Archivi del mese: ottobre 2012

Dylaniati: 20 grandi cover di canzoni di Bob Dylan (12)

The Neville Brothers – With God On Our Side (da “Yellow Moon”, A&M, 1989)

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Il Mucchio n.700

È in edicola il numero 700 del “Mucchio”. Sono presenti mie recensioni degli ultimi album di Datsuns, Mark Eitzel, Rickie Lee Jones, Meshell Ndegeocello e Jason Molina. Nella sezione “Classic Rock” firmo un articolo su Jerry Lee Lewis e mi occupo inoltre dell’antologia “Cumbia Beat Vol.2” e di recenti ristampe di André Cymone, Mamas & The Papas, Nine Below Zero, Demis Roussos e Ray Stinnett.

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Dylaniati: 20 grandi cover di canzoni di Bob Dylan (13)

Edie Brickell & New Bohemians – A Hard Rain’s A-Gonna Fall (dalla colonna sonora di Born On The Fourth Of July, MCA, 1989)

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Neil Young & Crazy Horse – Psychedelic Pill (Reprise)

Che Neil Young sia pazzo (crazy) come un cavallo (horse) lo sapevamo da ben prima che si desse alternativamente al rockabilly o all’elettronica. Direi che il sospetto era balenato una prima volta quei tondi quattro decenni fa, quando a quello che resta il suo successo commerciale più grande di sempre, “Harvest”, faceva andare dietro quel pateracchio insensato di “Journey Through The Past”. Nondimeno mai il giovanotto (sessantasette anni il prossimo 12 novembre) era riuscito – per quanto mi riguarda – nell’impresa di dare alle stampe nell’arco di sei mesi scarsi un candidato certo a un’eventuale lista dei peggiori album dell’anno, vale a dire “Americana”, e uno probabile alla lista dei migliori, ossia “Psychedelic Pill”. Che mi è piaciuto assai e di cui mi appresto a scrivere di conseguenza, con buona pace di quanti al giro prima (a memoria la recensione di “Americana” è a oggi il post più commentato nella breve storia di questo blog) gridarono alla lesa maestà. Che tutto ciò non abbia una logica è evidente, oppure no: che non indica forse che in questa follia ci sia del metodo il fatto che i complici del nostro eroe siano i medesimi?

Opera di grandi, clamorosi numeri la “Pillola Psichedelica”. Ad “Uncut” si sono divertiti a stilare la classifica dei venti articoli più lunghi nello sterminato catalogo del Canadese e Driftin’ Back con i suoi 27’37” stravince, lasciandosi dietro di oltre nove minuti quella Ordinary People che il nostro uomo nel 2007 aveva designato a promuovere nelle radio (!) “Chrome Dreams II”. Titoli contenuti in “Psychedelic Pill”, Ramada Inn e Walk Like A Giant, occupano anche la terza e la quarta posizione, rispettivamente sfiorando i diciassette minuti e superando di slancio i sedici, e uno ancora – She’s Always Dancing: 8’33” – ha mancato di una manciata di secondi l’ingresso nella speciale graduatoria. Per intendersi: Driftin’ Back dura il triplo dei due brani, Down By The River e Cowgirl In The Sand, cui a oggi pensavamo immancabilmente come insuperabili modelli ogni volta che nella stessa frase si ritrovavano “Neil Young” e “cavalcata elettrica”. Quelli chiudevano le due facciate di “Everybody Knows This Is Nowhere”, questo inaugura “Psychedelic Pill”. Una gara di resistenza, subito, per chiarire che così è se gli pare.

