Feeling Gravitys Pull. Maps And Legends. Driver 8. Life And How To Live It. Old Man Kensey. Can’t Get There From Here. Green Grow The Rushes. Kohutek. Auctioneer (Another Engine). Good Advices. Wendell Gee.
I.R.S., giugno 1985 – Registrato presso i Livingston Studios di Londra nel marzo 1985 – Tecnici del suono: Jerry Boys, Barry Clempson, Tony Harris – Produttore: Joe Boyd.
“Squadra che vince non si cambia” recita un luogo comune dello sport che, come tutti i luoghi comuni, oltre a essere banale spesso non è veritiero. Squadra che vince, a essere saggi, quando la bacheca dei trofei è piena si cambia sì. Per trovare nuovi stimoli e continuare a vincere. Il 1984 era stato un altro anno epico per la banda Stipe. “Reckoning” si era affacciato nei Top 30. I concerti in patria erano stati un trionfo e le venticinque date europee, divise fra aprile e novembre e concentrate in prevalenza in Gran Bretagna, dove i R.E.M. erano ormai considerati uno dei principali gruppi americani, non erano state da meno. In novembre i Georgiani erano volati in Giappone, evento che solitamente certifica per gli artisti rock il raggiungimento di una fama planetaria. Ma al di là dei successi personali, ciò che più inorgogliva Stipe e compagni era che i R.E.M. non fossero che il nome di punta del rinascimento del rock americano. Sulla loro scia altri firmavano contratti, pubblicavano album, battevano gli Stati Uniti da costa a costa, riconvertivano la Gran Bretagna, dopo gli anni dei neo-romantici e del techno pop, al verbo del rock’n’roll. Come scrive Jim Greer nella sua biografia dei Georgiani (R.E.M. Behind The Mask, Joshua Morris Publishing, 1992), “college rock was in full swing”.
Ma c’era un rovescio della medaglia. Troppi complessi che dei R.E.M. avevano recepito non lo spirito ma la lettera e ne riprendevano lo stile pedissequamente. Diverse di queste formazioni si trasferirono addirittura ad Athens, cercando in tal modo (lo stesso fenomeno si è verificato a Seattle nel 1992) di attirare su di sé l’attenzione dell’industria. Ecco un’altra conseguenza della voglia di fare di testa propria dei signori Stipe, Buck, Mills e Berry: una cittadina della Georgia di cui i più, fino a poco tempo prima, ignoravano l’esistenza era diventata una delle capitali del rockstar system statunitense.
Prima dei R.E.M., tolte alcune città dalla particolare tradizione (Nashville, Memphis, New Orleans), l’industria discografica americana gravitava praticamente tutta intorno a New York e a Los Angeles ed era prassi comune per i gruppi in ascesa trasferirsi nella Grande Mela o nella Città degli Angeli per consolidare la loro posizione. Appoggiati in questa decisione da Holt e Downs, i R.E.M. avevano invece scelto di restare ad Athens, vicino ai loro amici e alle loro radici. Fecero tendenza anche in questo.
Che simili sommovimenti nel rock a stelle e strisce siano stati determinati da due album che diventeranno d’oro (mezzo milione di copie vendute) solo anni dopo, nel momento in cui i campioni di vendite (il 1984 è l’anno di “Born In The U.S.A.”) collezionavano dischi di platino (un milione di copie) come un bambino colleziona figurine può parerci oggi sorprendente. Ma pensate che non c’erano precedenti di un gruppo che si comportasse come i R.E.M. e ciò nonostante vendesse trecentomila copie (questo il totale realizzato da “Reckoning” nei primi otto mesi nei negozi) di un suo LP.
