Dallo scorso 30 ottobre è disponibile una speciale edizione “Super Deluxe” di “The Velvet Underground & Nico”. Incredibile a dirsi 1, è stata approntata per celebrare il… quarantacinquesimo anniversario della pubblicazione del più memorabile e influente esordio di sempre e di chiunque. Un’industria discografica ben oltre la disperazione non si pone insomma più alcun limite nello sfruttamento dei propri archivi: nemmeno quello del ridicolo. Incredibile a dirsi 2: per arrivare all’esorbitante numero di sei CD non ci si è accontentati di aggiungere la stampa mono dell’album, una collezione di versioni alternative e due brevi live incorniciati da due lunghe improvvisazioni. No, si è ritenuto di dovere includere nel box anche una ristampa del debutto da solista di Nico, “Chelsea Girl”. Scelta che francamente nulla giustifica, ma tant’è.
Oltre a essere curatore – secoli fa – di un volumetto Arcana loro dedicato, ho scritto diverse volte estesamente dei Velvet. Mi capitava di farlo per “Dynamo!” poco dopo la prematura scomparsa di Sterling Morrison e a settimane dall’uscita di un altro e più sensato cofanetto (il cofanetto dei Velvet Underground).

“Lou Reed non si pente dell’amarezza con cui per lungo tempo ha parlato dei Velvet Underground e di come fossero stati maltrattati in vita – né si scusa per il sentimento d’orgoglio che riempie oggi lui e gli altri componenti del gruppo. ‘Mi fa sentire davvero bene’, dichiara con fermezza, ‘che la loro musica sia contemporanea come desideravamo rimanesse. La gente considerava pretenzioso il mio cercare di scrivere qualcosa che durasse negli anni. Qualcosa in grado di colpire la tua sensibilità in un modo che è senza tempo, non basato unicamente sulle ansie adolescenziali.’
Trent’anni dopo il primo spettacolo in un liceo di Summit, New Jersey, l’importanza e l’influenza dei Velvet Underground sono fatti non più oggetto di dibattito quando si parla di rock’n’roll. Ma ogni giorno c’è ancora qualcuno, da qualche parte, che ascolta per la prima volta una canzone o un album dei Velvet – e ne percepisce l’unicità. Sfidando le regole e la sorte, i Velvet Underground scelsero la maniera più lenta e difficile di cambiare il rock’n’roll: un convertito alla volta. Il gruppo non c’è più. Ma la musica è ancora qui. E la rivoluzione continua.”
Sono, quelli che avete appena letto, i due paragrafi conclusivi del lungo e magnifico – agiografico, va bene: ma come non esserlo visti argomento e circostanze? – saggio che David Fricke dedica ai Velvet nel libro allegato al cofanetto di cinque CD “Peel Slowly And See”, giunto nei negozi sul principio d’autunno. E a questo punto potrei anche, dopo avergli augurato buon (ri)ascolto, congedarmi dal gentil lettore, non senza avere prima annotato che le modalità d’uso del suddetto box sono inevitabilmente diverse per fedeli di vecchia data del culto velvetiano e neofiti. I primi consumeranno avidamente non solo le registrazioni dal vivo, gli inediti, le versioni differenti di canzoni già note che aumentano considerevolmente il minutaggio dei quattro 33 giri originali dei Nostri, presentati integralmente (ci mancherebbe altro!) sul secondo, terzo, quarto e quinto compact, ma persino l’ora e un quarto di demo che sfilano sul primo CD. Demo che, oggettivamente, possono essere di un qualche interesse soltanto per filologi e matti da legare. I fans dei Velvet, spesso, di fronte all’oggetto del loro amore sono l’una e l’altra cosa: impossibile spiegare, a chi ancora non crede, il sottile fascino voyeuristico del vedere una Venus In Furs o una All Tomorrow’s Parties prendere gradualmente forma dinnanzi ai nostri occhi (alle nostre orecchie). Che le prime esecuzioni fossero tanto incerte, per niente trascendentali, aggiunge anziché togliere fascino al risultato finale. A chi non piacerebbe avere un video di Leonardo che dipinge la Gioconda? I neofiti sono invitati a mettere invece da parte quel primo dischetto e a gustarselo fra qualche anno, quando avranno non solo mandato a memoria ma metabolizzato il materiale che dei Velvet Underground ha fatto la leggenda. Si scopriranno allora anch’essi felici d’essere guardoni – ma sarebbe drammatico se per qualcuno il primo impatto con la banda Reed fosse quello con i provini del luglio ’65. Se la prima volta che avete fatto l’amore Lui/Lei si sono rifiutati di funzionare correttamente, potete afferrare la situazione.
Ecco, potrei mettere ora un punto, andare a capo, battere la firma e spegnere il PC. Ma temo che l’Esimio Direttore si inquieterebbe alquanto.
