi nei labirinti della New Weird America, gli Animal Collective sono parimenti e indiscutibilmente (e lo dice uno che non ne va proprio pazzo) uno dei nomi-chiave dell’attualità rock. Blues? Jon Spencer, White Stripes, Black Keys mi sembra che ce l’abbiano o ce l’avessero eccome nel DNA. O no?
Non ho detto che i generi sopra elencati siano spariti,ho detto che i capolavori(termine abusato che secondo me dovrebbe essere usato con un pò più di parsimonia)e gli ottimi dischi dalla fine dei ’70 in poi si basano principalmente su altri schemi.
Mi chiamo Roberto Buonasera , sono un Fan di Dylan offcourse ; le vorrei domandare questo : Io adoro Infidels , secondo Lei quali sono i veri punti deboli di questo Album veramente splendido e talvolta un po troppo sottovalutato da diversi recemsori ? / Seconda e ultima domanda : per quale motivo la rivista Rolling Stone ha dato 5 STELLE ad Alb quali : ” Love & Theft , Modern Times e Tempest ? Sono davvero dei Grandi Dischi ? La ringrazio per la cortese attenzione e le aguro una Buona Serata ! ROBERTO
Non vedo debolezze in “Infidels” e difatti… “Love & Theft” secondo me è minorissimo, “Modern Times” mi sfiancò al primo ascolto e non è mai salito più di tanto nella mia considerazione. Di “Tempest” puoi leggere qui:
https://venerato-maestro-oppure.com/2012/09/12/bob-dylan-tempest-columbia/