Archivi del mese: dicembre 2012

Un anno di VMO: i 15 post più letti

15) Miles Davis 1969-1975: brodo di cagne eretico

14) Dell’assurdità delle playlist di fine anno

13) Neil Young & Crazy Horse – Psychedelic Pill (Reprise)

12)  Bruce Springsteen – Wrecking Ball (Columbia)

11) Bob Dylan – Tempest (Columbia)

10) Iggy Pop – Après (Vente Privée)

9) La dinastia dei Mingus: Charles ed Eric

8) Una piccola guida al power pop

7) I 15 migliori album del 2012 di VMO

6) 51  ragioni per le quali sono cronicamente depresso

5) Keith Richards in 39 dichiarazioni

4) Neil Young & Crazy Horse – Americana (Reprise)

3) Blowing In The Tracks – Una discografia base di Bob Dylan nel cinquantennale dell’uscita del suo primo album

2) La ‘ggente la reclama a gran voce: Sufjan Stevens – Silver & Gold (Asthmatic Kitty)

1) Non dedico tempo…

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Velvet Gallery (6)

Non so se fossimo anche belli (in realtà sì che lo so, eravamo bellissimi, ma è da voi che voglio sentirmelo dire), ma per certo a “Velvet” eravamo molto, molto poveri. Quando, all’altezza del numero 4 (gennaio 1989), decidemmo che sarebbe stata cosa buona, giusta e tempestiva dedicare una copertina ai Violent Femmes  le uniche foto degne che avevamo in mano appartenevano a una session che già era stata sfruttata dal “Mucchio” qualche mese prima. Non potendo permetterci di comprarne altre, l’alternativa era cambiare copertina oppure usarle di nuovo. Optammo per la seconda che ho detto, forse sbagliando.

Violent Femmes - Here To Stay 1

Violent Femmes - Here To Stay 2

Violent Femmes - Here To Stay 3

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La ‘ggente la reclama a gran voce: Sufjan Stevens – Silver & Gold (Asthmatic Kitty)

Sufjan Stevens - Silver & Gold

“La musica ha rotto il cazzo”, mi fa il Guglielmi al telefono e subito mi entusiasmo. “Questa te la rubo”, lo avviso, avendo infine trovato il nome giusto per un blog per il quale è da un pezzo che ho il sottotitolo: “Mi rompo i coglioni io affinché non dobbiate romperveli voi”. Lì vagheggio di sistemare stroncature di tutti i dannati dischi che mi tocca ascoltare e che non hanno giustificazione alcuna per esistere. Tutti quei fottuti dischi “carini”, con un bel suono che hai già ascoltato tre trilioni di volte e due pezzi buoni che una volta ci si sarebbe fatto un singolo e finiva lì. Tutti quei dischi che se scrivi per una rivista ti tocca essere serio e dargli due stelle perché, dai, oggettivamente mica è brutto. E intanto hai buttato via ore preziose dell’unica vita a tua disposizione. Insomma: mi trastullo qualche giorno con l’idea e poi ho un soprassalto di buonsenso e decido di lasciar perdere, ché un blog già ce l’ho e, conoscendomi, andrebbe a finire che i dischi da massacrare li ascolterei quella volta di più per massacrarli meglio e già così non vivo. Come niente “Silver & Gold” lo avrei fatto girare quelle tre volte, tutti i suoi centosessantasette minuti della minchia. Ah già… “Silver & Gold” l’ho fatto girare quelle tre volte, intero, e ogni volta già a metà del primo dei suoi cinque CD avrei voluto morire, o in alternativa scoprire cosa si prova fumando del crack.

