Archivi del mese: novembre 2012

51 ragioni per le quali sono cronicamente depresso

Allora è ufficiale: da oggi sono più vecchio di Joe Strummer e non sarebbe mai dovuto accadere – o, quantomeno, non prima del 2041. Già da un po’ provavo a immaginare come mi sarei sentito quando questo giorno sarebbe arrivato ed era una delle ragioni per le quali sono cronicamente depresso. Eccone altre cinquanta.

50) Non riuscirò mai – e intendo dire MAI – a piegare come si deve le lenzuola con gli angoli.

49) Pare che Piero Scaruffi esista davvero.

48) Ho il culo molto peloso.

47) Fotogenìa zero.

46) Prima o poi l’estate torna sempre.

45) Ancora centosettantanove rate di mutuo.

44) Il triplete.

43) Il rigore di Baggio.

42) Il gol di Magath.

41) Sul campo dovrebbero essere minimo 33.

40) Più cinque Coppe dei Campioni.

39) E la conobbe. Ma aveva sbagliato indirizzo.

38) La bocca sollevò dal fiero pasto.

37) Ti ho vista uscire, mano nella mano. Eccetera.

36) Il triangolo no, non lo avevo considerato.

35) Io a scrivere di dischi, mentre altri invadevano la Polonia.

34) L’LSD non è più quello di una volta.

33) I venerdì non sono più quelli di una volta.

32) Io sono ancora quello di una volta.

31) Su Facebook non ho ancora battuto chiodo.

30) Compagni che sbagliano.

29) Si potrebbe dire di più.

28) Si potrebbe dare di più.

27) Si potrebbe darla di più, ché non è che si consuma, eh?

26) Silvia non me l’ha mai data.

25) Ma nemmeno Barbara. E Angela. E Paola. Eccetera.

24) Patrizia, invece, sì.

23) Eppure ero sicuro di averne ancora uno.

22) E cosa intendevi esattamente con “ti amo”?

21) Firenze, Hotel Porta Rossa, ottobre 1989.

20) Un fastidioso soprassalto di moralità mi impedisce ormai da anni di provarci con le mogli degli amici. #risorse poco valorizzate

19) C’è chi sostiene ch’io sia molto arrogante. Ma non avete idea di che razza di falliti siano quelli che lo dicono.

18) Tutti i bei dischi che non ascolterò mai.

17) Tutti i dischi orrendi che mi è toccato ascoltare.

16) La gente che dà un colpo al cerchio e uno alla botte.

15) La gente che ti parla di marketing.

14) La gente che si fa strada sul posto di lavoro andando a letto con il capo.

13) La gente che ha preso il tesserino di giornalista con i punti nei fustini del Dixan e poi viene a spiegarti come dovresti scrivere un articolo.

12) La gente. Certa gente. Anche se, per definirla, “gente” è una parola grossa.

11) Fare le cose giuste nel momento sbagliato (Velvet, 1988-1990).

10) Ma lo sai che ti trovo molto giovanile?

9) Sentirsi ancora addosso sedici anni. Senza condizionale.

8) I’ve got the funk. Ma più che altro il blues.

7) It’s a man’s man’s man’s world.

6) I refusi.

5) Si sta come d’autunno sugli alberi le doglie.

4) Domani è un altro giorno.

3) Prima o poi scoprirò di avere una prostata.

2) Prima o poi mi toccherà recensire gli XX.

1) Di mestiere faccio il critico musicale.

E per chiudere una comunicazione di servizio. Se sei la biondina capelli corti e nasino alla francese che ha dato subito prima di me l’esame di storia e critica del cinema con Rondolino il 17 ottobre 1984, e ti riconosci in queste righe, ti prego di contattarmi: voglio ancora morire ai tuoi piedi.

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Robert Smith all’inferno: “Pornography” ha trent’anni

A dire il vero anche qualcosa di più ormai, giacché quello che nella vulgata comune è ritenuto il classico fra i classici dei Cure vedeva la… luce?… nel maggio ’82. Alcune mie considerazioni scritte per “Blow Up” quando si apprestava a diventare maggiorenne.

Non importa se moriremo tutti”: sono le prime parole che si ascoltano in “Pornography”. “Devo combattere questa malattia, trovare una cura” sono le ultime. È racchiusa fra questi versi, fra la batteria metronomica e la melodia solenne e istantanea di One Hundred Years e la litania scostante del brano che lo intitola l’epopea decadente di quello che fu il quarto e ultimo LP dei Cure. “Ma come!”, direte voi. “Ma se esistono ancora!” (anche se pare che il lavoro che hanno appena licenziato sarà l’ultimo; ma Robert Smith lo racconta da quindici anni e chi gli crede più?). Ma intendendo i Cure come gruppo e non come pseudonimo dietro il quale si cela Smith stesso, facendosi accompagnare da gregari completamente acquiescenti al suo ego e al suo genio, “Pornography” fu il loro ultimo album, allo stesso modo in cui “Forever Changes” fu il congedo dei Love, da lì in poi Arthur Lee più chi passava. Differenze fra le due storie: “Pornography” resta un grande disco ma non è invecchiato benissimo, mentre “Forever Changes” è un capolavoro appieno dentro il suo tempo ma che non diverrà mai vetusto; Robert Smith ha continuato a concepire canzoni e album memorabili pure dopo, Arthur Lee meno. Similitudini: tutto il resto, o quasi.

