Archivi del mese: agosto 2012

R.E.M. 1982-1996 (2): Murmur

Radio Free Europe. Pilgrimage. Laughing. Talking About The Passion. Moral Kiosk. Perfect Circle. Catapult. Sitting Still. 9-9. Shaking Through. We Walk. West Of The Fields.

I.R.S., aprile 1983 – Registrato presso i Reflection Sound Studios di Charlotte, North Carolina, nel gennaio 1983 – Tecnici del suono: Don Dixon e Mitch Easter – Produttori: Don Dixon e Mitch Easter.

All’epoca in cui misero su nastro le canzoni di “Chronic Town” i R.E.M. erano ancora senza un contratto discografico. Radio Free Europe era uscito su Hib-Tone in base a un accordo verbale fra il gruppo e il proprietario dell’etichetta, Johnny Hibbert, un amico oltre che un estimatore. Il successivo EP venne inciso senza che fosse chiaro come e quando sarebbe uscito. Un altro amico della banda Stipe, David Healey, finanziò le registrazioni e un terzo, Kurt Wood, si prestò ad accompagnare i Nostri a Winston-Salem quando il loro furgoncino Dodge spirò alla vigilia della data fissata per la prima seduta al Drive-In Studio. Healey aveva in animo di fondare una casa discografica e di inaugurarne il catalogo proprio con un EP dei R.E.M., ma non se ne fece nulla. Questo perché il 12 marzo del 1982, a New Orleans, Jay Boberg della I.R.S. vide in azione Stipe e soci e ne rimase conquistato. Le trattative fra l’etichetta, una indipendente affiliata alla A&M di proprietà di Miles Copeland, fratello del più noto Stewart, batterista dei Police, e i quattro di Athens furono facilitate dal fatto che Berry aveva in precedenza lavorato per la F.B.I., un’agenzia organizzatrice di concerti di proprietà di un terzo Copeland, Ian.

Il 31 maggio 1982 i R.E.M. firmarono un accordo che li legava per un quinquennio alla I.R.S. Tanto ci teneva l’etichetta di Miles Copeland ad assicurarsi le loro prestazioni che fece loro concessioni assolutamente inusuali anche oggi per dei musicisti alle prime armi: diede loro un controllo totale sul prodotto finito. L’ultima parola su registrazione, missaggio, confezione, eventuali video e ogni altra iniziativa promozionale. Furono conquiste che i quattro di Athens pagarono in soldoni – letteralmente: costarono loro in termini di percentuali sulle vendite – ma il sacrificio pecuniario si rivelerà un investimento dalla rendita elevata. Quando la I.R.S. li spedì in studio con Stephen Hague, un produttore britannico che aveva lavorato con gli Human Legue e che mieterà altri allori con Pet Shop Boys e New Order, e questi fece loro incidere un’infinità di volte Catapult e vi aggiunse parti di sintetizzatore, i R.E.M. informarono la casa discografica che non desideravano più lavorare con lui e che, da quel momento in avanti, si sarebbero scelti da soli i produttori. Quando qualche mese dopo la I.R.S. li fece esibire di spalla ai Police in alcuni stadi Stipe e compagni, a cui non era piaciuto suonare set brevissimi di fronte a folle oceaniche che non li conoscevano e non avevano mostrato di apprezzarli, chiarirono che non avrebbero più aperto gli spettacoli di altri gruppi.

Qualche concessione, naturalmente, i R.E.M. dovettero farla a loro volta. La I.R.S. era ansiosa di immettere un titolo sul mercato e decise dunque di dare alle stampe “Chronic Town”, il cui destino era rimasto fino ad allora incerto. I tempi lunghi tipici di una struttura “pesante” quale è quella di una casa discografica medio-grande fecero però sì che passassero quasi tre mesi dalla firma del contratto alla pubblicazione del mini, che a quel punto era per quattro quinti vecchio di dieci mesi, un periodo parecchio lungo per un gruppo giovane, in evoluzione e in vertiginosa crescita quale erano i R.E.M. “Chronic Town”, come i Georgiani non mancarono di rilevare nelle loro prime interviste apparse sulla stampa a diffusione nazionale, non risultò quindi granché rappresentativo. Toccava allora al primo album vero e proprio chiarire l’effettivo valore della formazione di Athens a quanti, spinti da un passaparola sotterraneo sempre più concitato, avevano acquistato l’EP ma non avevano mai visto i R.E.M. dal vivo (la loro fitta attività concertistica aveva toccato fino a questo punto solo gli stati limitrofi alla Georgia). Insomma: perché mai si stava tanto esaltando la stampa? Aveva buone carte in mano o un bluff che andava visto?