C’è chi sostiene che Sufjan Stevens sia un genio e, che il dio delle sette note mi perdoni per questo, una volta io pure mi sono spinto a definirlo “un genietto”, eclettico come pochi mai. Basti ricordare che nell’esordio del 2000 “A Sun Came” declinava avant-folk alla Comus, nel successore “Enjoy Your Rabbit” cosmicherie alla Cluster, in “Greetings From Michigan” pop “come potrebbe Philip Glass” (parola di “Pitchfork”, mica di “Pizza e fichi”), ove in “Seven Swans” era un po’ Nick Drake e un po’ Elliott Smith. In “The BQE” il trentaquattrenne e oggi trentasettenne di Detroit passava direttamente da un pop “come potrebbe Philip Glass” a musica neo-classica “alla” Philip Glass ed era lì che mi facevo fregare e scrivevo di “un suo ‘Koyaanisqatsi’”. ’Sti qatsi! Deve essere stato a quella altezza che si è definitivamente convinto che tutto gli fosse permesso o forse no: forse ha semplicemente inteso che, in un’era di musica liquida che ha liquidato la musica in quanto oggetto con un valore commerciale, uno dei modi per sopravvivere (e lui manco esagera) è buttare fuori un disco dopo l’altro e, se ci sono anche poche migliaia di persone che li comprano tutti, ci campi. Solo che l’arte (figurarsi l’Arte) non ha più nulla a che vedere con tutto ciò. Raccolta in box ed è già la seconda (a quanto pare errare è umano, ma perseverare è divino) di cinque EP approntati nell’arco di altrettanti anni di brani di argomento natalizio, “Silver & Gold” è paradigma insuperabile di un modo estesamente affermato di vendersi nell’accezione deteriore del termine (al confronto Lady Gaga un’epitome di etica): un bell’oggetto (nel tempo della musica liquida un decisivo valore aggiunto) pieno di niente. E allora sarebbe una totale perdita di tempo e spazio, ed esercizio intellettualmente al pari disonesto, provare a nobilitarlo evocando la tradizione tutta americana  dell’album natalizio, quando poi l’unico che meriti un ascolto (tanti giganti della musica nera e persino Bob Dylan sono invece caduti: nell’imperdonabile) resta quello che approntò Phil Spector. E vale giusto a giustificare che io ci abbia perso dietro otto ore appuntare che, fra quelli che vanno considerati cinque album distinti (hanno del resto ciascuno un titolo e una copertina) giusto il terzo, “Christmas Infinity Voyage”, abbia un vago senso, una minima dignità, con le sue sperimentazioni spicciole di pop da camera e techno-wave, fra una danza spastica e uno sgretolarsi di nevrosi, una giostrina stralunata e un valzer dolente. Lasciano viceversa attoniti per la banalità i primi due, “Gloria” e “I Am Santa’s Helper” (ne cavi una Jingle Bells come fatta dai Pavement e la illbient di Eternal Happiness Or Woe: sono tre minuti) e per l’inconsistenza il quarto, “Let It Snow”. Il quinto, “Christmas Unicorn”, finisce con i 12’30” di una traccia omonima di una circolare, sfiancante ossessività che denota il disegno malvagio di questo “cristiano problematico” di farci patire l’inferno in terra, così che noi ci si penta e non si abbia a patire l’altro.

Sono le due di notte di un sabato e io sono qui a scrivere di Sufjan Stevens, quando dovrei essere in giro a cercare droghe e sesso promiscuo. Robe da persona normale. La musica ha rotto il cazzo.

Recensione scritta per “Il Mucchio”, n.701, nella notte fra il 17 e il 18 novembre 2012. Mai pubblicata.

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Blow Up n.176

Blow Up 176

È in edicola il numero 176 di “Blow Up”. Include fra il resto mie recensioni degli ultimi album di Viv Albertine, The Herbaliser, Nico Muhly, A.C. Newman, Graham Parker, Primevals, Taken By Trees, Jimi Tenor e Walkabouts e di tre recenti ristampe di Mickey Newbury.

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I 15 migliori album del 2012 di VMO

Bobby Womack - The Bravest Man In The Universe

15) Bobby Womack – The Bravest Man In The Universe (XL)

Alabama Shakes - Boys & Girls

14) Alabama Shakes – Boys & Girls (ATO)

Om - Advaitic Songs

13) Om – Advaitic Songs (Drag City)

PiL - This Is PiL

12) PiL – This Is PiL (PiL Official Limited)

Bob Mould - Silver Age

11) Bob Mould – Silver Age (Merge)

Liars - WIXIW

10) Liars – WIXIW (Mute)