Come il terzo LP dei Love, il quarto dei Cure fu l’approdo di un viaggio terribile durante il quale i rapporti umani si erano acrimoniosamente disintegrati e l’ombra della follia si era allungata sui naviganti. Ricordate il video di Charlotte Sometimes, il 45 giri che precedette l’album ma che in esso non è compreso? Era ambientato in un manicomio. E cosa dire della disturbante foto sul foglio interno? I volti sono macchie indistinte e gli informi abiti neri che indossano Robert Smith, Simon Gallup e Lol Tolhurst hanno tanto l’aria di camicie di forza. E ai tre in effetti mancava poco alla condizione clinica in cui tali indumenti si rendono necessari. Il primo, stressato dalla contemporanea appartenenza ai Banshees, era preda di alcool, droghe e una pericolosa fascinazione per la malattia mentale. Il secondo, un tempo il migliore amico del primo, non ne sopportava più i deliri megalomani e si rivaleva sul terzo, povero vaso di coccio fra due di metallo. Già forti durante le registrazioni, le tensioni divamparono nel tour successivo, al termine del quale il gruppo non esisteva più.

Un grosso equivoco circonda i Cure sin dai tempi di “Seventeen Seconds”, primo pannello del trittico completato da “Pornography” e che ha al centro lo sfocato “Faith”: che siano (stati) la massima epitome del gotico – o, come si dice in Italia, del dark – in musica. Etichetta assai limitante per una ragione sociale che ha prodotto alcune delle canzoni pop più irresistibili dell’ultimo ventennio e ha avuto bei flirt con la psichedelia. Nondimeno “Pornography” del gotico è una delle pietre miliari. “Phil Spector all’inferno” scrisse David Quantick sul “New Musical Express” sintetizzando esemplarmente, in una recensione peraltro negativa, l’impressione che suscita nel suo insieme. È un muro di suono vischioso e malevolo nel quale si aprono soltanto due finestre dalle quali filtra un po’ di (livida) luce: la già citata One Hundred Years e soprattutto The Hanging Garden, di gran lunga il brano più immediato degli otto in programma: l’attacco di batteria trascinante, il giro di basso nella migliore tradizione Cure, la chitarra sinuosa e orientaleggiante che lo attraversa, il ritornello epidermico, la voce di Smith che una tantum più che disperazione trasmette un’impressione di dandismo deliziosamente affettato ne fanno una canzone indimenticabile. Tuttavia quasi fuori posto in un disco che per il resto vale come claustrofobica esperienza d’assieme, inquieta escursione in criptici labirinti dai quali presto non si sa più come uscire. Smith, per sua e nostra fortuna, trovò una strada (“una cura”). Un secondo “Pornography” non avrebbe potuto che scadere nella parodia, come fece il dark andato dietro a questi Cure e insopportabile. Ma è sempre ingiusto fare ricadere le colpe dei figli sui padri.

Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.22, marzo 2000.

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Bad Brains – Into The Future (Megaforce)

Disponibile all’epoca solo su cassetta (come del resto tutte le altre produzioni della benemerita ROIR), il primo, omonimo album dei Bad Brains vedeva la luce nel 1982 ed è intessuto della stoffa delle leggende. Lì “il migliore hardcore punk di sempre”, stando ad Adam “MCA” Yauch, e in tanti sono tuttora d’accordo con il compianto rapper dei Beastie Boys. Esordire direttamente con un capolavoro ha naturalmente le sue controindicazioni, essendo la prima che se parti dalla cima della montagna dopo non potrai che scendere. I più radicali fra gli estimatori del complesso di Washington DC hanno addirittura da ridire (benché i due lavori abbiano diversi titoli in comune) sull’al pari basilare “Rock For Light”, di un anno successivo, regia curata da Ric Ocasek e pubblicato da una casa discografica “vera”, PVC. E a loro tempo “I Against I” e “Quickness”, oggi giustamente considerati fra i capisaldi di una concezione moderna del metal, vennero molto criticati proprio perché verso il metal inclinavano, “tradendo” le radici del combo. Insomma: nella gloriosa quanto travagliata – l’hanno scandita rimescolamenti, licenziamenti, scioglimenti, ricostituzioni – storia di questi rastafari punk quasi immancabilmente ogni nuova uscita è stata salutata dai lamenti di coloro che per una ragione o un’altra ritenevano preferibile la precedente. Fino a “Build A Nation”, il disco prima di questo e non sembra che già cinque anni siano trascorsi, la cui produzione era firmata per l’appunto da MCA e che dopo la fiacca collezione in levare del 2002 “I & I Survived” risollevava i fans sciorinando una sorta di riassunto, stilisticamente parlando, di una vicenda artistica a quel punto già ultraventicinquennale. “Into The Future” secondo me è migliore. Per carità, nulla di cui la vostra vita non possa fare a meno, ma averne di giovincelli con la classe, la freschezza, l’energia di questi veterani… Averne!

Parte bene, “Into The Future”, con una traccia omonima che attacca riffeggiando stentorea, salvo rallentare mefitica e ripartire con uno strappo che la congiunge all’incedere da schiacciasassi di una Popcorn che, se i Red Hot Chili Peppers sapessero ancora scrivere canzoni così, sarebbero ancora i Red Hot Chili Peppers. Si congeda da lì a poco più di mezzoretta con l’omaggio squillante e virilmente commosso al discepolo che si fece mentore di MCA Dub. Quanto sta in mezzo è una dimostrazione da manuale di un sound che per primo mise insieme (per quanto solitamente facendoli correre su binari paralleli, laddove qui, in Youth Of Today, le rette si intersecano) l’hardcore più feroce mai uditosi su questo lato dei Black Flag e il più melodioso reggae scuola ’70, suonato con maestrìa tecnica impressionante da gente che veniva dal jazz. Per poi, in un paio di esemplari tappe, approdare a una forma di crossover che altri – Living Colour per primi – porteranno all’incasso, i Bad Brains sfortunatamente mai. Fra un attacco spiritato e un assalto furibondo, ho qui apprezzato particolarmente una Earnest Love che macina massiccia e malevola e una Make A Joyful Noise sfacciatamente solare. Mai sotto un’abbondante sufficienza il resto.

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Non si esce vivi dagli anni ’80 (40)

Ma anche sì. E poi si ricomincia.