Un altro gruppo si sarebbe probabilmente fatto intimidire e forse danneggiare da questa pressione. Come sempre faranno nel corso della loro carriera, i R.E.M. invece seppero gestirsi al meglio. Accettarono di andare in sala di incisione con Stephen Hague, come da richiesta della I.R.S., ma quando capirono che il rapporto non funzionava non esitarono a farlo presente all’etichetta e a chiedere di potere lavorare con gente di loro fiducia. A un grande studio preferirono una sala più modesta in una città simile ad Athens e da essa non distante.

Come produttore venne confermato Mitch Easter, che aveva dato buona prova di sé con “Chronic Town” e che, essendo abituato a lavorare in economia, era in grado di far funzionare i tutt’altro che sofisticati Reflection Sound Studios al massimo della loro capacità, e gli venne affiancato Don Dixon. Entrambi nativi della North Carolina, entrambi amici di Chris Stamey e Peter Holsapple, la coppia cardine dei primi dB’s, gruppo al quale i R.E.M. si erano legati da subito in una società di mutua ammirazione (Holsapple diverrà a un certo punto, nei concerti, il quinto R.E.M.) i due, benché coetanei di Stipe e compagni, avevano già un curriculum assai corposo. Le prime uscite in pubblico, come chitarrista di una oscura formazione garage, di Easter risalivano addirittura al 1968, quando aveva undici anni. La condivisione dello stesso retroterra culturale fra team produttivo e gruppo garantì l’immediato stabilirsi di un’empatia cui Hague, con tutta la buona volontà di questo mondo, non avrebbe mai potuto nemmeno aspirare.

La copertina di “Murmur” (titolo scelto, dichiarò Stipe, “perché è una delle sei parole più facilmente pronunciabili in inglese”; credergli?) rafforzò una certa aurea gotica (ove l’aggettivo va inteso non nella sua accezione europea ma in quella tipica del meridione degli Stati Uniti, evocata da scrittori come William Faulkner e Carson McCullers) che permeava i R.E.M. dei primordi. La struttura lignea sul retro, che ospita anche quattro scatti in cui i componenti del gruppo appaiono pensosi, ha un aspetto misterioso, da Stonehenge sudista. Trattasi in realtà di un ponte ferroviario, che si trova a un tiro di schioppo da Athens, visto dal basso. La boscaglia sul davanti ha un’aria tanto fosca che vengono in mente subito a) certe copertine dei Cure e b) un antico luogo di sepoltura indiano (cfr. Stephen King, Pet Sematary). In verità è un innocuo boschetto di kudzu, una pianta giapponese adattatasi sin troppo bene al clima della Georgia, pur’esso sito nei dintorni di Athens. Con i R.E.M., non sempre le cose sono quello che sembrano.

Ogni grande album di rock’n’roll abbisogna di un inno e Radio Free Europe si prestava magnificamente alla bisogna. Riregistrata, ripubblicata anche a 45 giri e incaricata di inaugurare “Murmur”, Radio Free Europe era una canzone troppo bella e significativa per rimanere relegata su un dischetto poco più che clandestino. Tutta giocata sul contrapporsi e l’intersecarsi di una chitarra saporosa di anni ’60 e un basso debitore più che nei confronti della new wave inglese, come si scrisse all’epoca, della disco music di pura marca americana, è una canzone svelta a imprimersi nella memoria e per il piglio, appunto, innodico e per il ritornello a presa rapida. Un testo al solito ambiguo e pochissimo comprensibile (“evoca l’immagine di gente che sta ascoltando del rock’n’roll e non ha la minima idea di cosa rappresenti”, cercò di chiarire Peter Buck nel 1984, all’interno di un complesso discorso sulla percezione che si aveva allora del rock nei paesi di oltre Cortina) ha contribuito a far sì che diventasse uno dei brani per cui si sono spese più parole nel corso degli anni ’80.