Cody ChesnuTT - Landing On A Hundred

9) Cody ChesnuTT – Landing On A Hundred (One Little Indian)

Neil Young & Crazy Horse - Psychedelic Pill

8) Neil Young & Crazy Horse – Psychedelic Pill (Reprise)

Dr. John - Locked Down

7) Dr. John – Locked Down (Nonesuch)

Earth - Angels Of Darkness, Demons Of Light II

6) Earth – Angels Of Darkness, Demons Of Light II (Southern Lord)

Bill Fay - Life Is People

5) Bill Fay – Life Is People (Dead Oceans)

Leonard Cohen - Old Ideas (Columbia)

4) Leonard Cohen – Old Ideas (Columbia)

Patti Smith - Banga

3) Patti Smith – Banga (Columbia)

Swans - The Seer (Young God)

2) Swans – The Seer (Young God)

Godspeed You! Black Emperor - 'Allelujah! Don't Bend! Ascend!

1)  Godspeed You! Black Emperor – Allelujah! Don’t Bend! Ascend! (Constellation)

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Velvet Gallery (5)

C’è chi ha scoperto gli Screaming Trees nel 2012: meglio tardi che mai.  C’è chi nel gennaio 1989 (e non era la prima volta che ne scriveva)  già dedicava un articolo ai Soundgarden, precedendo (tanto per non fare nomi) “New Musical Express”, “Spin”, “Rolling Stone”… In ogni caso: non sembra anche a voi che i gruppi emergenti non siano più quelli di una volta?

Soundgarden - Hammer Of Gods 1

Soundgarden - Hammer Of Gods 2

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A Christmas Gift For You

Dall’unico album natalizio che valga davvero la pena di avere in casa…

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Non dedico tempo…

…a chi non ha rispetto, a chi è falso, è vile… e non ha stile. A chi non va mai in fondo alle scelte che fa (se ne fa), a chi è custode del ghetto in cui sta.  Perché come sempre è una questione di stile, di chi ce l’ha, di chi non ce l’ha.

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Velvet Gallery (4)

In Gran Bretagna credo che solo i Fairport Convention dell’anno magico e tragico 1969 siano riusciti a unire un rock di ascendenza inequivocabilmente americana alla tradizione folk locale con la naturalezza, la grazia, la forza, la poesia dei Waterboys di un inavvicinabile (e difatti mai avvicinato) “Fisherman’s Blues”.

The Big Music - The Waterboys 1

The Big Music - The Waterboys 2

The Big Music - The Waterboys 3

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Clash! Il rock sulle barricate (Per Joe Strummer, 1952-2002)

Dieci anni fa a oggi moriva l’uomo senza il quale non mi sarei mai incamminato sulla strada che mi ha portato, fra una tappa e l’altra, anche qui. Ho scritto tante volte dei Clash e dunque, per ripescare qualcosa negli archivi, non ho avuto che l’imbarazzo della scelta.

Joe Strummer

1. Un po’ di numeri… Per sette anni quasi esatti – dal 29 agosto 1976, data della loro prima esibizione dal vivo, ai primi di settembre del 1983, quando uno scarno comunicato stampa annunciò che Mick Jones non faceva più parte del gruppo – i Clash sono stati la migliore rock’n’roll band del pianeta e, insieme, molto più che una semplice rock’n’roll band: un mito; un modello a cui rifarsi; la rappresentazione più irresistibilmente cinematografica che mai il rock abbia dato di sé. Ma… Fra un anno e mezzo ne saranno dunque trascorsi venti dall’atto costitutivo dello Scontro e quasi dieci sono passati da quando Strummer comprese l’errore commesso scegliendo, fra Bernie Rhodes e Mick Jones, Rhodes e giustiziò quel replicante che per un biennio si era chiamato Clash senza esserlo. Volendo essere puntigliosi, ormai tre anni sono scivolati via anche da quando, galeotto lo spot dei soliti jeans, i Clash colsero il loro successo commerciale più grande. Con Should I Stay Or Should I Go nelle zone alte delle classifiche di mezzo mondo, la banda Strummer/Jones fu definitivamente ammessa, dopo lunga anticamera, nel pantheon degli eroi del rock e, nel contempo, consegnata alla Storia.

