Dieci anni fa a oggi moriva l’uomo senza il quale non mi sarei mai incamminato sulla strada che mi ha portato, fra una tappa e l’altra, anche qui. Ho scritto tante volte dei Clash e dunque, per ripescare qualcosa negli archivi, non ho avuto che l’imbarazzo della scelta.

1. Un po’ di numeri… Per sette anni quasi esatti – dal 29 agosto 1976, data della loro prima esibizione dal vivo, ai primi di settembre del 1983, quando uno scarno comunicato stampa annunciò che Mick Jones non faceva più parte del gruppo – i Clash sono stati la migliore rock’n’roll band del pianeta e, insieme, molto più che una semplice rock’n’roll band: un mito; un modello a cui rifarsi; la rappresentazione più irresistibilmente cinematografica che mai il rock abbia dato di sé. Ma… Fra un anno e mezzo ne saranno dunque trascorsi venti dall’atto costitutivo dello Scontro e quasi dieci sono passati da quando Strummer comprese l’errore commesso scegliendo, fra Bernie Rhodes e Mick Jones, Rhodes e giustiziò quel replicante che per un biennio si era chiamato Clash senza esserlo. Volendo essere puntigliosi, ormai tre anni sono scivolati via anche da quando, galeotto lo spot dei soliti jeans, i Clash colsero il loro successo commerciale più grande. Con Should I Stay Or Should I Go nelle zone alte delle classifiche di mezzo mondo, la banda Strummer/Jones fu definitivamente ammessa, dopo lunga anticamera, nel pantheon degli eroi del rock e, nel contempo, consegnata alla Storia.
Ha allora un senso scriverne oggi, 1995, su un giornale di musica che, fisiologicamente, tende a occuparsi di attualità?
2. Uno spunto di attualità ci sarebbe anche: poco prima di Natale Mick Jones ha dato notizie di sé, dopo tre anni di silenzio, spedendo nei negozi “High Power”, primo album della sua (semi)nuova creatura, i Big Audio. Meglio sarebbe stato se avesse seguitato a tacere. “High Power” è un disco scialbo sotto il profilo della vena compositiva e anacronistico nei suoni. Partire da lì darebbe a questo articolo un’aurea troppo nostalgica. Fingeremo quindi che non esista e diremo che non c’è bisogno alcuno di uno spunto di attualità per narrare dei Clash, perché sono più attuali che mai e la loro influenza (non si sta ovviamente parlando di inutili riproposizioni del loro sound – quale poi? quello del ’77? del ’79? o dell’80?) è presente ovunque, nel rock e non solo.
Perché i Clash, oltre a essere la migliore rock’n’roll band al mondo, sono anche stati, cammin facendo, il primo gruppo post-rock: il primo, cioé, a negare la centralità del rock (un’idea figlia della presunzione eurocentrica) e a considerarlo non la musica popolare della seconda metà del XX secolo ma una delle tante musiche popolari. Prima di loro, il rock era una faccenda a compartimenti stagni, ove i vari sottogeneri raramente interagivano e i fruitori si dividevano in tribù da stadio. Dopo, non solo ogni commistione interna al genere sarà lecita ma diverrà pratica non più tabù cercare contatto/contaminazione con tutte le musiche nere possibili – non soltanto il blues, il soul e il rhythm’n’blues, già metabolizzati: anche funky, disco, reggae, rap (mentre i critici nostrani liquidavano il rap come una novelty, i Clash si immergevano nella cultura che lo aveva prodotto) – e la musica latina. Se non arrivarono a confrontarsi con l’Asia (ma in “Combat Rock” vi è qualche avance) e l’elettronica sarà giusto perché mancherà loro il tempo.
Un’angolazione interessante da cui osservare il “caso Clash” è appunto questa: un gruppo all’avanguardia. L’attitudine al crossover, da loro lanciata, ha informato di sé tutta la seconda metà dello scorso decennio ed è oggi tanto diffusa da passare inosservata. Una band come i Rage Against The Machine – che mette insieme granitici riff di chitarra hard, un basso schizoidamente funky e inchioda al tutto un rapping serrato (e, en passant, un’immagine e testi barricaderi discendenti in tutto e per tutto dai Clash) – è assolutamente normale adesso. Prima di “Sandinista!”, sarebbe stata inconcepibile.