Parte ingannevolmente morbida e acustica, Driftin’ Back, ma è questione di un minuto e una ventina di secondi e, in capo a un florilegio di armonie vocali degno di quando il Neil faceva comunella con quegli altri tre lì, gli amplificatori si accendono e le sei corde spiccano il più liricamente epico dei voli, mentre la lingua batte – concedendosi estese afasie – dove vecchie ossessioni dolgono. È un susseguirsi come di onde cui non vale provare a resistere se non si vuole – annoiandosi – affogare. Ma provate a cavalcarle e un senso come di euforia vi prenderà progressivamente. Non dico arriverete in fondo, all’approdo a una traccia omonima viceversa tascabile e perfetta nel suo distillare travolgente stralunatezza, senza accorgervene ma… quasi. Pronti dopo per farvi cullare dal languore nostalgico tuttavia con propensione al graffio di Ramada Inn, dal cantilenare ipnotico di Born In Ontario, dal viaggio lungo strade dove le pietre avevano appena iniziato a rotolare di Twisted Road. E la sapete una cosa? Il meglio non lo avete ancora ascoltato. Sta nell’attacco corale e nel dipanarsi denso e squillante come un uragano di She’s Always Dancing, nello struggersi di For The Love Of Man, soprattutto – soprattutto – in una Walk Like A Giant dalla ritmica a tratti schiacciasassi e per il resto favolosamente melodica prima di dissolversi in una trama di noise dalle maglie via via più larghe. Ecco: minimo questa in una qualunque futura antologia elettrica del Nostro non potrà mai, mai, mai mancare.

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Terry Callier (1945-2012)

Ho scritto un’infinità di volte di Terry Callier, ma davvero un’infinità, dedicandogli fra l’altro un capitolo nel 2007 in Scritti nell’anima. L’ultima fu tre anni or sono, quando recensivo da varie parti l’ottimo “Hidden Conversations”, e giacché era trascorso un po’ di tempo pregustavo ormai la possibilità di occuparmi di un nuovo album dell’artista chicagoano. Certo non mi attendevo che una grigia domenica ottobrina sarebbe stata resa ancora più grigia dalla notizia della sua scomparsa. Se n’è andato un musicista immane e sola consolazione è che, dopo avere patito tanta sfortuna e un ingiusto oblio, negli ultimi tre lustri si sia goduto un trionfo via l’altro.

Sessantaquattro anni compiuti da poco e portati alla grande, Terry Callier non vuole proprio saperne di ritirarsi – sarebbe la terza volta – e dunque apporre la parola “fine” in calce a quella che parimenti si potrebbe etichettare come la sua terza giovinezza. O quarta? A ben contare. Dopo una prima (mezzi ’60) in cui facendo incontrare Bob Dylan e Ornette Coleman inventò Nick Drake; una seconda (primi ’70)  in cui mise d’accordo Love, Van Morrison e Marvin Gaye; una terza (inizio ’90) in cui, riscoperto prima dai giri dell’acid jazz e poi da quelli del trip-hop, tornò a esibirsi dal vivo e a frequentare, ma allora solo per ospitate da Riverito Maestro, le sale d’incisione. Rompeva gli indugi nel ’98, pubblicando un album nuovo a ben diciannove anni dal precedente, e per fortuna sua e nostra non ha più smesso di regalarci dischi assolutamente all’altezza di quelli delle ere auree. Fra l’altro (tantopiù risultano rimarchevoli per questo): affatto diversi almeno in un senso e vale a dire nel loro recuperare tutti gli stili magistralmente sintetizzati in passato aggiungendo nel contempo ulteriori elementi alla formula.

Copertina che fa molto Sun Ra, “Hidden Conversations” è l’ennesima dimostrazione che, se non in politica, in musica quello che chiamerei (sembra ormai una parolaccia) “veltronismo” può funzionare. A patto di fondere davvero, invece che accatastare e basta. Qui c’è – unito armoniosamente – quanto si diceva sopra e tanto di più:  jazz ma anche reggae, funk ma anche gospel, country ma anche rap, ma anche delle batucade. Qui incontri lo spirito infine redento di Gil Scott-Heron e lo sorprendi in conversazione con un redivivo John Lee Hooker: titolo di uno dei due brani scritti da Callier con Robert Del Naja dei Massive Attack e non aggiungo altro.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.302, giugno 2009.

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Dylaniati: 20 grandi cover di canzoni di Bob Dylan (14)

Nina Simone – Just Like A Woman (da “Here Comes The Sun”, RCA Victor, 1971)

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Non si esce vivi dagli anni ’80 (36)

Lo scorso luglio riprendevo un articolo da me dedicato ai Go-Betweens nell’ottobre 2000, quando il sodalizio artistico e umano fra Robert Forster e Grant McLennan si era appena riformato. Non era la prima volta che mi occupavo in lungo, e sempre per “Il Mucchio”, di questi magnifici Australiani, che inventarono gli Smiths ma sfortunatamente si dimenticarono di registrare il brevetto.