Ha allora un senso scriverne oggi, 1995, su un giornale di musica che, fisiologicamente, tende a occuparsi di attualità?

2. Uno spunto di attualità ci sarebbe anche: poco prima di Natale Mick Jones ha dato notizie di sé, dopo tre anni di silenzio, spedendo nei negozi “High Power”, primo album della sua (semi)nuova creatura, i Big Audio. Meglio sarebbe stato se avesse seguitato a tacere. “High Power” è un disco scialbo sotto il profilo della vena compositiva e anacronistico nei suoni. Partire da lì darebbe a questo articolo un’aurea troppo nostalgica. Fingeremo quindi che non esista e diremo che non c’è bisogno alcuno di uno spunto di attualità per narrare dei Clash, perché sono più attuali che mai e la loro influenza (non si sta ovviamente parlando di inutili riproposizioni del loro sound – quale poi? quello del ’77? del ’79? o dell’80?) è presente ovunque, nel rock e non solo.

Perché i Clash, oltre a essere la migliore rock’n’roll band al mondo, sono anche stati, cammin facendo, il primo gruppo post-rock: il primo, cioé, a negare la centralità del rock (un’idea figlia della presunzione eurocentrica) e a considerarlo non la musica popolare della seconda metà del XX secolo ma una delle tante musiche popolari. Prima di loro, il rock era una faccenda a compartimenti stagni, ove i vari sottogeneri raramente interagivano e i fruitori si dividevano in tribù da stadio. Dopo, non solo ogni commistione interna al genere sarà lecita ma diverrà pratica non più tabù cercare contatto/contaminazione con tutte le musiche nere possibili – non soltanto il blues, il soul e il rhythm’n’blues, già metabolizzati: anche funky, disco, reggae, rap (mentre i critici nostrani liquidavano il rap come una novelty, i Clash si immergevano nella cultura che lo aveva prodotto) – e la musica latina. Se non arrivarono a confrontarsi con l’Asia (ma in “Combat Rock” vi è qualche avance) e l’elettronica sarà giusto perché mancherà loro il tempo.

Un’angolazione interessante da cui osservare il “caso Clash” è appunto questa: un gruppo all’avanguardia. L’attitudine al crossover, da loro lanciata, ha informato di sé tutta la seconda metà dello scorso decennio ed è oggi tanto diffusa da passare inosservata. Una band come i Rage Against The Machine – che mette insieme granitici riff di chitarra hard, un basso schizoidamente funky e inchioda al tutto un rapping serrato (e, en passant, un’immagine e testi barricaderi discendenti in tutto e per tutto dai Clash) – è assolutamente normale adesso. Prima di “Sandinista!”, sarebbe stata inconcepibile.

I Clash furono fra gli iniziatori e gli eroi del punk e allo spirito del ’77 rimasero sempre fedeli nell’unico modo intelligente possibile: mettendone da parte la lettera. Tanti li tacciarono di tradimento per questo. Sulle loro (metaforiche) pietre tombali andrebbe inciso, a mo’ di epitaffio, il verso più incisivo mai scritto da Joe Strummer: “He who fuck nuns will later join the church”.

The Clash

3. Se non è l’album più bello prodotto dal punk AD 1977 – titolo che spetta (per chi scrive) a “(I’m) Stranded” dei Saints – né è quello che produsse l’impatto maggiore – nulla avrebbe potuto superare i Sex Pistols di “Never Mind The Bollocks” – l’omonimo esordio a 33 giri dei Clash è però il lavoro che con maggiore fedeltà fotografò quell’anno memorabile. Fin dalla copertina – con Simonon, Strummer e Jones immortalati in un livido scatto su sfondo post-industriale sul davanti e una carica di polizia sul retro, con i titoli delle canzoni e i nomi dei musicisti impressi in caratteri da macchina da scrivere – “The Clash” (aprile 1977) ha l’aria del bollettino dal fronte. Nei solchi, ritmi marziali, chitarre usate come mitra, cori innodici, testi rabbiosi che solamente il sarcasmo salva dalla disperazione. Si scorra l’elenco dei titoli: Sono così stufo degli U.S.A., Sommossa bianca, Odio e guerra, Londra brucia, Opportunità di carriera, Polizia e ladri. Ove i Pistols ebbero alla Gran Bretagna del Giubileo un approccio, sotto la patina nichilista, situazionista e distaccato, i Clash ne fecero un reportage assai più proletario e dalla prima linea. Il loro debutto suona tuttora impressionantemente crudo, a dispetto del fatto che sin dal principio la ditta Strummer/Jones si dimostrò generosa di seduzioni melodiche e ritornelli a presa rapida.

