The Gaslight Anthem – Handwritten (Mercury)

Be’, però così non vale. Già ho un porco debole per te e che mi combini?  Tre minuti e mezzo dentro il tuo quarto album parte la traccia che lo intitola e nel primo verso mi interroghi la Rosalita o la Mary di turno su quale sia la sua canzone preferita e subito dopo confessi che la tua quando eri giovane ti faceva piangere. E ti fa piangere ancora. Ecco. Fottuto. Trentadue secondi e Handwritten è tatuata per sempre sul mio cuore, Brian Fallon definitivamente dentro un pantheon di eroi che aveva già prenotato da un po’. E adesso? Adesso magari voi pretendereste una recensione ponderata e obiettiva della prima uscita per una multinazionale di questi operai del rock’n’roll – con alla testa un poeta – che rispondono al nome di Gaslight Anthem. Chiedetela ad altri. Da me non avrete che ciò che ci si può attendere da un uomo ridicolo che, all’età che ha, ascoltando certe canzoni si commuove immancabilmente come fosse… l’82? La vita intera lì davanti, colma di sogni da sognare, di strade su cui correre. Oggi scrivo per rendere grazie di quei sempre più rari momenti in cui mi sembra che sì, che in fondo il rock’n’roll mi abbia dato più di quello che mi ha rubato. Astenersi hipsters.

Riassunto delle puntate precedenti per chi se le fosse perse. Organico a quattro che non cambierà mai e accanto al cantante e chitarrista Brian Fallon schiera alla seconda chitarra Alex Rosamilia, al basso Alex Levine e alla batteria Benny Horowitz, i Gaslight Anthem si formano nel 2006 a New Brunswick, New Jersey, e vedete bene voi pure che in ciò stava iscritto un destino: Springsteen è il modello cui rifarsi, ma un modello cui si guarda dalla prospettiva di chi, venuto al mondo nell’anno di “The River”, frequentava l’asilo quando i Replacements davano alle stampe “Let It Be” e le medie inferiori quando usciva “Nevermind”. Dal giorno uno i ragazzi indossano gli abiti del blue-collar rock con nelle asole spillette punk in luogo dei bottoni, coppole da E Street Band circa ’74 calcate in testa ma pure cappelli da sentimentali cowboy metropolitani, teppisti  prison bound sulle orme di Mike Ness. “Siamo disperati,/ma ci siamo abituati”, cantavano gli X quando nessuno dei Gaslight Anthem era nato e a quella disperazione – che è la stessa che in maniera uguale ma diversa fregò un Bob Stinson come un Kurt Cobain – i Gaslight Anthem non vogliono arrendersi. E la sapete una cosa? Questo arnese in progressivo disuso che chiamiamo rock qualche favola bella sa ancora raccontarla. Nel 2009 sul palco di un Glastonbury Festival che si sono guadagnati con due album – “Sink Or Swim” del 2007, “The ’59 Sound” del 2008 – che hanno raccolto consensi importanti ma limitati alla scena punk i nostri amici vengono raggiunti da… esatto… Lui. Bruce. In carne e Stratocaster. Nelle settimane seguenti le vendite dello smilzo catalogo si impennano del 200% e quando nel 2010 “American Slang” raggiunge i negozi non vi è chi non pronostichi ai Nostri un futuro da star. Non c’è più bisogno di scegliere fra i Clash e Tom Petty, scrive qualche entusiasta. Soprattutto per chi fra i Clash e Tom Petty ha sempre scelto entrambi, aggiungo io.