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Dylaniati: 20 grandi cover di canzoni di Bob Dylan (15)

The Specials – Maggie’s Farm (lato B di Do Nothing, 2 Tone, 1980)

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Dylaniati: 20 grandi cover di canzoni di Bob Dylan (16)

Sam Cooke – Blowin’ In The Wind (da “Sam Cooke At The Copa”, RCA Victor, 1964)

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R.E.M. 1982-1996 (10): Automatic For The People

Drive. Try Not To Breathe. The Sidewinder Sleeps Tonite. Everybody Hurts. New Orleans Instrumental No. 1. Sweetness Follows. Monty Got A Raw Deal. Ignoreland. Star Me Kitten. Man On The Moon. Nightswimming. Find The River.

Warner Bros, ottobre 1992 – Registrato presso il Bearsville Studio di New York, i Criteria Recording Studios di Miami, il John Keane Studio di Athens, il Kingsway Studio di New Orleans e i Bosstown Recording Studios di Atlanta, e mixato al Bad Animals di Seattle, nella primavera del 1992 – Tecnico del suono: Clif Norrell – Produttori: Scott Litt e R.E.M.

Ove due anni e mezzo erano trascorsi dalla pubblicazione di “Green” all’uscita di “Out Of Time”, diciannove mesi separano quest’ultimo dal suo successore. Considerato che i Georgiani erano stati quasi un anno in tour per promuovere “Green”, i conti tornano. La cadenza delle uscite stava rallentando, come è normale per i gruppi con una carriera decennale alle spalle e un successo consolidato, ma nemmeno molto. I R.E.M. non erano più, per citare una definizione di James Brown, “the hardest working men in showbiz” ma esibivano ancora un’urgenza espressiva rara in musicisti dal curriculum tanto corposo. Fuori dal comune, del resto, lo erano stati sin dagli esordi. Ottenuto il successo più grande della loro carriera con il primo LP non promozionato da un tour, dopo dieci anni passati suonando in ogni sperduto buco d’America, Stipe e soci diedero alle stampe un secondo album cui non fecero seguito che interviste e un concerto, per pochi intimi e per Greenpeace, al 40 Watt Club di Athens (i pochi intimi diverranno migliaia quando la scaletta di quello spettacolo comparirà, uno spezzone dopo l’altro, sui primi quattro mini CD tratti da “Monster”). Un comportamento inusuale per uno dei complessi rock più popolari a ogni latitudine. Ciò nonostante “Automatic For The People” venderà, nei soli Stati Uniti, due milioni e mezzo di copie, una cifra distante dagli oltre quattro milioni totalizzati dal predecessore ma nondimeno prodigiosa se si tiene conto della sua uscita in sordina e del fatto che non offre alcuna Losing My Religion né, men che mai, una Shiny Happy People.

È questo il capitolo più ombroso e desolato del Grande Romanzo Americano scritto dalla banda Stipe. I Nostri, entrati in studio con l’idea di confezionare un LP di rock’n’roll, si ritrovarono, alla fine di una lunga peregrinazione fra studi situati ai quattro angoli degli Stati Uniti, con in mano un disco prevalentemente acustico, con pochissimi brani uptempo e uno solo, Ignoreland, accostabile al rock da arena di “Green”. Se la limpidezza delle melodie induce a parlare ancora di pop è però un pop aristocratico quello di “Automatic For The People”. Lo si può tranquillamente dire cameristico ed è certamente, spesso e volentieri, funereo. La tristezza che lo impregna, unita a una concatenazione di circostanze che a tanti parvero avere l’evidenza di prove, generò uno dei più macabri equivoci della storia della moderna musica popolare, dopo la presunta morte di Paul McCartney e la sua sostituzione con un sosia da parte dei Beatles superstiti, di cui tanto si chiacchierò all’altezza dell’uscita di “Abbey Road”.