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Presi per il culto (26): Autosalvage – Autosalvage (RCA Victor, 1968)

New York sulla mappa di certo suono secondi ’60 occupa cantucci eccentrici. Non un caso secondo me che agissero lì i due gruppi che trafficavano maggiormente, prevalentemente, quasi esclusivamente con marchingegni di primitiva elettronica: Lothar & The Hand People e Silver Apples. Lì operavano anche gli Autosalvage. Se ne è scritto pochissimo, i pochi che li hanno presenti routinariamente li dicono zappiani ma è una questione più di incroci e simpatie che non di reali affinità. A ventiquattro anni dalla riedizione su Edsel di un unico, omonimo album dato alle stampe in origine vent’anni prima ancora, la fonte più estesa di notizie su costoro restano le scarne note di copertina di Brian Hogg. Lì, avendo comprato il disco al volo senza saperne nulla ma fidandomi del marchio (fiducia mai tradita), apprendevo che erano il cantante e chitarrista Thomas Danaher e il cantante, oboista, pianista e batterista Darius LaNoue Davenport a porre le basi, sin dal ’66, per un lavoro condiviso che decollerà quando il duo si farà trio e poi quartetto. Pure lui appassionato di bluegrass ma sempre più attratto da un rock in crescita disordinata quanto entusiasmante, il chitarrista, banjoista e dulcimerista Rick Turner si univa presto alla compagnia, portando in dote un piccolo bagaglio di professionismo messo assieme con Ian & Sylvia e, da turnista, con Felix Pappalardi. Figlio d’arte Davenport, essendo il padre un musicista classico. Fratello d’arte Skip Boone, dello Steve dei Lovin’ Spoonful ed era stato lui a insegnargli i rudimenti del basso. Eclettico come i neotrovati compagni, se la cavava bene anche con il piano e se vi siete segnati la strumentazione avrete inteso che gli Autosalvage ce l’avevano nel DNA di non essere una rock band qualunque. Era Frank Zappa (eccolo!) a procurare ai ragazzi un contratto discografico e peste colga quelli così sospettosi da chiedersi perché con la RCA, quando il Baffo di Cucamonga era all’epoca domiciliato chez Verve.

Conosco un posto in alta montagna, in Svizzera, dove ci sono laghi, alberi, sentieri fra i boschi… e musica… bella musica dappertutto”: è una seducente voce femminile a profferire queste bislacche parole prima che la musica occupi il proscenio con il brano che dà il nome al gruppo e all’opera, intrecciando alquanto brillantemente Lovin’ Spoonful (ma guarda!) e Jefferson Airplane, beat e barocchismi non troppo… barocchi. Bel pezzo, ma non il più incisivo e difatti la RCA per promuovere il 33 faceva uscire a 45 giri il byrdsiano carillon Rampant Generalities, accoppiandolo ai Beatles a braccetto con i Tomorrow di Parahighway. A proposito di Fab Four: è Turner oppure Danaher a identificarsi mimeticamente con George Harrison in A Hundred Days? Pregasi suggerirla come rilettura a dei redivivi Dukes Of Stratosphear con una voglia matta, se la contraddizione in termini è consentita, di apocrifi autentici. C’è una cover, con il Leadbelly di Good Morning Blues inturgidito alla Cream, e il resto vaga senza posa fra psichedelia e vaudeville, qui del raga e là del fuzz, esageratamente in una The Great Brain Robbery da ovazioni anche solo per il titolo. Forse la mia preferita, ma dentro un album cui paradossalmente l’estrema varietà conferisce un’unitarietà spinta: da godere come un tutt’uno, senza momenti che si stacchino particolarmente.

Vendite? Insignificanti e pochi mesi dopo gli Autosalvage già non esistevano più, Boone e Davenport trasferitisi a Boston per fare da sezione ritmica a tali Bear, titolari l’anno dopo su Verve Folkways di un primo album, “Greetings, Children Of Paradise”, che come nel caso di “Autosalvage” sarà pure l’ultimo. LP se possibile ancora più sfigato di quell’altro, che quantomeno ha avuto alcune ristampe ove nessuno ha mai provveduto a riportare nei negozi i Bear. Mai neanche piratato, “Greetings…”, ed è faccenda discretamente clamorosa se si considera che dei ’60 è stato recuperato poco meno che tutto. Eppure non è affatto una schifezza, fra altri echi di Lovin’ Spoonful e dei Beatles girati country’n’western, schizzi di jazz e progressive, cantautorato da border, pop a bagno nell’LSD e un presagio di metal. Il tastierista Eric Kaz farà il percorso inverso rispetto a Boone e Davenport, raggiungendo a New York i Blues Magoos. Fra gli ex-Autosalvage l’unico a riuscire a vivere di musica sarà Turner, reinventandosi liutaio. Fra i suoi clienti più affezionati un certo Ry Cooder.

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Dell’assurdità delle playlist di fine anno

Immancabilmente il primo, Stefano Isidoro Bianchi già me l’ha chiesta a inizio mese, la dannata lista dei migliori album dell’anno secondo me. Altri lo hanno seguito a ruota e non ho potuto e non potrò esimermi. Alcuni anni fa, oltre a non esimermi accompagnai l’elenchino inviato al SIB con un breve pezzo in cui deploravo l’ormai patente assurdità del rito. Ve lo ripropongo. Nel frattempo, a), la situazione è incredibilmente, ulteriormente degenerata rispetto ad allora e, b), io ho smesso di farmene innervosire.