A questo punto della loro carriera, a ogni buon conto, l’ultima cosa di cui i R.E.M. avevano bisogno era pubblicare un altro album che suonasse come i R.E.M. Ce n’erano già troppi in giro. Facendo di necessità virtù i Georgiani approfittarono della momentanea indisponibilità, per impegni precedenti, di Mitch Easter e Don Dixon per cercarsi un nuovo produttore. Poiché i produttori cui si erano affidati fino allora erano loro coetanei e siccome se si doveva cambiare tanto valeva che il cambio fosse radicale, ne cercarono uno di un’altra generazione. Americano di passaporto ma inglese di curriculum. E volarono a incidere il disco a Londra, buggerando la I.R.S., che avrebbe voluto che la lavorazione avvenisse negli Stati Uniti, con la scusa di andare a registrare dei demo.
Quanti fra i lettori hanno già familiarità con la formazione di Athens sanno che le sedute di incisione di “Fables Of The Reconstruction” sono state l’unico momento nella loro storia in cui i R.E.M. sono giunti a un passo dallo scioglimento. Rievocando quel periodo i membri del gruppo sono concordi al riguardo: erano reduci da un anno in cui avevano passato sì e no un paio di settimane a casa, si trovavano in una città straniera e alloggiati in un albergo dal quale era un’impresa raggiungere lo studio dove si registrava. Pure il clima (a Londra quell’anno nevicò in pieno marzo) era ostile. Peter Buck stava corteggiando l’alcolismo, Stipe, Mills e Buck un esaurimento nervoso. Per la prima volta i contrasti fra i quattro non erano infrequenti. E il rapporto con Joe Boyd, ottimo sotto il profilo professionale, si mantenne distaccato. Della personalità fuori dal comune dei Georgiani è chiara dimostrazione il fatto che Boyd fu intimidito dalla loro “assenza di dubbio senza arroganza”. Un uomo che aveva lavorato con i Pink Floyd!
Il rimedio escogitato dai R.E.M. per questa situazione di disagio fu singolare: come un tossicodipendente assume droga in dosi sempre più massicce solo per evitare di stare male, invece di prendersi una lunga vacanza i Georgiani dopo tre settimane di quasi pausa punteggiate da varie prove diedero il via a una delle loro campagne concertistiche più lunghe di sempre. Il tour promozionale di “Fables Of The Reconstruction”, partito il 22 aprile, durerà fino a fine anno. Soltanto allora Stipe e soci staccheranno la spina per tre mesi. Miracolosamente, in un qualche momento nel corso del tour, o forse durante l’intervallo che lo separò dal ritorno del gruppo negli USA, le microfratture si ricomposero e l’armonia tornò.
L’entusiasmo con il quale venne accolto il nuovo materiale da radio e stampa e soprattutto dal pubblico (verrà sfiorato il traguardo del mezzo milione di copie vendute negli Stati Uniti: l’appuntamento con il primo disco d’oro era solo rinviato) aiutò. Ancora di più aiutò la consapevolezza di avere risposto al primo momento di crisi con un LP impeccabile, che mentre ribadiva l’inconfondibilità del suono R.E.M. ne allargava i confini. Se non c’è scarto stilistico che non sia riconducibile alla produzione fra “Murmur” e “Reckoning”, fra quei due LP e “Fables Of The Reconstruction” lo stacco si avverte. Da qui in avanti ogni lavoro dei R.E.M., ferma restando la riconoscibilità del gruppo, marcherà una svolta rispetto al predecessore. Se i Nostri fossero un partito, lo slogan “cambiamento nella continuità” sarebbe stato inventato per loro.
I mutamenti in atto sono riflessi già dalla copertina, di un’inedita plasticità che rasenta il tridimensionale. Le foto dei componenti del gruppo sono ai quattro angoli e diapositive di gusto psichedelico sono proiettate sui loro volti. Al centro, appoggiato su un blocco ligneo, un libro prende fuoco. Sul retro c’è un sipario. Messo in una prospettiva assurda, un cubo di legno fornito di padiglioni auricolari e sospeso a mezz’aria occupa il centro del palco. La busta mostra altre sculture in una composizione che ribadisce il gusto insieme astratto ed estremamente concreto delle immagini di copertina. Detto che tale confezione fu pensata in funzione del primo titolo del disco, che era “The Sound And The Fury”, una citazione del capolavoro dello scrittore sudista più celebrato di sempre, William Faulkner, e che il titolo per il quale si optò alla fine può essere letto ciclicamente – “Reconstruction Of The Fables” – e contiene in sé un riferimento alla ricostruzione del Sud dopo la Guerra Civile e uno alla tradizione favolistica tipica di quella parte degli Stati Uniti, avrete già inteso che nel momento in cui per la prima volta registravano lontano da casa i R.E.M. diedero vita al loro LP più impregnato di umori domestici.