Tiro dunque innanzi, lagnandomi. Ai due lustri di quasi blackout, tolti pochi entusiasti (hello Lenny Kaye! hello Elliott Murphy! R.I.P. Lester Bangs), che vennero dietro all’opzione di Lou Reed per la carriera solistica hanno fatto seguito quindici anni in cui la bibliografia riguardante i Velvet ha assunto proporzioni adeguate all’importanza del gruppo, e quindi ormai ai limiti del maneggiabile. Dopo che decine di interviste e di articoli e un congruo numero di libri (io stesso ne curai uno per l’Arcana, nel 1990) hanno provveduto a sviscerare ogni giorno della quinquennale storia della band newyorkese e ad analizzare a fondo ogni brano conosciuto da essa messo su nastro, cosa aggiungere che non suoni pleonastico? Cosa racconti di un gruppo, dopo che ne hanno parlato persino a “Target”? (Ne hanno parlato? Boh… non credo.)
Però, però, però… a ben pensarci è talmente marcata l’influenza dei Velvet Underground sul rock odierno che, se non le loro vicende, la prospettiva dalla quale ad esse si guarda continua a mutare, senza posa. Di nuovi argomenti dunque non c’è mai carenza.
Un gruppo straordinariamente innovativo come i Velvet (solamente i Beatles sono stati altrettanto decisivi nell’evoluzione del rock) sarebbe potuto nascere solo nel decennio che di questo secolo rappresenta il Rinascimento (ove gli anni ’40 furono quelli della calata dei barbari e i ’50, dominati dal sospetto e dai dogmi, il Medioevo). Ma se degli anni ’60 Lou Reed, John Cale, Sterling Morrison e Maureen Tucker sono stati figli, ne furono anche la negazione, distopici quando il feeling prevalente era quello dell’utopia, cinici quando si invitavano i militari a mettere dei fiori nei loro cannoni, in anfetamina quando il resto del mondo consumava hashish e LSD. Prodotto del loro tempo, da esso si posero fuori. Rispetto ad esso si dichiararono contro.
Furono degli iniziatori in tutto, i Velvet Underground. Con dieci anni di anticipo gettarono, con il loro sound e ancora di più con i loro atteggiamenti, le fondamenta dell’edificio chiamato punk. Furono i primi a trasporre nel rock le lezioni dell’avanguardia colta europea. I primi ad allestire, con il mentore Andy Warhol, uno spettacolo multimediale (il leggendario “Exploding Plastic Inevitable”). I primi ad avere un pubblico in prevalenza adulto, complici la musica sovente ostica – “A volte cantano, a volte violentano gli strumenti producendosi in un unico brano di un’ora”, riferiva nell’ottobre ’66 un cronista – e soprattutto i testi iperrealistici di Lou Reed, primo autore di canzoni a dare una valenza letteraria al rock (c’era già stato Dylan, d’accordo, ma veniva dal folk). C’è da stupirsi se furono dei reietti ma nello stesso tempo conquistarono discepoli ferventi e presto epigoni? Quando Brian Eno – erano i tardi ’70 – osservò che all’epoca dell’uscita pochissimi avevano acquistato gli LP dei Velvet ma tutti quelli che l’avevano fatto avevano poi fondato un loro gruppo, sapeva di cosa stava parlando: lui aveva fondato i Roxy Music.

Estranei alla psichedelia, in particolare a quella più pretenziosa, la cui de-evoluzione portò in Europa agli orrori prog, i Velvet Underground furono antitetici non soltanto ai tardi anni ’60 ma anche alla prima metà del decennio seguente. Inevitabile che venissero presi a modello dai pochi che in quell’epoca buia (il Seicento barocco? massì) stavano all’opposizione: i Can; i Mott The Hoople e i Roxy Music; e David Bowie, che oltre a citarli in ogni intervista e a coverizzare in concerto più di un loro brano rese popolare il gioco sull’ambiguità sessuale che in mano a Lou Reed era a suo tempo sembrato insopportabilmente pericoloso. Dei Velvet Bowie fu il migliore agente pubblicitario possibile, così che quando la stagnazione creativa del rock, tenuto in ostaggio da pomposità progressive, frigidità fusion, leziosità cantautoriali, rese inevitabile quella reazione violenta che fu il punk la cerchia dei convertiti si era parecchio allargata.
Non vi fu quasi gruppo minore del punk inglese senza una o più canzoni di Lou Reed in repertorio. E non vi è nome fra quelli che hanno fatto sul serio la storia della new wave sull’una e sull’altra sponda dell’Atlantico che ai Velvet Underground non debba qualcosa: senza di loro Patti Smith, i Television, i Talking Heads, i Feelies, gli Only Ones, i Fall, i Joy Division, i Bauhaus, gli Psychedelic Furs – per non dire che di alcuni – sono semplicemente inimmaginabili. E inconcepibile, senza i Velvet, è l’esistenza di due dei tre pilastri del rock della seconda metà degli anni ’80, R.E.M. e Sonic Youth (il terzo sono gli Hüsker Dü). I primi molto hanno appreso in fatto di malinconico pop chitarristico dal terzo LP dei Nostri (che è poi quello che ha ispirato la nascita della Postcard e di conseguenza delle etichette sue epigone, Creation e Sarah in testa) e dalle canzoni cantate da Nico sul primo. I secondi hanno fatto del terroristico maelstrom di Sister Ray, il brano-cardine di “White Light White Heat”, la pietra angolare del loro sound. E se i Velvet sono stati i padrini dei Sonic Youth questi ultimi sono stati fra i numi tutelari di tanto grunge: ed eccoci arrivati ai giorni nostri.