Mi pare fosse Groucho Marx che diceva “non vorrei mai fare parte di un club che mi accetti come socio”. Ogni tanto la penso allo stesso modo. Il club di cui ho in tasca una metaforica tessera è estremamente elitario: quello di chi in Italia scrive di rock (e più o meno estesi dintorni) non solo per passione ma per mestiere. Tolti quelli dei quotidiani, coloro che ricavano la maggior parte dei loro guadagni da contratti con la RAI o dall’attività di DJ e i direttori di giornali che sono pure editori, le persone che posso considerare colleghi stanno sulle dita di due mani. Ne avanza pure qualcuna. Siccome altro è l’argomento di questa cavata di sassi dalle scarpe, non vi tedierò diffondendomi troppo sul perché e il percome siamo così pochi. Riducendo all’osso, il motivo si chiama “mercato”. Le riviste musicali vendono poco e di conseguenza pagano poco, qualcuna perdipiù accampando balzane pretese di esclusiva sulle firme. Così i più scrivono per hobby. Soltanto chi è fortissimamente motivato riesce – se vale qualcosa  e dopo lustri di disumani sacrifici (si rinuncia a tutto, tranne che a una mostruosa collezione di dischi) – ad arrivare a guadagnare quanto basta per vivere di stenti. Capoccia dura e coglioni di marmo sono requisiti essenziali per raggiungere tale traguardo. Ma non mi lamento. Faccio un lavoro che adoro e senza muovermi da casa. Che diamine! Mi pagano per ascoltare musica, che è una cosa che farei comunque.

Sono arrivato al punto. Fino a qualche anno fa avrei detto piuttosto: “mi pagano per scrivere di musica”. Ma con l’incremento geometrico delle uscite discografiche indotto dall’avvento del CD e con la durata media di un album in costante ascesa, l’impegno più gravoso è diventato scrutinare, non commentare. Per scrivere una recensione della raccolta di remix dei Jazzanova, tanto per dire, posso metterci da uno a tre quarti d’ora, ma per ascoltarla una volta (il che naturalmente non basta per giudicarla con cognizione di causa) ho impiegato due ore e quaranta minuti. È un esempio limite? Solo se non si considera che, pur prestando la mia opera a più giornali, riesco a occuparmi sì e no del 20% di quanto distributori e case discografiche graziosamente mi spediscono (non vi dico poi quanti ne compro, di CD). E per scegliere quel 20% devo ascoltare tutto. Nei giorni in cui non esco di casa accendo lo stereo alle otto di mattina e non lo spengo prima delle dieci o delle undici di sera. Ciò nonostante, devo ammettere che non ce la faccio più a stare dietro a quanto viene pubblicato.

Ho fatto un calcolo approssimativo (per difetto): in questo 2000 sono passati sul mio impianto 1500 album nuovi (ve lo scrivo pure in lettere: millecinquecento). Troppi perché io abbia potuto metabolizzare anche soltanto quel famoso 20% di cui sopra e nel contempo troppo pochi per padroneggiare una produzione che (pur considerando soltanto gli ambiti che seguo) è cinque o sei volte tanto. Il giorno che, mettendo a posto gli ultimi quattro mesi di arrivi, ho fissato smarrito una copertina e ho realizzato che, per ricordarmi di che cazzo di disco fosse, avrei dovuto rileggermi una recensione che io avevo firmato, mi sono reso conto che il livello di guardia era stato superato. Ora, immaginatevi uno che fa il critico per sport (a “Blow Up” tutti, tranne il sottoscritto e un altro) e che quindi non può farlo che nei ritagli di tempo: quando li ascolterà lui, nell’arco di dodici mesi, quei (mettiamo) 1000 dischi? E,  a fine anno, come farà sensatamente a dire “questi sono i quindici migliori”?

Anche in altri tempi – quando ho cominciato a scrivere (era il 1983) – ho sempre considerato gli scrutini di fine anno (quando non strettamente “di genere” e fatti da superesperti del settore in questione) un’operazione nel migliore dei casi divertente, nel peggiore presuntuosa. Ma fino ai tardi ’80, impegnandosi molto, si poteva riuscire ad avere un discreto sguardo d’assieme sull’annata. Oggi è assurda e basta. Ci sono dischi che ho in casa da maggio e ai quali non ho ancora tolto il cellophane perché non dovevo recensirli e mi sono detto: “Questo lo ascolto solo per mio piacere personale, quando avrò tempo”. Non ho mai tempo. Ci sono dischi che, fidandomi di quanto scritto da altri (sulla carta parevano interessanti) e non riuscendo a trovarli, ho chiesto, proprio in previsione della maledetta incombenza che sapete, allo Stefano Isidoro. Gentilmente me li ha fatti avere. Un mese fa. Sono riuscito ad ascoltare la metà di quanto mi ha spedito. Forse uno dei miei dischi dell’anno sta fra quelli che non ce l’ho fatta a sentire. Sicuro che sta lì. Però, visto che a questo rito non ci si può sottrarre, la mia playlist l’ho compilata lo stesso. Leggetela.

Sappiate che è la mia playlist di oggi, 6 dicembre 2000. Una settimana fa sarebbe stata diversa. Fra una settimana (perché poi, chissà perché, le cose che escono a dicembre sono sempre tagliate fuori), idem. Leggetela e fatevi grasse risate. Non saranno nulla rispetto a quelle che mi farò io, incredulo per non avere considerato questo o quel titolo, fra cinque anni. O più probabilmente l’anno prossimo.

 Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.32, gennaio 2001.

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45 anni di Velvet Underground

Dallo scorso 30 ottobre è disponibile una speciale edizione “Super Deluxe” di “The Velvet Underground & Nico”. Incredibile a dirsi 1, è stata approntata per celebrare il… quarantacinquesimo anniversario della pubblicazione del più memorabile e influente esordio di sempre e di chiunque. Un’industria discografica ben oltre la disperazione non si pone insomma più alcun limite nello sfruttamento dei propri archivi: nemmeno quello del ridicolo. Incredibile a dirsi 2: per arrivare all’esorbitante numero di sei CD non ci si è accontentati di aggiungere la stampa mono dell’album, una collezione di versioni alternative e due brevi live incorniciati da due lunghe improvvisazioni. No, si è ritenuto di dovere includere nel box anche una ristampa del debutto da solista di Nico, “Chelsea Girl”. Scelta che francamente nulla giustifica, ma tant’è.