Unico attimo di requie, musicalmente, il lungo reggae di Police And Thieves, la canzone di Junior Murvin che era stata la colonna sonora dei disordini al Carnevale di Notting Hill nell’agosto dell’anno prima. Avvisaglia carica di pathos della stupenda confusione stilistica che caratterizzerà, da lì a due anni e mezzo, casa Clash.

Di questa confusione scarse sono le tracce in “Give ‘Em Enough Rope” (novembre 1978), dove piuttosto sono confusi i suoni e un poco anche le idee. La produzione di Sandy Pearlman non giovò, troppo levigandoli, a brani che erano perdipiù, complessivamente, di una spanna inferiori alla media del precedente LP. Però: il trittico iniziale, Safe European Home/English Civil War/Tommy Gun, è ai livelli delle pagine migliori dei Nostri; Stay Free è la canzone più commovente che Jones abbia mai scritto; Topper Headon, che aveva sostituito Terry Chimes alla batteria, dimostrò di essersi bene inserito; infine, il perfezionismo di Pearlman fece dei Clash una squadra straordinariamente compatta, qualità di cui i Nostri si avvarranno alla grande in seguito. E per tutti questi motivi liquidare come fallimentare l’album in questione è un errore.

Ma che salto mozzafiato ci fu da lì a “London Calling” (dicembre 1979)! Nelle sue quattro facciate c’è il migliore riassunto mai redatto dei primi venticinque anni di vita del rock: ci sono rockabilly (Brand New Cadillac) e swing (Jimmy Jazz), beat (I’m Not Down) e musica latina (Spanish Bombs), reggae (The Guns Of Brixton, Lover’s Rock, Revolution Rock) e ska (Rudie Can’t Fail, Wrong ‘Em Boyo), la Detroit del ’69 (la title-track e Four Horsemen) e la Londra del ’77 (Hateful, Clampdown, Death Or Glory, Koka Kola). Ci sono Elvis e Chuck Berry, gli Stones e i Beatles, Springsteen, il punk, il soul. C’è soprattutto, al di là di un livello compositivo stellare e dello sfoggio enciclopedico di versatilità, una tensione ideale fortissima, una fede nella forza redentrice della musica cui i Clash un po’ cinici degli esordi si erano convertiti canzone dopo canzone, concerto dopo concerto. Chiamatelo “Preferisco vivere”, chiamatelo “Penso positivo”, chiamatelo “L’ottimismo della volontà contro il pessimismo della ragione”: fatto è che i Clash di “London Calling” credevano sinceramente che, parafrasando Guccini, “a canzoni si fan rivoluzioni e si può far poesia”. Ingenui, sì, ma uscisse un disco siffatto al mese forse il mondo si potrebbe davvero rovesciare.

Tanta era la fiducia nei propri mezzi che nutrivano Strummer, Jones, Simonon e Headon, e tale l’ardore creativo che li divorava, che a un anno esatto da un LP doppio ne licenziarono uno triplo e persino più ambizioso. Se “London Calling” aveva sintetizzato la storia del rock, “Sandinista!” ne proponeva il superamento dissolvendolo in un policromo tessuto musicale ove si confondeva – componente non solo non più unica ma nemmeno più dominante – con musiche esterne al suo tradizionale e pur ampio perimetro ispirativo. In questo album monumentale convivono rockabilly e punk, reggae e funky, soul, disco, jazz, errebì, gospel, country, calypso, salsa. Alla sua uscita pochi se ne dissero entusiasti e i più manifestarono perplessità. o peggio. Riascoltato oggi “Sandinista!” (che pure non è esente da difetti: una maggiore concisione gli avrebbe giovato) appare un vero e proprio manifesto programmatico della musica degli anni ’80 e della prima metà dei ’90: il che – ne converrete – guardando la data di uscita è invero straordinario.