Ormai da ogni punto di vista nella serie A della popular music a stelle e strisce, da una SideOneDummy non più in grado di gestirli i Gaslight Anthem traslocano inevitabilmente in area major e ne approfittano per garantirsi il produttore dei sogni, quello che ha lavorato sia con Springsteen (secondo me combinando disastri, ma tant’è) che con quegli altri loro conclamati idoli, i Pearl Jam. Mossa apparentemente rischiosissima e invece azzeccata in quanto proprio con Handwritten, e un qualche merito ce l’avrà dunque pure Brendan O’Brien, Fallon e compagni metabolizzano definitivamente i maestri e così facendo cominciano a diventare i Gaslight Anthem e basta. Sempre e inconfondibilmente loro, che si pongano in scia ai Social Distortion come in un’incalzante “45” o intreccino DNA Pixies e Byrds come in un’energica quanto poppissima Here Comes My Man, che evochino John Mellencamp in Mulholland Drive o Paul Westerberg in Keepsake. Positivamente eroici in Biloxi Parish, struggenti in Mae. La canzone più memorabile (persino più della traccia omonima) sarebbe l’ultima e che ironica meraviglia che si intitoli National Anthem una faccenda così soffusa, acustiche arpeggiate e archi che si insinuano fra una citazione di Lennon e una trama che lega One Step Up a I Wish I Were Blind, per pagare l’ultimo debito al Boss e poi congedarlo. Sarebbe l’ultima, ma se a un euro o due in più vi portate a casa la dannata “Deluxe Edition” potrete godere ancora della deflagrazione a gola e amplificatori spiegati di Blue Dahlia e di due belle cover: Sliver dei Nirvana, You Got Lucky di Tom Petty. Azzarderei che Fallon a livello di scrittura sia ormai lì e sta ora a voi decidere se fidarvi o meno di un venerato maestro – oppure no – forse già preda di amori senili.

16 commenti

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16 risposte a “The Gaslight Anthem – Handwritten (Mercury)

  1. Il Venerato Maestro quando ci si mette riesce a farmi desiderare un disco like it’s 1986 again…

  2. Li ho amati incondizionatamente ai tempi di The The ’59 Sound, li trovo ormai inchiodati in una formula ripetitiva in questo Handwritten, che non mi ha convinto per nulla…sempre la stessa canzone e quei coretti che infilati dappertutto trovo alla lunga insopportabili. Ho un cuore di pietra? Probabile 😦

    • Seguo anche te, Fabio, su Rootshighway e ho letto la tua recensione… A parte il fatto che il Venerato e’ il Venerato, in casi come questi…. I want to believe! (poi magari me ne pentirò, ma che bello quando una recensione ti accende qualcosa dentro)

    • Ah ahi ahi… hipster detected! Scherzi a parte… Recensii “The ’59 Sound” per “Audio Review” dandogli 6,5 su 10. Oggi alzerei il voto a 7. Forse anche a 7,5. Ma per “Handwritten” sarebbe 8. Trovo che il livello della scrittura stia lievitando e che la scrittura si stia diversificando. Il contrario insomma del “sempre la stessa canzone” che rimproveravo semmai alle uscite precedenti. Poi, va da sé, non è che io sia il detentore della Verità…

  3. Ghost WRTR

    Che i rockers rollino, che gli operai operaino, che il 1982 millenovecentottantaduizzi, che tutto sia quella mattina estiva che forse non c’è mai stata; era giugno, paulo roosssiiiii avrebbe steso il Brasile di lì a poco, l’aria odorava di soffritto, la pelle delle ragazze di limone. Il cuore è il vero ostacolo, certe volte. Perché Il cuore è reazionario, si sa. E farsene una ragione è un po’ come la libertà, o la democrazia: una conquista continua. Contento di essermi commosso.

    • Meglio il commento del post che commenta. E non dico altro.

    • Questo blog e’ sempre piu’ bello… A proposito, Venerato, chiuderai per ferie?

      • Se ciascuno dei lettori che lo seguono qui con una certa regolarità si tassasse per – diciamo – l’equivalente di un caffè forse il Venerato, che tiene le pezze al culo, potrebbe permettersi un paio di settimane di vacanza in qualche amena località. D’altro canto, i lettori così facendo andrebbero contro i propri interessi e dunque… 😉 Niente chiusura per ferie. Magari ci scappa pure qualche… uh… progetto speciale.

  4. Giancarlo Turra

    Insomma, “Summer In The City” anche per il VMO, eh…
    Parlando di pezze, io non vado in ferie dal 2008, una settimana a Stoccolma.

  5. stefano piredda

    Io mi fido, Maestro. Questo fine settimana faccio un saltino in un bel negozio di dischi (non vi dico dove, che mi sentirei un po’ bastardo…) e acquisto a scatola chiusa (pure i Duchess: voglio sentire come suona una canzone della Band suonata dagli Shellac).

  6. stefano piredda

    I Baroness!!! Non i Duchess!!! Vaffanculo agli Stranglers!!!

  7. Oggi mi è arrivato il Mucchio.
    E mmo che je famo a Carlo Babbando?
    Lo corcamo de bbotte, o anche er Venerato s’è ammosciato?

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