Oltre a essere curatore – secoli fa – di un volumetto Arcana loro dedicato, ho scritto diverse volte estesamente dei Velvet. Mi capitava di farlo per “Dynamo!” poco dopo la prematura scomparsa di Sterling Morrison e a settimane dall’uscita di un altro e più sensato cofanetto (il cofanetto dei Velvet Underground).

Lou Reed non si pente dell’amarezza con cui per lungo tempo ha parlato dei Velvet Underground e di come fossero stati maltrattati in vita – né si scusa per il sentimento d’orgoglio che riempie oggi lui e gli altri componenti del gruppo. ‘Mi fa sentire davvero bene’, dichiara con fermezza, ‘che la loro musica sia contemporanea come desideravamo rimanesse. La gente considerava pretenzioso il mio cercare di scrivere qualcosa che durasse negli anni. Qualcosa in grado di colpire la tua sensibilità in un modo che è senza tempo, non basato unicamente sulle ansie adolescenziali.’

Trent’anni dopo il primo spettacolo in un liceo di Summit, New Jersey, l’importanza e l’influenza dei Velvet Underground sono fatti non più oggetto di dibattito quando si parla di rock’n’roll. Ma ogni giorno c’è ancora qualcuno, da qualche parte, che ascolta per la prima volta una canzone o un album dei Velvet – e ne percepisce l’unicità. Sfidando le regole e la sorte, i Velvet Underground scelsero la maniera più lenta e difficile di cambiare il rock’n’roll: un convertito alla volta. Il gruppo non c’è più. Ma la musica è ancora qui. E la rivoluzione continua.

Sono, quelli che avete appena letto, i due paragrafi conclusivi del lungo e magnifico – agiografico, va bene: ma come non esserlo visti argomento e circostanze? – saggio che David Fricke dedica ai Velvet nel libro allegato al cofanetto di cinque CD “Peel Slowly And See”, giunto nei negozi sul principio d’autunno. E a questo punto potrei anche, dopo avergli augurato buon (ri)ascolto, congedarmi dal gentil lettore, non senza avere prima annotato che le modalità d’uso del suddetto box sono inevitabilmente diverse per fedeli di vecchia data del culto velvetiano e neofiti. I primi consumeranno avidamente non solo le registrazioni dal vivo, gli inediti, le versioni differenti di canzoni già note che aumentano considerevolmente il minutaggio dei quattro 33 giri originali dei Nostri, presentati integralmente (ci mancherebbe altro!) sul secondo, terzo, quarto e quinto compact, ma persino l’ora e un quarto di demo che sfilano sul primo CD. Demo che, oggettivamente, possono essere di un qualche interesse soltanto per filologi e matti da legare. I fans dei Velvet, spesso, di fronte all’oggetto del loro amore sono l’una e l’altra cosa: impossibile spiegare, a chi ancora non crede, il sottile fascino voyeuristico del vedere una Venus In Furs o una All Tomorrow’s Parties prendere gradualmente forma dinnanzi ai nostri occhi (alle nostre orecchie). Che le prime esecuzioni fossero tanto incerte, per niente trascendentali, aggiunge anziché togliere fascino al risultato finale. A chi non piacerebbe avere un video di Leonardo che dipinge la Gioconda? I neofiti sono invitati a mettere invece da parte quel primo dischetto e a gustarselo fra qualche anno, quando avranno non solo mandato a memoria ma metabolizzato il materiale che dei Velvet Underground ha fatto la leggenda. Si scopriranno allora anch’essi felici d’essere guardoni – ma sarebbe drammatico se per qualcuno il primo impatto con la banda Reed fosse quello con i provini del luglio ’65. Se la prima volta che avete fatto l’amore Lui/Lei si sono rifiutati di funzionare correttamente, potete afferrare la situazione.

Ecco, potrei mettere ora un punto, andare a capo, battere la firma e spegnere il PC. Ma temo che l’Esimio Direttore si inquieterebbe alquanto.

Tiro dunque innanzi, lagnandomi. Ai due lustri di quasi blackout, tolti pochi entusiasti (hello Lenny Kaye! hello Elliott Murphy! R.I.P. Lester Bangs), che vennero dietro all’opzione di Lou Reed per la carriera solistica hanno fatto seguito quindici anni in cui la bibliografia riguardante i Velvet ha assunto proporzioni adeguate all’importanza del gruppo, e quindi ormai ai limiti del maneggiabile. Dopo che decine di interviste e di articoli e un congruo numero di libri (io stesso ne curai uno per l’Arcana, nel 1990) hanno provveduto a sviscerare ogni giorno della quinquennale storia della band newyorkese e ad analizzare a fondo ogni brano conosciuto da essa messo su nastro, cosa aggiungere che non suoni pleonastico? Cosa racconti di un gruppo, dopo che ne hanno parlato persino a “Target”? (Ne hanno parlato? Boh… non credo.)

Però, però, però… a ben pensarci è talmente marcata l’influenza dei Velvet Underground sul rock odierno che, se non le loro vicende, la prospettiva dalla quale ad esse si guarda continua a mutare, senza posa. Di nuovi argomenti dunque non c’è mai carenza.

Un gruppo straordinariamente innovativo come i Velvet (solamente i Beatles sono stati altrettanto decisivi nell’evoluzione del rock) sarebbe potuto nascere solo nel decennio che di questo secolo rappresenta il Rinascimento (ove gli anni ’40 furono quelli della calata dei barbari e i ’50, dominati dal sospetto e dai dogmi, il Medioevo). Ma se degli anni ’60 Lou Reed, John Cale, Sterling Morrison e Maureen Tucker sono stati figli, ne furono anche la negazione, distopici quando il feeling prevalente era quello dell’utopia, cinici quando si invitavano i militari a mettere dei fiori nei loro cannoni, in anfetamina quando il resto del mondo consumava hashish e LSD. Prodotto del loro tempo, da esso si posero fuori. Rispetto ad esso si dichiararono contro.