La successiva Pilgrimage si apre con l’accoppiarsi di una voce lontana a un basso stile Gang Of Four. Berry e il solito Buck folkeggiante entrano dopo. Grandi cori nel finale un po’ sottolineano, un po’ stemperano la malinconia dell’insieme. L’inizio di Laughing è disegnato da una batteria molto secca e dal basso. La melodia è superba e la chitarra gioca un ruolo che oggi i quattro di Athens affiderebbero a una sezione d’archi.

Partendo da Talk About The Passion, che ha un più vivace controaltare sul secondo lato nella straordinaria Shaking Through, si può affrontare un discorso ormai ineludibile: quello, cui si accennava qualche pagina fa, sui R.E.M. visti come “i nuovi Byrds”. Per almeno cinque anni non vi fu articolo sui Georgiani che non tirasse in ballo il gruppo che fu di Roger McGuinn, Gene Clark, Chris Hillman e David Crosby. Colpa, principalmente, della marca della chitarra adoperata da Peter Buck e del suo caratteristico suono: Rickenbacker, ahilui. Ma i R.E.M. hanno sempre dichiarato di conoscere poco o punto i Byrds (persino Buck, gran collezionista di dischi) e si può credere loro. Assai più che dalla banda McGuinn furono influenzati all’inizio dai Velvet Underground più quieti e su tale influenza si sono spese molte meno parole. Anche il loro amore per le figure ritmiche da funky passato in candeggina dei britannici Gang Of Four (non a caso già chiamati in causa un paio di volte) pare più evidente, a un ascolto attento, delle venature byrdsiane, che pure qui e là sono presenti. Nei due brani citati, senz’altro. Su Talk About The Passion tocca ancora appuntare che, a dire il vero, non si capisce proprio di cosa parli ma che di passione nel cantato di Stipe ce n’è tanta e che sulle parole più facilmente intelleggibili – “no, not everyone can carry the weight of the world”, “no, non tutti possono portare sulle spalle il peso del mondo” – si è scritto di tutto.

Dopo l’interlocutoria Moral Kiosk, una variazione su Radio Free Europe con cori alla Police circa “Outlandos D’Amour”, tocca alla struggente Perfect Circle chiudere la prima facciata: la chitarra che suona come un mandolino anticipa climi che si riaffacceranno prepotentemente in “Fables Of The Reconstruction” e in “Green”.

La seconda facciata è mediamente meno memorabile della prima. Prima di giungere al capolavoro Shaking Through ci si imbatte in Catapult, che l’insidioso ritornello renderà uno dei brani più richiesti nei concerti; in Sitting Still, già retro di Radio Free Europe, ripetitiva e trascinante; nella spigolosa 9-9. Dopo, nella filastrocca suadente di We Walk e in West Of The Fields, articolo minore nel catalogo di Stipe e soci ma che ha il pregio di riassumere le influenze principali del loro primo periodo.

Ascoltato oggi, dopo il grunge, dopo che Ministry e White Zombie hanno violato i Top 10 americani, “Murmur” è un disco pop per qualunque ascoltatore medio. Ma considerate che all’epoca il suono che sbancava le classifiche era quello educato dei Police più tardi e degli Eurythmics e capirete come potesse sembrare grezzo e persino rivoluzionario. Diamine: rivoluzionario lo fu sul serio.

Pubblicato per la prima volta in R.E.M.: sogni profondi, Giunti, 1997.

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101 canzoni per le quali vale la pena vivere (45)

The Modern Lovers – Roadrunner (da “The Modern Lovers”, Beserkley, 1976)

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Il Mucchio n.698

È in edicola il numero 698 del “Mucchio”. Sono presenti mie recensioni degli ultimi album di Antibalas, Baroness, Christian Bland & The Revelators, Jimmy Cliff, Easy Star All-Stars, Bettye LaVette e Stan Ridgway. Nella sezione “Classic Rock” firmo un articolo sul box “Sound System – The Story Of Jamaican Music” e mi occupo inoltre dell’antologia “Sensacional Soul Vol.3” e di recenti ristampe di Linda Lewis e degli O’Jays.