I Clash furono fra gli iniziatori e gli eroi del punk e allo spirito del ’77 rimasero sempre fedeli nell’unico modo intelligente possibile: mettendone da parte la lettera. Tanti li tacciarono di tradimento per questo. Sulle loro (metaforiche) pietre tombali andrebbe inciso, a mo’ di epitaffio, il verso più incisivo mai scritto da Joe Strummer: “He who fuck nuns will later join the church”.

3. Se non è l’album più bello prodotto dal punk AD 1977 – titolo che spetta (per chi scrive) a “(I’m) Stranded” dei Saints – né è quello che produsse l’impatto maggiore – nulla avrebbe potuto superare i Sex Pistols di “Never Mind The Bollocks” – l’omonimo esordio a 33 giri dei Clash è però il lavoro che con maggiore fedeltà fotografò quell’anno memorabile. Fin dalla copertina – con Simonon, Strummer e Jones immortalati in un livido scatto su sfondo post-industriale sul davanti e una carica di polizia sul retro, con i titoli delle canzoni e i nomi dei musicisti impressi in caratteri da macchina da scrivere – “The Clash” (aprile 1977) ha l’aria del bollettino dal fronte. Nei solchi, ritmi marziali, chitarre usate come mitra, cori innodici, testi rabbiosi che solamente il sarcasmo salva dalla disperazione. Si scorra l’elenco dei titoli: Sono così stufo degli U.S.A., Sommossa bianca, Odio e guerra, Londra brucia, Opportunità di carriera, Polizia e ladri. Ove i Pistols ebbero alla Gran Bretagna del Giubileo un approccio, sotto la patina nichilista, situazionista e distaccato, i Clash ne fecero un reportage assai più proletario e dalla prima linea. Il loro debutto suona tuttora impressionantemente crudo, a dispetto del fatto che sin dal principio la ditta Strummer/Jones si dimostrò generosa di seduzioni melodiche e ritornelli a presa rapida.
Unico attimo di requie, musicalmente, il lungo reggae di Police And Thieves, la canzone di Junior Murvin che era stata la colonna sonora dei disordini al Carnevale di Notting Hill nell’agosto dell’anno prima. Avvisaglia carica di pathos della stupenda confusione stilistica che caratterizzerà, da lì a due anni e mezzo, casa Clash.
Di questa confusione scarse sono le tracce in “Give ‘Em Enough Rope” (novembre 1978), dove piuttosto sono confusi i suoni e un poco anche le idee. La produzione di Sandy Pearlman non giovò, troppo levigandoli, a brani che erano perdipiù, complessivamente, di una spanna inferiori alla media del precedente LP. Però: il trittico iniziale, Safe European Home/English Civil War/Tommy Gun, è ai livelli delle pagine migliori dei Nostri; Stay Free è la canzone più commovente che Jones abbia mai scritto; Topper Headon, che aveva sostituito Terry Chimes alla batteria, dimostrò di essersi bene inserito; infine, il perfezionismo di Pearlman fece dei Clash una squadra straordinariamente compatta, qualità di cui i Nostri si avvarranno alla grande in seguito. E per tutti questi motivi liquidare come fallimentare l’album in questione è un errore.
Ma che salto mozzafiato ci fu da lì a “London Calling” (dicembre 1979)! Nelle sue quattro facciate c’è il migliore riassunto mai redatto dei primi venticinque anni di vita del rock: ci sono rockabilly (Brand New Cadillac) e swing (Jimmy Jazz), beat (I’m Not Down) e musica latina (Spanish Bombs), reggae (The Guns Of Brixton, Lover’s Rock, Revolution Rock) e ska (Rudie Can’t Fail, Wrong ‘Em Boyo), la Detroit del ’69 (la title-track e Four Horsemen) e la Londra del ’77 (Hateful, Clampdown, Death Or Glory, Koka Kola). Ci sono Elvis e Chuck Berry, gli Stones e i Beatles, Springsteen, il punk, il soul. C’è soprattutto, al di là di un livello compositivo stellare e dello sfoggio enciclopedico di versatilità, una tensione ideale fortissima, una fede nella forza redentrice della musica cui i Clash un po’ cinici degli esordi si erano convertiti canzone dopo canzone, concerto dopo concerto. Chiamatelo “Preferisco vivere”, chiamatelo “Penso positivo”, chiamatelo “L’ottimismo della volontà contro il pessimismo della ragione”: fatto è che i Clash di “London Calling” credevano sinceramente che, parafrasando Guccini, “a canzoni si fan rivoluzioni e si può far poesia”. Ingenui, sì, ma uscisse un disco siffatto al mese forse il mondo si potrebbe davvero rovesciare.