“Automatic For The People” è un capolavoro ossessionato dall’incombere della Grande Livellatrice, da Try Not To Breathe, il cui testo allude in maniera alquanto esplicita a Jack Kevorkian, noto come Dottor Morte per le sue battaglie in favore dell’eutanasia, all’omaggio a Andy Kaufman, un comico americano passato giovane a miglior vita che Stipe annovera fra i suoi eroi, di Man On The Moon. Il protagonista di Sweetness Follows si appresta a seppellire i genitori. Monty Got A Raw Deal è incentrata sulla figura di Montgomery Clift, un attore hollywoodiano anch’egli scomparso prematuramente, oggetto di culto pure per i Clash che alla sua memoria avevano dedicato, su “London Calling”, The Right Profile. Unite a ciò il fatto che per la seconda volta i R.E.M. non fecero seguire la pubblicazione di un LP da un tour; che Michael Stipe si astenne persino dal concedere interviste, lasciando tale incombenza a Buck e a Mills; che in foto e video la sua magrezza rasentava la macilenza; che il suo attivismo a favore dei malati di AIDS era da tempo sotto gli occhi di tutti; che sui suoi gusti in materia di sesso si è sempre ricamato. Comprenderete allora come fu possibile che le voci che lo davano sieropositivo se non moribondo acquistassero una credibilità che l’anonimato delle fonti non giustificava e rimbalzassero sulla stampa mondiale con grande risalto. Scioccato per l’accaduto da un lato e dall’altro lusingato dall’idea che tanti si preoccupassero della sua salute, e ritenendo che anche certi articoli sensazionalistici su di lui potessero contribuire ad accrescere la consapevolezza del problema AIDS, Stipe attenderà due anni prima di smentire, in un’intervista pubblicata da “Rolling Stone”, la sua sieropositività.

La chitarra arpeggiata, il basso morbido, le voci trattate con l’eco e gli archi discreti che disegnano l’inizio di Drive definiscono da subito il tono dell’album. Il ritornello suona come una disincantata replica al giovanilismo di Rock On, un successo di David Essex che è rimasto popolare negli anni fra gli adolescenti americani. Procedendo il brano si fa più corposo, la chitarra elettrica diventa pungente, gli archi (arrangiati dal Led Zeppelin John Paul Jones, responsabile pure delle orchestrazioni di The Sidewinder Sleeps Tonite, Everybody Hurts e Nightswimming) melò ma (ci venga perdonato l’ossimoro) con buon gusto. Try Not To Breathe è un folk-rock che corteggia la retorica senza divenirne succube. I controcanti di Mills, la voce filtrata, un po’ metallica, sono indimenticabili. Un solenne accordo d’organo vi appone la parola “fine”. C’è poi il primo sprazzo di sereno nel crepuscolo di “Automatic For The People”. The Sidewinder Sleeps Tonite ruba la melodia iniziale a The Lion Sleeps Tonight, canzoncina sovente eseguita dal vivo dai Georgiani e molto amata anche da Brian Eno, e si dispiega quindi, guidata da un organo carico di swing, allegra nei suoni e scherzosa nel testo. Tutt’altra atmosfera si respira in Everybody Hurts, una commossa ballata che asciutte terzine di piano conducono al climax stabilito dall’entrata al proscenio degli archi, immediatamente doppiati dall’elettrica. Il clima permane cupo pure in New Orleans Instrumental No. 1, che nulla ha della solarità di Crescent City, e in Sweetness Follows.

La seconda metà del lavoro è giocata su toni appena più lievi, è più spesso romantica che depressa e offre sprazzi di ironia e, dopo il ritornello dal gusto di minuetto di Monty Got A Raw Deal, l’unico momento di furore rockista di “Automatic”, la violenta tirata antirepubblicana di Ignoreland (che è anche il solo brano esplicitamente politico dell’intero LP). Star Me Kitten scivola su un organo minimale e una melodia tanto simile a quella di I’m Not In Love dei 10CC da sfiorare il plagio. Man On The Moon ha un ritornello a presa istantanea e un tempo quasi da calypso. Il dittico Nightswimmming/Find The River, infine, suggella “Automatic For The People” ribadendone la centralità in qualunque seria analisi critica sull’opera della formazione di Athens. La sobria orchestrazione della prima e il countreggiare di scuola Fred Neil della seconda infliggono ferite che lasciano cicatrici dolorose e bellissime.

Pubblicato per la prima volta in R.E.M.: sogni profondi, Giunti, 1997.

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