 

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101 canzoni per le quali vale la pena vivere (46)

The Pogues – Fairytale Of New York (da “If I Should Fall From Grace With God”, Island, 1988)

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Dinosaur Jr. – I Bet On Sky (Jagjaguwar)

Niente crisi del settimo anno, allora. Tanti ne sono trascorsi da quando, sorprendendo tutti dacché il divorzio sedici anni prima aveva avuto strascichi velenosi, J Mascis e Low Barlow rinnovavano un sodalizio che al giro precedente di anni ne era durato solamente cinque, producendo tre album e con questo i conti sono pareggiati. I due si separavano poco prima che la sigla entrasse in area major e che i tempi siano cambiati è certificato dal fatto che la rimpatriata datata 2005 sia stata a suo tempo battezzata da un’etichetta come Fat Possum, i due atti successivi da una casa discografica di grandi ambizioni e ottimo catalogo ma mezzi modesti quale Jagjaguwar. Non che nella sua epoca artisticamente aurea il Dinosauro sia mai andato vicino a farsi Nirvana (cui ognimmodo contribuì ad aprire la strada) prima dei Nirvana e tuttavia l’interesse era diffuso, articoli e copertine si sprecavano, le vendite per certo erano alcuni multipli di quelle attuali. Oggi Mascis, Barlow e il silente Murph sono faccenda esclusivamente per cultori. Io lo sono.

In quanto tale, mi dichiaro senz’altro soddisfatto di un disco che si presenta meravigliosamente, con la voce suadente, la chitarra squillante, la ritmica praticamente funk e un inaudito piano rock’n’roll di Don’t Pretend You Didn’t Know, e si congeda quasi altrettanto bene con una See It On Your Side dolente con energia. Che in mezzo fa sfilare fra il resto una Almost Fare dallo sculettante all’urticante, l’apoteosi di wah wah di I Know It Oh So Well e soprattutto una Rude nella quale la mimesi Barlow/Neil Young raggiunge livelli che in Mascis avranno per certo provocato vivissima invidia. E sarà pure un esercizio di stile ma è in primis una dichiarazione d’amore che mai potrebbe lasciarmi indifferente. Album che su dieci canzoni ne tiri via forse una, l’eccessivamente routinaria What Was That, ma se lo fai puoi consolarti con la ritmica schiacciasassi e la solista che punta il cielo di Watch The Corners e il catalogo minimo di distorsioni in forma di ballata malinconica con propensione all’epica di Stick A Toe In, gemma che a farla scivolare in uno qualunque dei forzieri di epoca classica facilissimamente si confonderebbe con i tanti gioielli che sapete. E cammin facendo e lodando lodando un passo dopo l’altro sono arrivato al punto: che non c’è una sola buona ragione per la quale potreste non mettervi in casa “I Bet On Sky” se già possedete una solida maggioranza dei predecessori ma manco ve n’è una che possa giustificarvi a farlo se avete poco (in particolare se quel poco si chiama “You’re Living All Over Me”, oppure “Bug”, o meglio ancora la raccolta Rhino “Ear-Bleeding Country”) o magari nulla. È “un altro album dei Dinosaur Jr.”,  articolo sostanzialmente identico a tutti gli altri usciti prima. Però ai Ramones non ne abbiamo mai fatto una colpa, giusto? E nemmeno ai Black Sabbath, per citare un gruppo che ai nostri amici due cose o tre le ha insegnate.

“I Bet On Sky” esce il 17 settembre in Europa, il 18 negli Stati Uniti.

