Quando l’avanguardia si ballava: i Talking Heads di “Remain In Light”

Ancora un mio intervento scritto per la rubrica a più mani e voci Destroy Babylon, appuntamento fisso sul “Blow Up” che all’incrocio fra anni ’90 e 2000 provava e riusciva a consolidarsi come testata di riferimento per gli appassionati di rock che in Italia volevano provare ad andare anche oltre, il rock.

Nel 1990 ritrovandomi a discettare, non per la prima volta, di “Remain In Light” così conclusi il mio intervento: “Ancora oggi, a quasi dieci anni dalla sua uscita, non è un disco del passato né del presente. Viene dal futuro”. Trascorso un ulteriore decennio, mi pare che quelle parole siano tuttora valide, ma non lo siano più. In una materia che si presta insieme a rapida obsolescenza e a un costante riciclaggio quale è il rock, quello che fu il quarto album dei Talking Heads, e il terzo e ultimo atto della straordinariamente proficua collaborazione con Brian Eno, mi pare piuttosto abitare una landa indifferente allo scorrere del tempo, che il resto del rock ha aspirato a raggiungere – così va parzialmente intesa l’irrisolta stagione del crossover – ma ha al massimo lambito. Né, ragionandoci su, pare plausibile possa mai raggiungerla, avendo, la musica del Villaggio Globale immaginata da Byrne e soci, ancora al centro il rock quando l’illusione della sua centralità nel panorama pop mondiale non era stata smascherata. Nell’era del post-, che con le musiche terzomondiste non ha rapporto alcuno e dall’afroamericana ha prelevato soltanto brandelli di jazz elettrico, appare chiaro che per i tanti che si muovono e si muoveranno nella direzione seguita da “Remain In Light” il rock sarà componente poco più che accessoria. E dunque quest’album appartiene a un tempo a venire di realizzabilità del tutto aleatoria – il rock come elemento di aggregazione di altri stili e culture  – ma nondimeno ha contribuito a disegnare quello che è il presente e sarà il futuro dominante. Essendo il disco rock meno anglocentrico (addirittura più del coevo “Sandinista!”) che sia mai stato allestito, un esemplare unico per arditezza e solidità di progettazione. Gli stessi Talking Heads nel prosieguo di carriera rinunceranno a svilupparne le intuizioni, indirizzandosi invece verso una mitopoietica squisitamente americana.

Pur non dando per scontata la familiarità delle giovani generazioni con la loro vicenda (è solo una mia impressione che siano stati rimossi?), direi non sia questa la sede per diffondersi su di essa. Mi limiterò dunque a ricordare che “Remain In Light” fu giustappunto un terzo atto. Nel primo, “More Songs About Buildings And Food”, i Talking Heads avevano messo in comunicazione new wave e funky. Nel secondo, “Fear Of Music”, avevano sviluppato tale discorso muovendosi contemporaneamente (I Zimbra) verso l’Africa. Nel terzo entravano in gioco l’Asia, le musiche possibili del Quarto Mondo esplorate in quegli stessi anni da Jon Hassel, le ricerche parallele, sui ritmi più ancora che sulle voci trovate, che portarono Eno e Byrne alla realizzazione dell’al pari epocale “My Life In The Bush Of Ghosts”. La rilevanza teorica di “Remain In Light” credo non possa sfuggire a nessuno minimamente avvertito. Vorrei appuntare qui, per concludere il mio intervento, che tale importanza ha messo in secondo piano un elemento che secondario non è: che, al di là di ogni discorso alto si possa fare al riguardo, le otto canzoni che lo compongono sono, nella loro complessità estrema, sensazionalmente epidermiche, un apoteosi etnofunky in cui balenano, ossequiando il modello di chiamata e risposta che è del gospel, ritornelli di una memorabilità fuori dal comune. Bellissime, insomma. Non trovate che ci sia da avere nostalgia di un’epoca in qui l’avanguardia si ballava e si cantava a squarciagola? Il sudore, buondio! Il sudore.

Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.28, settembre 2000.

2 commenti

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2 risposte a “Quando l’avanguardia si ballava: i Talking Heads di “Remain In Light”

  1. Alfonso

    E infatti secondo me quella è l’impossibile grandezza di questo disco (più ancora di Sandinista che in certi momenti un pochino “svacca”): è un disco mostruosamente orecchiabile, al quale mi appiccicai fin dal primo ascolto nonostante fossi un 17enne ignorante di spostamenti del centro di gravità del rock e invasioni di quarti mondi e ritmi “altri”. Mi ci vollero parecchie frequentazioni e un annetto di tempo per capire e apprezzare My life in the bush of ghosts, bastò il primo passaggio sul lettore CD per mandare a memoria le otto tracce di Remain in Light ed inserire Listening Wind fra le canzoni fondamentali della mia adolescenza, con quel ritornello che se appena lo senti non ti parte un film bellissimo in testa allora c’è qualcosa di morto dentro di te. Poche storie, sperimentali e però piacevoli come loro giusto i Kraftwerk.
    Però oh, dopo saranno diventati un (quasi) normale gruppo pop-rock però avercene di dischi come Little Creatures, che se pensi a cosa andava in classifica in quel 1985 ti metti a piangere di gratitudine!

  2. posilliposonica

    Un (quasi ) aforisma coniato (non da me) per quest’album:
    Fela Kuti “rimasticato” da bianchi bulimici.

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