Faccenda di esattamente undici mesi fa a oggi, “Helplessness Blues”: non certo abbastanza perché anche il più appassionato cultore dei Fleet Foxes cominci a interrogarsi ansiosamente su quando vedrà la luce il successore. A maggior ragione, ricordando come quell’album lì si fosse fatto attendere tre anni. Iato considerevole, e pure alquanto imprudente, per un gruppo che aveva visto nel 2008 il suo omonimo esordio collezionare non solo recensioni ditirambiche ma anche piazzamenti in classifica, sulla sua e su quest’altra sponda dell’Atlantico, lusinghieri. Scommessa in ogni caso vinta. Sempre entusiasta la critica, le graduatorie di vendita hanno premiato ancora di più e in misura spettacolare negli Stati Uniti, con un quarto posto che ha migliorato di ben trentadue posizioni la performance del debutto. Soddisfazioni a mio avviso strameritate per un complesso capace di riassumere in sé un’infinità di influenze ’60 e ’70 operandone una sintesi che finisce per risultare assolutamente peculiare, inconfondibile. Tant’è che persino prima di “Helplessness Blues” i Nostri venivano a loro volta individuati come un’influenza per altri emergenti.
Ora: che ci sia un “signor Fleet Foxes” è evidente a chiunque e il suo nome è Robin Pecknold. Interamente farina del suo sacco il repertorio della band. Nondimeno: continuerebbero i Fleet Foxes a essere i Fleet Foxes se per ipotesi Pecknold decidesse di circondarsi di comprimari tutti nuovi? Oppure (che è poi quasi lo stesso): se costui un domani dismettesse – momentaneamente o definitivamente – la sigla per realizzare dei lavori da solista, quei dischi suonerebbero come dei dischi del gruppo? Al pari estrosi, se non si vuole usare un aggettivo impegnativo come “geniali” per un progetto che di moderno ha al più l’essere postmoderno. Ho il sospetto che no. Ho il sospetto che al venire a mancare anche di ingredienti minori della sofisticatissima formula l’incantesimo svanirebbe. Vedremo. Per intanto alcuni Fleet Foxes – uno già ex – provano a dimostrare di poterne fare a meno loro, del signor Pecknold.
Sotto il tetto Poor Moon (nome a quanto sembra ispirato da un brano del repertorio storico Canned Heat) trovano una per ora seconda casa, con i fratelli Ian e Peter Murray dei Christmas Cards, il tastierista Casey Wescott e il bassista Christian Wargo. “Illusion” è meno di un mini, giusto un EP di cinque brani per complessivi sedici minuti, e tirare in base ad esso conclusioni definitive sul valore del complesso sarebbe parecchio affrettato oltre che ingeneroso. Come biglietto da visita bisogna tuttavia dire che non è gran cosa. Sembra come assieme una versione più torpida e soprattutto povera di quanto usualmente elabora la casa madre: meno raffinati e vertiginosi gli intrecci vocali, parimenti più scarni gli arrangiamenti strumentali, meno (molto meno) incisive le melodie. Alla fine non resta nella memoria che People In Her Mind, più accesa ritmicamente di quanto letteralmente la circonda, più squillante nelle parti chitarristiche, dalle gradevoli fragranze Hollies e Badfinger se non direttamente Beatles. Bella, ma è troppo poco per potersi dichiarare soddisfatti.
Joshua Tillman, di prima professione batterista, aveva già pubblicato quattro lavori con la propria identità anagrafica prima di unirsi ai Fleet Foxes e altri tre li ha dati alle stampe durante la sua permanenza nel gruppo di Seattle. La sua non è una libera uscita bensì un abbandono e a chi sta facendo spallucce rammento quella regola non scritta (ma raramente smentita) del rock che dice che un gruppo può essere buono al massimo quanto è buono il suo batterista. Ma a parte ciò: che possa essere… anzi… che sia defezione seria lo certifica che Tillman dei Fleet Foxes fosse, oltre e più che il motore ritmico, l’arrangiatore. Vero e proprio numero due insomma e talento di serie A a giudicare da quello che evidentemente lui stesso considera un nuovo esordio, visto che lo licenzia usando un alias inedito. E che esordio! Non del valore dei due album dei Fleet Foxes ma non troppo inferiore. Vestito sgargiante tagliato da una stoffa simile ma che non è esattamente la stessa, siccome a dispetto della copertina la bilancia si sposta verso gli anni ’70, la psichedelia viene sopravanzata da un pop-rock che potrebbe farsi strada nel mainstream ancora più in profondità di quanto non sia riuscito alla banda Pecknold. Parlano chiaro in tal senso un’ammiccantissima ballata alla Eagles quale Well, You Can Do It Without Me, una Mighty Nightmares 1&2 che resuscita John Lennon in versione country’n’western, una Nancy From Now On che incrocia alla perfezione “Pet Sounds” con i Bee Gees (tanto ma tanto da rivalutare) di “Odessa”. Disco supercaliforniano “Fear Fun”, da una Funtimes In Babylon che lo inaugura languidissima a una Everyman Needs A Companion che lo suggella spedendo gli Stones a regalarsi tintarelle di luna a Laurel Canyon, e sapete chi l’ha prodotto? Tal Jonathan Wilson. Credo lo abbiate già sentito nominare.
“Illusion” è stato pubblicato a fine marzo. “Fear Fun” esce il 30 aprile. Entrambi sono griffati Bella Union in Europa e Sub Pop negli Stati Uniti.
“quella regola non scritta (ma raramente smentita) del rock che dice che un gruppo può essere buono al massimo quanto è buono il suo batterista”
E infatti la Allman Brothers Band…:)
Dici perché ne avevano due?
Si
E Gary Glitter, allora ? ;D
A proposito dei Foxes: non vorrei aver come al solito portato sfiga…