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101 canzoni per le quali vale la pena vivere (47)

Tom Petty & The Hearbreakers – American Girl (da “Tom Petty And The Heartbreakers, Shelter, 1976)

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Bill Fay – Life Is People (Dead Oceans)

Quel che si dice un artista “di culto”: all’incrocio fra ’60 e ’70 il pianista e autore britannico Bill Fay pubblicava due 33 giri su Decca Nova, il debutto omonimo, il secondo chiamato “Time Of The Last Persecution”, per poi non dare più notizie di sé per ventisette anni, fino a una ristampa digitale su See For Miles di entrambi i titoli. Da allora la sua piccola fama non ha fatto che crescere, grazie all’opera di infervorati apostoli: gli Wilco, Jim O’Rourke, soprattutto David Tibet dei Current 93, per la cui personale etichetta Durtro Jnana vedeva la luce nel 2005, con quei ventiquattro anni di ritardo giacché era pronto sin dall’81, il terzo album del nostro eroe. Che ad ogni buon conto anche avesse trovato una casa discografica allora, come non fu, avrebbe posto un intero decennio fra “Tomorrow Tomorrow And Tomorrow” e il predecessore. Come dire che Fay, che di scrivere non ha mai smesso, è un uomo con i suoi tempi, oltre che indisponibile al compromesso. Poco da stupirsi che quell’ultimo LP non incontrasse in epoca di new wave orecchie capaci di coglierne l’elevato potere seduttivo e d’altra parte un po’ (un po’ tanto) alieno l’artista era parso pure in era di psichedelia sfumante nel progressive. Eccentrico rispetto a qualunque scuola, apocalittico quando lo spirito generale era utopico e il contrario, con un gusto per la melodia sofisticata fatta in eguali quanto indistinguibili parti di pop, folk e jazz e rari spiriti affini giusto nei dintorni di una Canterbury dalla quale si teneva comunque distante. Ha un suo senso, nei giorni retromaniaci che stiamo vivendo, che Fay alla buon’ora si ritrovi sintonizzato su uno zeitgeist che non c’è, non essendo il cronologicamente nuovo praticamente mai altro che un rimescolarsi ad libitum di infiniti passati. Adesso che un vocabolario e una sintassi pur ragguardevolmente peculiari risultano in qualche misura familiari, se non alle masse, a platee ampie come mai prima. Era insomma giunto il momento, dopo le prove inscenate nel 2010 con l’erratico mischione di cose vecchie e inedite di “Still Some Light”, di porre mano al vero quarto album. L’atteso quarto album.

Fra i dodici brani che sfilano in “Life Is People” c’è una cover ed è quella Jesus, Etc. che faceva per la prima volta splendida mostra di sé nel 2002 nel classico degli Wilco “Yankee Hotel Foxtrot”. Restituzione di inchini, visto che del repertorio di costoro fa parte da molto una certa Be Not So Fearful, il brano diventa, porto com’è in una scarnissima veste voce e piano (rin)toccante, quintessenzialmente Fay. Ma del resto: non ha dichiarato tante volte Jeff Tweedy che per la sua educazione sentimental-musicale “Time Of The Last Persecution” fu crucialissimo? Laddove sotto una a dir poco scintillante This World, che potrebbe appartenere indifferentemente all’Elliott Murphy giovane che provava a essere più Dylan di  Dylan o proprio a degli Wilco improvvisamente memori di essere stati, in parte, gli Uncle Tupelo, c’è la firma di Fay, ma potrebbe esserci quella di Tweedy che – guarda un po’! – fa capolino come seconda voce. Sono all’incirca i due estremi stilistici fra i quali si muove un grande, grande disco capace di mettere assieme i Pink Floyd alle prese con Arvo Pärt o viceversa di Big Painter e il gospel post-rock da imporre agli Spiritualized Be At Peace With Yourself, il gusto favolistico di There Is A Valley e l’accorata quanto speranzosa liturgia di Cosmic Concerto, il valzer in glassa d’archi di The Healing Day piuttosto che i languori di blues di Empires o il Brian Eno che incontra Satie di The Coast No Man Can Tell. Opera senza tempo che le ingiurie del tempo – ne sono certo – non scalfiranno.