Quanto a “Combat Rock” (maggio 1982), concentrò in due lati ciò che il precedente lavoro aveva disseminato in sei. È un disco erratico eppure bellissimo, con più dubbi che certezze, qualche brano capolavoro (Should I Stay Or Should I Go, Overpowered By Funk, Death Is A Star), qualcuno ruffiano il giusto (l’hit Rock The Casbah) e altri che, se non sono del tutto riusciti, esibiscono però un coraggio che li fa comunque apprezzare. Ma nel momento in cui arrivavano in cima al mondo e coglievano i frutti del loro lavoro (avevano pagato di tasca loro, i Nostri, per far sì che i due album precedenti – l’uno doppio, l’altro triplo – venissero venduti al prezzo di un disco solo), i Clash giungevano anche in fondo alla loro strada, bruciati dal troppo tempo trascorso “on the road” e da quella stessa frenesia di creare – e vivere – che aveva fruttato in sei anni circa centoventi brani, distribuiti su cinque LP e una marea di 45 giri.

Headon, alle prese con problemi di droga e sentendosi emarginato, lascerà prima ancora che “Combat Rock” venga portato in tour (lo rileverà il redivivo Chimes). E nell’estate dell’anno seguente, il manager Bernie Rhodes coronerà anni di intrighi convincendo Strummer e Simonon a silurare Jones. Divorziava così la coppia di autori rock, con Lennon/McCartney e Jagger/Richards, meglio assortita di sempre.

Dell’unico prodotto dei Clash seconda maniera, “Cut The Crap”, non vale la pena di dire altro se non che Strummer lo rinnegò appena uscito, accusando Rhodes di averlo remixato a sua insaputa. Ma nessun esercizio sui cursori del mixer potrebbe salvare canzoni tanto scadenti.

4. Grandi canzoni, grandi album: fossero stati soltanto questo, i Clash, già sarebbe bastato a farli passare alla Storia. Ma furono molto di più e a motivo di ciò chi è stato testimone, passo dopo passo, della loro epopea non può non ricordarli con un affetto e una stima particolari: furono la magnifica illusione (quanto punk!) che la musica potesse cambiare il mondo. Per qualche anno, ci credettero con un’intensità tale che avrebbero quasi potuto farcela. E in fondo, in un certo qual modo, ce la fecero. “Se credi in quello che fai con la passione con cui ci credevamo noi, qualcosa ottieni: se non altro, che qualcuno ti ascolti e cambi la sua vita, il suo modo di pensare”, ricordava Mick Jones qualche anno fa.

E poi era bellissima la loro immagine barricadera! Il presentarsi, e pensarsi, come una banda di guerriglieri, e le pseudo-uniformi (hello, Public Enemy!), e quel modo di vivere la vita come fosse un film (non lo è?). Se mai c’è stato un rock “di sinistra” – una sinistra, più che ideologica, romantica – i Clash ne sono stati i cantori più credibili. Avevano cuore e stile.

5. Strummer non fa un album dall’89 e Jones – che ha evidentemente bisogno, per rendere al meglio, di lavorare con partner, non con gregari – è una figura irrimediabilmente di secondo piano nel panorama musicale odierno. Simonon dipinge. Headon – pare – fa il tassista. La tentazione di una rimpatriata potrebbe farsi forte. La speranza è che non ci sia mai: i Clash furono figli di un tempo e circostanze particolari e oggi non potrebbero essere che la cover band di loro stessi. Una contraddizione vivente, loro che guardarono sempre avanti, mai indietro. Un malinconico jukebox, nulla più.

Se Strummer e Jones torneranno a comporre insieme (il che potrebbe non essere una cattiva idea), che usino un altro nome. Le leggende meritano rispetto, da parte di chi ne fu l’artefice più che da chiunque altro.

Pubblicato per la prima volta su “Dynamo!”, n.4, febbraio 1995.

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