Furono degli iniziatori in tutto, i Velvet Underground. Con dieci anni di anticipo gettarono, con il loro sound e ancora di più con i loro atteggiamenti, le fondamenta dell’edificio chiamato punk. Furono i primi a trasporre nel rock le lezioni dell’avanguardia colta europea. I primi ad allestire, con il mentore Andy Warhol, uno spettacolo multimediale (il leggendario “Exploding Plastic Inevitable”). I primi ad avere un pubblico in prevalenza adulto, complici la musica sovente ostica – “A volte cantano, a volte violentano gli strumenti producendosi in un unico brano di un’ora”, riferiva nell’ottobre ’66 un cronista – e soprattutto i testi iperrealistici di Lou Reed, primo autore di canzoni a dare una valenza letteraria al rock (c’era già stato Dylan, d’accordo, ma veniva dal folk). C’è da stupirsi se furono dei reietti ma nello stesso tempo conquistarono discepoli ferventi e presto epigoni? Quando Brian Eno – erano i tardi ’70 – osservò che all’epoca dell’uscita pochissimi avevano acquistato gli LP dei Velvet ma tutti quelli che l’avevano fatto avevano poi fondato un loro gruppo, sapeva di cosa stava parlando: lui aveva fondato i Roxy Music.

Estranei alla psichedelia, in particolare a quella più pretenziosa, la cui de-evoluzione portò in Europa agli orrori prog, i Velvet Underground furono antitetici non soltanto ai tardi anni ’60 ma anche alla prima metà del decennio seguente. Inevitabile che venissero presi a modello dai pochi che in quell’epoca buia (il Seicento barocco? massì) stavano all’opposizione: i Can; i Mott The Hoople e i Roxy Music; e David Bowie, che oltre a citarli in ogni intervista e a coverizzare in concerto più di un loro brano rese popolare il gioco sull’ambiguità sessuale che in mano a Lou Reed era a suo tempo sembrato insopportabilmente pericoloso. Dei Velvet Bowie fu il migliore agente pubblicitario possibile, così che quando la stagnazione creativa del rock, tenuto in ostaggio da pomposità progressive, frigidità fusion, leziosità cantautoriali, rese inevitabile quella reazione violenta che fu il punk la cerchia dei convertiti si era parecchio allargata.

Non vi fu quasi gruppo minore del punk inglese senza una o più canzoni di Lou Reed in repertorio. E non vi è nome fra quelli che hanno fatto sul serio la storia della new wave sull’una e sull’altra sponda dell’Atlantico che ai Velvet Underground non debba qualcosa: senza di loro Patti Smith, i Television, i Talking Heads, i Feelies, gli Only Ones, i Fall, i Joy Division, i Bauhaus, gli Psychedelic Furs – per non dire che di alcuni – sono semplicemente inimmaginabili. E inconcepibile, senza i Velvet, è l’esistenza di due dei tre pilastri del rock della seconda metà degli anni ’80, R.E.M. e Sonic Youth (il terzo sono gli Hüsker Dü). I primi molto hanno appreso in fatto di malinconico pop chitarristico dal terzo LP dei Nostri (che è poi quello che ha ispirato la nascita della Postcard e di conseguenza delle etichette sue epigone, Creation e Sarah in testa) e dalle canzoni cantate da Nico sul primo. I secondi hanno fatto del terroristico maelstrom di Sister Ray, il brano-cardine di “White Light White Heat”, la pietra angolare del loro sound. E se i Velvet sono stati i padrini dei Sonic Youth questi ultimi sono stati fra i numi tutelari di tanto grunge: ed eccoci arrivati ai giorni nostri.

Nel 1990 un’etichetta inglese specializzata in dischi-tributo, la Imaginary, ne confezionò uno dedicato ai nostri eroi con un cast di tutto rispetto, comprendente pure gli allora poco noti Nirvana. “Heaven And Hell” (evitate il secondo, pessimo volume) è album di qualità media più che discreta, uno dei cui vertici è rappresentato proprio dalla versione che di Here She Comes Now dà il gruppo di Seattle. Procuratevela: quei cinque minuti scarsi esplicitano come la più logorroica delle esegesi non potrebbe quanto Kurt Cobain sia stato influenzato dal primo Lou Reed.

Ho iniziato dicendomi “diomio, come farò a riempire tutte queste cartelle scrivendo ancora una volta dei Velvet?” e noto ora che lo spazio comincia a scarseggiare. Non sprecherò il poco che mi resta raccontandovi la loro storia. Potete trovarla, in pillole, in qualunque enciclopedia rock degna di tale nome. Se volete approfondire e avete buona dimestichezza con l’inglese le letture consigliate sono il già citato saggio di David Fricke e l’epocale Up-Tight di Victor Bockris e Gerard Malanga (Omnibus Press, Londra, 1983; sempre disponibile). Se con l’inglese faticate mettete mano al manuale Arcana loro dedicato (è un suggerimento che posso darvi senza che nessuno mi possa accusare di interesse privato in atti d’ufficio: che di quel volume si vendano altre dieci copie o diecimila, il sottoscritto non vedrà un centesimo).