Nel 1990 un’etichetta inglese specializzata in dischi-tributo, la Imaginary, ne confezionò uno dedicato ai nostri eroi con un cast di tutto rispetto, comprendente pure gli allora poco noti Nirvana. “Heaven And Hell” (evitate il secondo, pessimo volume) è album di qualità media più che discreta, uno dei cui vertici è rappresentato proprio dalla versione che di Here She Comes Now dà il gruppo di Seattle. Procuratevela: quei cinque minuti scarsi esplicitano come la più logorroica delle esegesi non potrebbe quanto Kurt Cobain sia stato influenzato dal primo Lou Reed.
Ho iniziato dicendomi “diomio, come farò a riempire tutte queste cartelle scrivendo ancora una volta dei Velvet?” e noto ora che lo spazio comincia a scarseggiare. Non sprecherò il poco che mi resta raccontandovi la loro storia. Potete trovarla, in pillole, in qualunque enciclopedia rock degna di tale nome. Se volete approfondire e avete buona dimestichezza con l’inglese le letture consigliate sono il già citato saggio di David Fricke e l’epocale Up-Tight di Victor Bockris e Gerard Malanga (Omnibus Press, Londra, 1983; sempre disponibile). Se con l’inglese faticate mettete mano al manuale Arcana loro dedicato (è un suggerimento che posso darvi senza che nessuno mi possa accusare di interesse privato in atti d’ufficio: che di quel volume si vendano altre dieci copie o diecimila, il sottoscritto non vedrà un centesimo).
Preferisco chiudere osservando che la storia dei Velvet Underground in più di un’occasione prese determinate svolte piuttosto che altre per sfortunate coincidenze. Cosa sarebbe accaduto – è l’interrogativo più grosso – se Brian Epstein, il quinto Beatles, non fosse morto quando aveva appena deciso di diventare il loro manager? Se una causa legale assurda non avesse fatto ritirare dai negozi l’album d’esordio quando stava per entrare nei Top 100? Se i Nostri avessero firmato da subito per la Atlantic invece che per la MGM, che non li promosse minimamente? Quando infine approdò alla Atlantic, all’altezza di “Loaded”, la band era a pezzi. Lou Reed la lasciò poco prima che il disco venisse pubblicato, vanificando così gli sforzi della nuova etichetta di lanciarlo adeguatamente (“Loaded” è l’unico LP dei Velvet a non essere mai stato messo fuori catalogo). Se i Velvet Underground non avessero trascorso la più parte della loro esistenza – tolto il periodo durante il quale furono “il gruppo di Andy Warhol” – nell’oscurità, tante altre cose sarebbero andate in maniera diversa. Chissà, forse in un mondo parallelo…
In un mondo parallelo, magari, il Destino non è stato così infame da tendere un agguato mortale a Sterling Morrison – scomparso per un linfoma lo scorso 30 agosto, alla vigilia del suo cinquantatreesimo compleanno – proprio quando il box celebrativo dell’unica band della sua vita era pronto a vedere la luce e non era più possibile inserire un necrologio nel libretto. Ulteriore, crudelissima beffa. Un attimo prima che una critica oppressa da giustificati sensi di colpa desse finalmente il dovuto risalto all’apporto creativo da lui offerto all’avventura dei Velvet, Sterling ha raggiunto Andy Warhol e Nico. Lou Reed l’ha sempre detto il migliore musicista con il quale abbia mai suonato e sono letteralmente migliaia i chitarristi che si sono formati alla sua scuola. Lui, anziché lucrare sul mito velvetiano, ha passato due decenni insegnando letteratura inglese alla University Of Texas di Austin. Il Fato sa davvero essere un bastardo. Le note di copertina scritte nel ’74 da Elliott Murphy per il doppio dal vivo “1969” suonano sempre più attuali.
“I Velvet Underground devono avere spaventato un mucchio di gente. Cosa passa nella mente di una madre quando chiede alla sua figlia quindicenne ‘Come si chiama la canzone che stai ascoltando?’ e si sente rispondere ‘Eroina’? Vorrei che fossero passati cento anni e che io stessi scrivendo allora queste righe. Starei scrivendo di musica fatta da persone che sono morte. Ci sarebbero un inizio e una fine. Attualmente, non so dove si collochi quest’album… Ma spero che un giorno si insegni la storia del rock’n’roll. Spero che la musica che c’è in quest’album sia fra i capisaldi di quel corso. Spero che i genitori si spaventino ancora quando scopriranno la loro figlia ascoltare questa musica.”
Pubblicato per la prima volta su “Dynamo!”, n.12, dicembre 1995.
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