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101 canzoni per le quali vale la pena vivere (48)

Tim Hardin – Reason To Believe (da “Tim Hardin 1”, Verve, 1966)

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Jimmy Cliff – Rebirth (Trojan)

Tutto torna e talvolta ciò che torna tocca nel profondo. È il 1972 quando un Jimmy Cliff prima star globale del reggae in un tempo in cui fuori dalla Giamaica Bob Marley non lo conosce quasi nessuno è protagonista di The Harder They Come: tanto di un film che di una colonna sonora la cui traccia omonima diveniva istantaneamente la canzone-simbolo di un artista che pure aveva già diversi classici all’attivo. È il 1979 quando Paul Simonon offre il suo singolo quanto grandioso contributo compositivo (dai… The Crooked Beat e Long Time Jerk non contano) alla Leggenda dei Clash scrivendo The Guns Of Brixton: linea di basso impossibile a schiodarsi dalla memoria e altrettanto indimenticabile, per chi ci fa caso, è una citazione diretta proprio di The Harder They Come. Ed è il 2011 quando Tim Armstrong, chitarrista e cantante di quei Rancid che nei loro momenti migliori sono stati la più plausibile approssimazione di Clash che ci sia stato dato di godere negli ultimi vent’anni si mette in testa un’idea meravigliosa: essere per Jimmy Cliff ciò che Rick Rubin fu per Johnny Cash. Si scaldano i motori con un EP, Sacred Fire, e in quell’EP a fronte di un’unica composizione autografa del titolare campeggiano tre cover. Una è l’apocalittica A Hard Rain’s A-Gonna Fall di dylaniana memoria. Una è la Ruby Soho già guarda caso dei Rancid e chi potrebbe sospettare piaggeria è tacitato a passo di carica da una versione di rimarchevole verve. E la terza, e anzi la prima in ordine di apparizione al proscenio, è The Guns Of Brixton: lettura nervosa, singultante, ricamata a un certo punto di ottoni e bellissima. Le cover di Rancid e Clash sono state riprese in “Rebirth”. Potreste e dovreste comprarlo già soltanto a ragione di ciò. E se vi dicessi che i nove originali inediti che fanno loro corona non valgono di meno? Se non tutti, molti.

Siamo onesti: il Johnny Cash compreso fra l’incredibile accoppiata live “At Folsom Prison”/”At San Quentin” e il primo degli “American Recordings” – ed è di uno iato venticinquennale che stiamo parlando: 1969-1994 – è interprete dignitosissimo ma assai spesso routinario e imprescindibile praticamente mai. Sottraendolo alle comodità di una vita vissuta dando a un pubblico plaudente ciò che il pubblico voleva, vale a dire i successi di una vita prima ma fatti come se non esistesse altro mondo all’infuori di Nashville, rimettendolo in gioco con canzoni nuove di nuovo interpretate nell’aspro stile countr-a-billy che lo aveva reso grande in primis e quindi portandolo oltre, Rubin inscenava la più clamorosa resurrezione d’artista cui mai ci sia stato dato di assistere. Siamo onesti: dopo The Harder They Come Jimmy Cliff ha dato alle stampe quell’altra ventina di album e uno brutto in mezzo probabilmente non c’è, ma nemmeno uno che contenga un qualche brano della forza di Many Rivers To Cross, Vietnam o Wonderful World, Beautiful People. I tre che più contribuivano a fare di un omonimo LP del ’69 il primo capolavoro a 33 giri della storia del reggae. Ora “Rebirth” giustifica un titolo che dopo un po’ smette di parere ingeneroso sin dall’attacco, da una World Upside Down di passo svelto, melodia slanciata, innodia e mistica marleyane e insomma favolosa. Ce n’est qu’un début, come dicevano nel maggio parigino, e subito provvedono a certificarlo lo skanking cantilenante di One More e una Cry No More di afflato liturgico. Più avanti, una Bang declamatoria e con una chitarra ustionante infitta nel cuore, una Reggae Music a rotta di collo, una Rebel Rebel latineggiante, una Blessed Love romantica con brio. Una Outsider che felicemente spiazza facendo salire alle labbra due parole e la prima è “James” e la seconda è “Brown”. Vi risparmio di cercarlo su Wikipedia: Jimmy Cliff ha compiuto lo scorso 1° aprile sessantaquattro anni e ne sono passati cinquanta dacché, con Hurricane Hattie, scalava per la prima volta le classifiche giamaicane.

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101 canzoni per le quali vale la pena vivere (49)

Ramones – Sheena Is A Punk Rocker (da “Rocket To Russia”, Sire, 1977)

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