Preferisco chiudere osservando che la storia dei Velvet Underground in più di un’occasione prese determinate svolte piuttosto che altre per sfortunate coincidenze. Cosa sarebbe accaduto – è l’interrogativo più grosso – se Brian Epstein, il quinto Beatles, non fosse morto quando aveva appena deciso di diventare il loro manager? Se una causa legale assurda non avesse fatto ritirare dai negozi l’album d’esordio quando stava per entrare nei Top 100? Se i Nostri avessero firmato da subito per la Atlantic invece che per la MGM, che non li promosse minimamente? Quando infine approdò alla Atlantic, all’altezza di “Loaded”, la band era a pezzi. Lou Reed la lasciò poco prima che il disco venisse pubblicato, vanificando così gli sforzi della nuova etichetta di lanciarlo adeguatamente (“Loaded” è l’unico LP dei Velvet a non essere mai stato messo fuori catalogo). Se i Velvet Underground non avessero trascorso la più parte della loro esistenza – tolto il periodo durante il quale furono “il gruppo di Andy Warhol” – nell’oscurità, tante altre cose sarebbero andate in maniera diversa. Chissà, forse in un mondo parallelo…

In un mondo parallelo, magari, il Destino non è stato così infame da tendere un agguato mortale a Sterling Morrison – scomparso per un linfoma lo scorso 30 agosto, alla vigilia del suo cinquantatreesimo compleanno – proprio quando il box celebrativo dell’unica band della sua vita era pronto a vedere la luce e non era più possibile inserire un necrologio nel libretto. Ulteriore, crudelissima beffa. Un attimo prima che una critica oppressa da giustificati sensi di colpa desse finalmente il dovuto risalto all’apporto creativo da lui offerto all’avventura dei Velvet, Sterling ha raggiunto Andy Warhol e Nico. Lou Reed l’ha sempre detto il migliore musicista con il quale abbia mai suonato e sono letteralmente migliaia i chitarristi che si sono formati alla sua scuola. Lui, anziché lucrare sul mito velvetiano, ha passato due decenni insegnando letteratura inglese alla University Of Texas di Austin. Il Fato sa davvero essere un bastardo. Le note di copertina scritte nel ’74 da Elliott Murphy per il doppio dal vivo “1969” suonano sempre più attuali.

I Velvet Underground devono avere spaventato un mucchio di gente. Cosa passa nella mente di una madre quando chiede alla sua figlia quindicenne ‘Come si chiama la canzone che stai ascoltando?’ e si sente rispondere ‘Eroina’? Vorrei che fossero passati cento anni e che io stessi scrivendo allora queste righe. Starei scrivendo di musica fatta da persone che sono morte. Ci sarebbero un inizio e una fine. Attualmente, non so dove si collochi quest’album… Ma spero che un giorno si insegni la storia del rock’n’roll. Spero che la musica che c’è in quest’album sia fra i capisaldi di quel corso. Spero che i genitori si spaventino ancora quando scopriranno la loro figlia ascoltare questa musica.

 Pubblicato per la prima volta su “Dynamo!”, n.12, dicembre 1995.

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The Coal Porters – Find The One (Prima)

Ci sono quattro anni fra la fine della breve quanto intensa e pregna epopea dei Long Ryders e l’inizio della vicenda apparentemente minore e in ogni caso pochissimo considerata dai media, svoltasi a oggi tutta sottotraccia, dei Coal Porters. I primi si sciolgono ufficialmente nel dicembre 1987, in rotta con una Island accusata di non averli promossi adeguatamente e avendo perso per strada nei mesi immediatamente precedenti prima il bassista Tom Stevens, quindi il chitarrista Stephen McCarthy. È un congedo amaro e dimesso, ultimo lascito l’ancora discreto ma testimone di un’ispirazione calante “Two Fisted Tales”, canto del cigno per un Paisley Underground cui i ragazzi ad ogni buon conto non sono mai appartenuti totalmente. Nessuna traccia di psichedelia, casomai uno spiritello punk più annata ’77 che non ’65, nel loro robusto country-rock in scia ai Byrds (da costoro la “y” nella ragione sociale) di “Sweetheart Of The Rodeo”, non certo a quelli di “Fifth Dimension” e poi di “Younger Than Yesterday”. Ancora più defilato rispetto alle attenzioni di una stampa che ha ben altro cui badare nell’anno di strepitosa grazia per il rock 1991 è il primo atto di una vicenda che inizialmente pare porsi in totale continuità artistica rispetto ai Long Ryders. Bravo a reinventarsi critico, mettendo così a buon frutto una notevole cultura musicale, Sid Griffin si è nel frattempo trasferito a Londra ma, in un disco cui contribuisce anche un altro ex-Long Ryders, il batterista Greg Sowders, nulla lo dice inciso all’ombra del Big Ben invece che a Los Angeles, o a Nashville. È un EP, “Rebels Without A Pause”. Il primo album vero, “Land Of Hope And Crosby”, non giunge che nel ’94, seguito l’anno dopo da “Los London” e soltanto nel ’99 da un “Gram Parsons Tribute Concert”. Da sempre cultore dell’uomo che portò i Byrds sulle strade del country, Griffin ne è divenuto il biografo.

Mai continuità parve tanto discontinua: due anni più tardi, il secondo live consecutivo, il secondo omaggio di fila a uno dei Byrds racconta dei Coal Porters nuovi di zecca e anzi il contrario, antichissimi. In “Chris Hillman Tribute Concerts” i Long Ryders non ci sono più, la strumentazione è acustica e il country inverte la sua curva evolutiva e addirittura, ricollocandosi in un’era pre-rock’n’roll, torna a farsi bluegrass. Terzo lavoro in studio del nuovo corso, “Find The One” seguita a muoversi in quel solco e qualcuno fra chi mi legge potrebbe sbadigliare: quale il senso di suonare nel 2012 una musica che le “Sun Sessions” consegnavano alla Storia e ai musei sin dal ’54? Ma io vi dico: dategli una possibilità a quest’album e sul subito vi divertirete; poi, magari, vi ci appassionerete anche. Impossibile non sorridere e soprattutto non applaudire al cospetto della clamorosa ucronia di una Heroes reinventata come se a scriverla fosse stato Bill Monroe invece che David Bowie. È un autentico colpo di genio questo che fa capolino quasi a metà scaletta, laddove l’altra cover, una Paint It Black sistemata a suggello, osa parecchio meno ancorandosi nella sostanza al raga originale. A dire “Find The One” un disco del nostro tempo, con una sua ragione di esistere in esso eguale a qualunque altro titolo possa venirvi in mente, non sono tuttavia le reinterpretazioni di due brani che hanno rispettivamente trentacinque e quarantasei anni bensì la prodigiosa freschezza di tutto il resto. Da una Never Right His Wrong di spumeggiante epicità alla serenatona al femminile Red-Eyed And Blue, da una Gospel Shore dall’incedere felino a una You Only Miss Her When She’s Gone travolgente con un sorriso. Detto con rispetto: meglio dei Mumford & Sons, i Coal Porters, ma sfortunatamente manca loro la seduzione della gioventù e allora continuerà a non filarseli nessuno. Molto più che probabilmente.

