Ho scritto un’infinità di volte di Terry Callier, ma davvero un’infinità, dedicandogli fra l’altro un capitolo nel 2007 in Scritti nell’anima. L’ultima fu tre anni or sono, quando recensivo da varie parti l’ottimo “Hidden Conversations”, e giacché era trascorso un po’ di tempo pregustavo ormai la possibilità di occuparmi di un nuovo album dell’artista chicagoano. Certo non mi attendevo che una grigia domenica ottobrina sarebbe stata resa ancora più grigia dalla notizia della sua scomparsa. Se n’è andato un musicista immane e sola consolazione è che, dopo avere patito tanta sfortuna e un ingiusto oblio, negli ultimi tre lustri si sia goduto un trionfo via l’altro.
Sessantaquattro anni compiuti da poco e portati alla grande, Terry Callier non vuole proprio saperne di ritirarsi – sarebbe la terza volta – e dunque apporre la parola “fine” in calce a quella che parimenti si potrebbe etichettare come la sua terza giovinezza. O quarta? A ben contare. Dopo una prima (mezzi ’60) in cui facendo incontrare Bob Dylan e Ornette Coleman inventò Nick Drake; una seconda (primi ’70) in cui mise d’accordo Love, Van Morrison e Marvin Gaye; una terza (inizio ’90) in cui, riscoperto prima dai giri dell’acid jazz e poi da quelli del trip-hop, tornò a esibirsi dal vivo e a frequentare, ma allora solo per ospitate da Riverito Maestro, le sale d’incisione. Rompeva gli indugi nel ’98, pubblicando un album nuovo a ben diciannove anni dal precedente, e per fortuna sua e nostra non ha più smesso di regalarci dischi assolutamente all’altezza di quelli delle ere auree. Fra l’altro (tantopiù risultano rimarchevoli per questo): affatto diversi almeno in un senso e vale a dire nel loro recuperare tutti gli stili magistralmente sintetizzati in passato aggiungendo nel contempo ulteriori elementi alla formula.
Copertina che fa molto Sun Ra, “Hidden Conversations” è l’ennesima dimostrazione che, se non in politica, in musica quello che chiamerei (sembra ormai una parolaccia) “veltronismo” può funzionare. A patto di fondere davvero, invece che accatastare e basta. Qui c’è – unito armoniosamente – quanto si diceva sopra e tanto di più: jazz ma anche reggae, funk ma anche gospel, country ma anche rap, ma anche delle batucade. Qui incontri lo spirito infine redento di Gil Scott-Heron e lo sorprendi in conversazione con un redivivo John Lee Hooker: titolo di uno dei due brani scritti da Callier con Robert Del Naja dei Massive Attack e non aggiungo altro.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.302, giugno 2009.
God bless him… Io ho solo What color is love, cosa mi consigli per approfondire?
“The New Folk Sound Of” è un disco in cui praticamente inventava Nick Drake. Fai un po’ tu. 🙂
Cavoli, non sapevo. Visto adesso. “The new folk sound of Terry Callier” è semplicemente incredibile. Più che Nick Drake direi Fred Neil alla chitarra e Nina Simone alla voce, ma in una sola persona.
Venerato, tu sai dove colpire nei punti deboli…
Nella mia ignoranza quando mi sono imbattuto in quel disco l’avevo evitato perchè titolo e copertina mi facevano pensare a delle early recordings di folk calligrafico. Don’t judge a book (and a record) by the cover… Recupererò al più presto.
Finalmente scoperto il capolavoro.
Thanks Venerato, thanks Everybody.
Il tardivo riconoscente ero io…
Per quanto mi riguarda “The New Folk Sound of Terry Callier” non dovrebbe mancare dagli scaffali di nessuno; ma pure la raccolta di demo “First Light: Chicago 1969-1971” è a dir poco sensazionale.
Io sono di parte. Terry è un pezzo di me, in tutto e per tutto. Difficile dire quale sia il mio preferito: forse adesso direi Occasional rain, con un pezzo stratosferico come Lean on me che per me è una delle più grandi soul ballad di sempre (peraltro riproposta in una splendida versione in duetto con Beth Orton non tanti anni fa). Però il trittico Occasional-What color is light-I just can’t help myself è uno dei momenti più alti della storia della musica.
What color is love è per me, insieme a Inspiration Information di Shuggie Otis, è il più bel lascito di Forever Changes. Qualche anno fa li tenevo tutti e tre in macchina e li ascoltavo uno dopo l’altro: persino il traffico romano sembrava piacevole.
Molto bella come immagine. 😀
Grazie, aspetto dal VMO una bella lista di canzoni per cui vale la pena attraversare il lungotevere cercando parcheggio il sabato sera!
ps nulla sapevo di “First Light: Chicago 1969-1971”; che tipo materiale ci hanno messo?
È da un sacco di anni che non vengo a Roma. Però non so se esistano canzoni sufficientemente belle da indurre ad attraversare volontariamente il lungotevere in cerca di parcheggio il sabato sera. Non so proprio.
Indurre ad attraversare magari no, ma per renderlo più sopportabile i Kraftwerk in generale e The Robots in particolare funzionano più che bene 😉
Anzi, con quella colonna sonora il tira e molla di frenate e ripartenze assume una qualità estetica quasi apprezzabile…
Per Alfonso: http://www.allmusic.com/album/first-light-chicago-1969-1971-mw0000038318. E quando dice “essential”, sottoscrivo appieno…
Io non sottovaluterei “Live At The Mother Blues 1964”, il degno predecessore di “The New Folk Sound Of” (nonostante sia stato rilasciato solamente nel 2000). La versione di Work Song posta in apertura è sublime.