Del figlio di Loudon Wainwright III e Kate McGarrigle ho sempre ammirato l’essere esagerato in ogni manifestazione della sua arte, la formidabile considerazione che ha di sé che, non fosse temperata da un indubitabile sense of humour, facilmente potrebbe scadere nella prosopopea. Perché bisogna essere forse un po’ geni ma certamente parecchio matti per fare andare dietro a cinque collezioni del “pop” più idiosincratico degli ultimi quindici anni (e che nondimeno miracolosamente lo hanno davvero reso una piccola star) due live di seguito (uno dei quali rifacimento integrale di un celebre concerto di Judy Garland), una raccolta di brani per soli piano e voce (tre dei quali scritti per accompagnare altrettanti sonetti di William Shakespeare) e, dulcis in fundo, un box autocelebrativo di diciannove dischi e sì, avete letto bene. Di costui ho sempre applaudito l’ardire ma che mi piacessero i dischi… be’… diciamo che se di sicuro non ho ascoltato la sua opera omnia è perché mai un suo album mi ha acceso. Qualche canzone qui e là, nulla di più. “Out Of The Game” è il primo lavoro di Rufus Wainwright che mi ha regalato più di un brivido o un sorriso passeggeri. Il primo che ho gustato da capo a fondo, a ripetizione, con piacere crescente.
C’entra ovviamente più di qualcosa che si distacchi nettamente da quelle prime cinque prove in studio che fondamentalmente costituiscono il canone del Nostro. Se gli arrangiamenti orchestrali non sono spariti, per certo si sono assai ridimensionati. Se gli svolazzi operatici ogni tanto si riaffacciano, esattamente il loro comparire al proscenio con parsimonia li fa sottolineature appropriate in luogo che pleonastici florilegi barocchi. Dire “essenziale” il piglio con il quale l’opera si porge sarebbe troppo e nondimeno, rispetto al solito Rufus, questa quasi-linearità (tolte le “Songs For Lulu” che erano altra cosa ancora) è inaudita. Dato a Cesare quel che è di Cesare, che in questo caso e parlando di produzione è quel Mark Ronson il cui marchio di fabbrica è la patina vintage soul che contribuì la sua parte a fare di Amy Winehouse AMY WINEHOUSE, potrei suggerirvi una scorciatoia per far sì che “Out Of The Game” vi colpisca subito dritto al cuore. Partite dall’ultimo dei dodici pezzi in programma: addio alla madre scomparsa di dolcezza e pregnanza straordinarie, Candles è una ballata piano e chitarra acustica ricamata di fisarmonica e cornamuse che se ci fosse un dio dovrebbe resuscitare Jeff Buckley soltanto per fargliela cantare. E non che Rufus già non lo faccia, per l’appunto, divinamente.
Il rischio che tutto il resto ne venga irrimediabilmente sminuito sarà subito sventato dai languori country e dalla micidiale melodia della traccia omonima e inaugurale, da una Jericho capace di intrecciare (come giusto nel mondo di Rufus Wainwright potrebbe accadere) Big Star ed Elton John, dal blues da music hall un po’ Queen e un po’ David Bowie di Rashida. Altre ovazioni per una Welcome To The Ball che se fa pensare a Judy Garland è a una Judy Garland prodotta da Van Dyke Parks, per una Montauk da colonna sonora Disney d’antan, per una Respectable che sono gli Wilco alle prese con Brazil. Esagero? Anche per una Bitter Tears discoide à la Pet Shop Boys. Non mi hanno al contrario convinto granché il synth ossessivo di Barbara e il gonfiarsi eccessivo dell’orchestrazione di una Song Of You che parte molto Leonard Cohen ma, insomma, son peccati veniali.
A me la musica dell’uomo garba e posseggo pure un suo disco, Wanto One, bello davvero.
Ma i GRANDI, in famiglia, sono il babbo (magnifici Attempted Mustache, Final Exaim e Fame And Wealth) e la mamma (French Record delle McGarrigle Sisters è un disco che mi ha accompagnato per anni), non lui.
Poche ciàcole (come si direbbe dalle mie parti).
Io i suoi dischi li ho tutti…vabbè quasi, e mi garba parecchio, così la sorella Martha. Ora abbiamo accontentato tutta la famiglia ; )
Ho ascoltato il disco più volte perchè sentivo qualcosa ora ho capito che “out of the game” è il disco più bello degli ultimi anni nonch’è disco dell’anno. Se “want one” è da 10 questo è da 9. Comunque “barbara” è stupenda.
Diciamo anche che potrebbe essere definito il disco di Rufus Wainwright perfetto per quelli a cui Rufus Wainwright di solito non dice granché.
A me Rufus piace da sempre, il primo “omonimo” e soprattutto il terzo “want one” sono dei classici intramontabili.Questo disco l’ho ascoltato piu’ volte e devo dire che si avvicina molto, per bellezza, al suo capoloavoro “want one”.Ringrazio Rusus che dopo 15 anni di carriera è riuscito a tirar fuori un disco bellissimo che mi stà dando non poche emozioni, e sono contento per me che l’ho sempre ritenuto un cantautore senza tempo in grado di volare molto alto, e gli insuccessi di vendite lo dimostrano . La tua recensione la condivido al disco do’ 5 stelle e puntualizzo solo una cosa che ho letto in altre recensioni: il produttore e bravissimo e si sente, tutti i grandi cantanti ne hanno uno bravissimo, ma questo è un disco di Rufus a tutti gli effetii e chi lo conosce bene lo sa’.