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Il coito molesto dei CCCP

Del Giovanni Lindo Ferretti odierno si può anche pensare tutto il male possibile e, per quanto mi riguarda, vado abbastanza vicino a pensarne tutto il male possibile. Nondimeno, più gli anni passano e più in prospettiva pare incommensurabile il lascito dei CCCP, più pare strepitosa l’epopea di un gruppo che quasi da solo bastò a spostare su traiettorie inedite ciò che fino a quel punto erano state musica e cultura giovanili in Italia. Un breve pezzo che scrissi per “Blow Up”, per la solita, indimenticata rubrica Destroy Babylon!.

Lo annotava già un recensore all’epoca dell’uscita: “Bisogna vederli dal vivo per poterli davvero capire”. Valeva allora, essendo stati i CCCP da subito un progetto multimediale e i loro spettacoli da sempre più rappresentazioni teatrali che concerti. Vale tanto più oggi che, con Ferretti ancora protagonista di primissimo piano della musica nostrana, la più parte di quanti lo seguono nel 1986 frequentava le elementari o poco su di lì. Mentre le memorie degli altri sbiadiscono o viceversa fabbricano Miti con raramente una ragion d’essere. Io c’ero, e se non ricordo male la copia di “Affinità-divergenze fra il compagno Togliatti e noi” – vinile rosso fiammante – che sta in questo momento girando sul Thorens la acquistai proprio a una loro serata, nemmeno affollata più di tanto considerato che erano il gruppo del momento. Mi piacque, ma ascoltandolo non potei non avvertire lo iato vistoso fra uno spettacolo di formidabile impatto in cui un tutt’altro che avvenente spogliarellista si aggirava fra carcasse di trattori, crocefissi e stendardi con falce e martello e un disco quasi elegante rispetto alla rozza, pregna aggressività di un gruppo evidentemente per la più parte di non-musicisti. In questo e non solo in questo molto ma molto punk, naturalmente in una versione emiliana “divincolantesi tra pregiati profumi d’oriente e sano sudore di muratore reggiano”, come precisò l’impagabile volantino con il quale la Attack si degnò, qualche tempo dopo l’uscita dell’album, di comunicare i titoli delle dieci canzoni in esso contenute, assenti nella confezione primigenia ed era una bella provocazione pure codesta. Mi piacque, dicevo, ma pure un po’ mi deluse e non avrebbe probabilmente potuto essere altrimenti, siccome il 7” Ortodossia e il 12” “Compagni cittadini fratelli partigiani” avevano suscitato attese che, comprendo adesso, non avrebbero potuto in alcun modo essere appieno soddisfatte.

È solo la nostalgia canaglia che me lo fa apprezzare oggi più di allora? E che ne so? Da un lato prendo atto, una volta di più, della rivoluzionarietà di un progetto che seppe disegnare una delle poche vie genuinamente italiane al rock, fors’anche l’unica, mentre nel contempo rilevo la povertà dell’impianto strumentale e il livello modesto della scrittura. Batteria elettronica, basso alla Cure (Trafitto praticamente un plagio), sventagliate di chitarre artatamente ruvide, qualche cineseria e accenni di liscio come paradossali schizzi di vetriolo sulla bella calligrafia hardcore (Valium tavor serenase esemplare). Dall’altro mi riscopro ammiratissimo da testi di sensazionale incisività:  “un’erezione, un’erezione, un’erezione triste/per un coito molesto, per un coito modesto, per un coito molesto/spermi, spermi, spermi indifferenti per ingoi indigesti” (Mi ami?); “la morte è insopportabile per chi non riesce a vivere…/produci consuma crepa/sbattiti fatti crepa” (Morire). Veri Sex Pistols + Dead Kennedys di casa nostra i CCCP, ma con un senso dell’umorismo più pungente. Punk filosovietico e musica melodica emiliana: geniale. Rispolvero un live postumo e mi imbatto nel Giovanni Lindo che canticchia a mo’ di inno un jingle di Aiazzone: geniale.

Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.49, giugno 2002.

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Non si esce vivi dagli anni ’80 (39)

Quando aprii questo blog avevo naturalmente già l’idea di affiancare a materiali nuovi ed esclusivi tanti altri tratti dai miei archivi. Davo però per scontato che non avrei ripreso nulla dell’era 1983-1990, quella pre-pc, e non solo per una questione di comodità ma anche perché convinto che la qualità di quegli scritti sia, nel contesto di una… ahem… carriera trentennale, inferiore (e non di poco) alla media successiva. Mi faceva tornare sui miei passi l’incredibile reazione suscitata dalla recensione di una riedizione “Deluxe” di “The Crossing”. Ammetterò di avere ricavato un certo perverso divertimento dalla riesumazione di roba anche discretamente imbarazzante (qualcosa però non era malaccio, via). Siamo in ogni caso agli sgoccioli, considerato che non merita recuperare rubriche e/o recensioni e visto che per nulla al mondo ritirerei fuori alcuni articoli (a memoria direi tre) che furono funestati da refusi il cui ricordo tuttora mi provoca travasi di bile.

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