Joe Boyd, un pezzo importante della storia del rock inglese più strettamente imparentato con il folk e viceversa (il suo curriculum comprende in tale ambito Incredible String Band, Fairport Convention, Nick Drake e Richard Thompson), fece un lavoro superbo del quale, stranamente, si è sempre dichiarato insoddisfatto. I suoni di “Fables” hanno la lucente trasparenza del cristallo e la grassa concretezza della terra più fertile. Gli arrangiamenti accentuano come non mai il potere evocativo delle canzoni.
Già Feeling Gravitys Pull certifica che una piccola rivoluzione è avvenuta. Comincia con la voce che fronteggia una chitarra che è psichedelica ma ha anche delle coloriture funky, coloriture che vengono accentuate dall’ingresso della sezione ritmica. Il tutto si apre in un liricissimo ritornello folk. Punteggiature di archi adornano il finale. Parrebbero quattro canzoni in una che, a raccontarla, si scommetterebbe un pasticcio. Invece no. Il brano ha una coesione straordinaria e la sua complessità non va a scapito dell’immediatezza. Parlando di immediatezza, i tre brani che occupano il centro della facciata non sono da meno: Maps And Legends è una ballata folk-rock (pure qui fanno capolino gli archi) che rievoca gli anni ’60 senza incagliarsi nelle secche del revivalismo; in Driver 8 il ritmo sale, i controcanti di Mills incrociano la voce di Stipe con la scioltezza che solo centinaia di concerti possono dare e la carica è, appunto da spettacolo live; Life And How To Live It certifica, con le sue figure chitarristiche tanto essenziali quanto eleganti, una padronanza dello strumento da parte di Buck che se non ne fa un virtuoso lo rende però uno dei chitarristi rock più efficaci della sua generazione. Old Man Kensey chiude il lato scorrendo su un groove oscuro. La voce di Stipe cerca volutamente la piattezza, la non espressione dei sentimenti, mentre quella di Mills è malinconica e romanticissima. La sezione d’archi è arrangiata in modo da sembrare un corpo estraneo, ma come in Feeling Gravitys Pull un sommarsi di incongruenze si risolve in un equilibrio d’assieme perfetto.
A proposito di incongruenze: chitarre byrdsiane e ritmo alla James Brown si direbbero cose che si mischiano quanto l’acqua e l’olio. Invece Can’t Get There From Here (primo 45 giri estratto dall’album) funziona eccome. Con Green Grow The Rushes si torna al folk-rock più classico: è una canzone fondamentale questa nella storia dei R.E.M., non per meriti musicali ma perché prelude, con i suoi obliqui riferimenti alla politica USA in Centro America, alla politicizzazione del gruppo e in particolare di Stipe. In Kohutek il suono si fa più pieno, in Auctioneer rabbioso: la chitarra si produce in scale di gusto hard, basso e batteria sono punk. Tenera come una ninna nanna, Good Advices è un perfetto preludio per il capolavoro finale Wendell Gee, con i suoi incantati giochi di voci e quel banjo dai toni crepuscolari una delle canzoni più struggenti consegnate agli archivi dai Georgiani. Degno suggello a un disco che è forse il momento chiave della loro carriera.
Pubblicato per la prima volta in R.E.M.: sogni profondi, Giunti, 1997.
Quella serie di incongruenze che finiscono per collimare magnificamente in unica direzione lo rende senza dubbio il più affascinante e oscuro del loro catalogo. Old Man Kensey ne rappresenta pienamente lo spirito.