Beth Orton – Sugaring Season (Anti-)

Mai stati inconsueti e anzi a conti fatti una regola i lunghi periodi di ritiro per Elizabeth Caroline Orton, più familiarmente Beth, da Norwich, che mai ha posto meno di tre anni fra un suo album e l’altro e il precedente “Comfort Of Strangers” già ce lo aveva fatto aspettare per quattro. Sei però sono davvero tanti e a fare la differenza è che questa volta il silenzio sia stato oltretutto (di rilevante giusto la partecipazione a un tributo a Judee Sill) pressoché totale. Niente tour, niente collaborazioni importanti, niente di niente. Più che il classico blocco dello scrittore o in questo caso della scrittrice hanno pesato la fine del rapporto con la EMI, cui la signora era giunta via Heavenly, e il consolidamento di quello con Sam Amidon e i pargoli sono già due. Magari Arthur si godrà di meno, rispetto a Nancy, le attenzioni della mamma, se “Sugaring Season” verrà promosso come si deve. Oppure no e Beth Orton si dimostrerà una volta di più impermeabile alle leggi e alle pressioni dello showbiz. Per intanto c’è comunque un nuovo disco da gustare. A rischio di sbrodolature dopo un sì prolungato tacere? Ah, ma allora la Beth non la conoscete proprio… dieci canzoni in tutto, poco più di trentasette minuti.

Ha ragione il recensore di “Pitchfork”: se in passato l’etichetta di cantautrice è sempre parsa inadeguata a contenere uno stile eclettico quantomai e costantemente proteso a lanciare ponti fra mondi, a questo giro per raccontare la Orton – e il completamento di un passaggio (probabilmente definitivo) dalla folktronica all’alt-folk – è perfetta. Niente, per così dire, contaminazioni in un disco i cui primi due brani – Magpie e Dawn Chorus – potrebbero essere rispettivamente ascritti ai Fairport Convetion e alla Suzanne Vega più rétro. Laddove nel terzo –Candles – risuonano echi di Ode To Billy Joe e il quinto – Call Me The Breeze: non una cover che sarebbe stata sul serio spiazzante del classico di J. J. Cale bensì una creazione autografa a quattro mani – si scommetterebbe  un prezioso lascito dell’amicizia con Bert Jansch, che in Beth trovò un’ultima, sublimemente ricettiva allieva. Invece, e si stenta a crederci, a co-firmarla è un altro amico di più antica data e tutt’altri ambiti: Tom Rowlands dei Chemical Brothers, niente di meno. È uno dei tre momenti che più ho apprezzato, essendo gli altri due lo spumeggiante valzer See Through Blue e il sospeso, incantato congedo di Mystery, di un album che si concede (squisita contraddizione in termini) con suadente ritrosia. Alla sua riuscita ha concorso fior di musicisti che la titolare (pure in questo la differenza con certe altisonanti collaborazioni trascorse) ha usato per cesellare piuttosto che per sgrossare la materia prima. In tutta franchezza: chiamare Marc Ribot (al confronto alquanto in evidenza il violino di Eyvind Kang) per fargli fare due ricami invece che due assoli è un po’ come ingaggiare Alonso per farsi accompagnare al supermercato. Tant’è. Beth Orton è così. Sregolata. Dolcemente.

1 Commento

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Una risposta a “Beth Orton – Sugaring Season (Anti-)

  1. Michael Rove

    “….un album che si concede (squisita contraddizione in termini) con suadente ritrosia…”
    Concordo con l’analisi, al solito ficcante, di VMO. Aggiungerei tuttavia che il disco, al netto di una mezza dozzina di ascolti, è carino, sì, e sicuramente sopra la media, ma nulla più. Il salto da folktronica ad alt-folk è riuscito. E secondo me è proprio questo il problema: se il passaggio tra generi, anche attigui come nel caso in oggetto, oggi sembra alla portata di tutti è perchè la classifica, come si direbbe in gergo calcistico, è decisamente livellata verso il basso.
    Ciao,
    M.

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