Tanta era la fiducia nei propri mezzi che nutrivano Strummer, Jones, Simonon e Headon, e tale l’ardore creativo che li divorava, che a un anno esatto da un LP doppio ne licenziarono uno triplo e persino più ambizioso. Se “London Calling” aveva sintetizzato la storia del rock, “Sandinista!” ne proponeva il superamento dissolvendolo in un policromo tessuto musicale ove si confondeva – componente non solo non più unica ma nemmeno più dominante – con musiche esterne al suo tradizionale e pur ampio perimetro ispirativo. In questo album monumentale convivono rockabilly e punk, reggae e funky, soul, disco, jazz, errebì, gospel, country, calypso, salsa. Alla sua uscita pochi se ne dissero entusiasti e i più manifestarono perplessità. o peggio. Riascoltato oggi “Sandinista!” (che pure non è esente da difetti: una maggiore concisione gli avrebbe giovato) appare un vero e proprio manifesto programmatico della musica degli anni ’80 e della prima metà dei ’90: il che – ne converrete – guardando la data di uscita è invero straordinario.
Quanto a “Combat Rock” (maggio 1982), concentrò in due lati ciò che il precedente lavoro aveva disseminato in sei. È un disco erratico eppure bellissimo, con più dubbi che certezze, qualche brano capolavoro (Should I Stay Or Should I Go, Overpowered By Funk, Death Is A Star), qualcuno ruffiano il giusto (l’hit Rock The Casbah) e altri che, se non sono del tutto riusciti, esibiscono però un coraggio che li fa comunque apprezzare. Ma nel momento in cui arrivavano in cima al mondo e coglievano i frutti del loro lavoro (avevano pagato di tasca loro, i Nostri, per far sì che i due album precedenti – l’uno doppio, l’altro triplo – venissero venduti al prezzo di un disco solo), i Clash giungevano anche in fondo alla loro strada, bruciati dal troppo tempo trascorso “on the road” e da quella stessa frenesia di creare – e vivere – che aveva fruttato in sei anni circa centoventi brani, distribuiti su cinque LP e una marea di 45 giri.
Headon, alle prese con problemi di droga e sentendosi emarginato, lascerà prima ancora che “Combat Rock” venga portato in tour (lo rileverà il redivivo Chimes). E nell’estate dell’anno seguente, il manager Bernie Rhodes coronerà anni di intrighi convincendo Strummer e Simonon a silurare Jones. Divorziava così la coppia di autori rock, con Lennon/McCartney e Jagger/Richards, meglio assortita di sempre.
Dell’unico prodotto dei Clash seconda maniera, “Cut The Crap”, non vale la pena di dire altro se non che Strummer lo rinnegò appena uscito, accusando Rhodes di averlo remixato a sua insaputa. Ma nessun esercizio sui cursori del mixer potrebbe salvare canzoni tanto scadenti.
4. Grandi canzoni, grandi album: fossero stati soltanto questo, i Clash, già sarebbe bastato a farli passare alla Storia. Ma furono molto di più e a motivo di ciò chi è stato testimone, passo dopo passo, della loro epopea non può non ricordarli con un affetto e una stima particolari: furono la magnifica illusione (quanto punk!) che la musica potesse cambiare il mondo. Per qualche anno, ci credettero con un’intensità tale che avrebbero quasi potuto farcela. E in fondo, in un certo qual modo, ce la fecero. “Se credi in quello che fai con la passione con cui ci credevamo noi, qualcosa ottieni: se non altro, che qualcuno ti ascolti e cambi la sua vita, il suo modo di pensare”, ricordava Mick Jones qualche anno fa.
E poi era bellissima la loro immagine barricadera! Il presentarsi, e pensarsi, come una banda di guerriglieri, e le pseudo-uniformi (hello, Public Enemy!), e quel modo di vivere la vita come fosse un film (non lo è?). Se mai c’è stato un rock “di sinistra” – una sinistra, più che ideologica, romantica – i Clash ne sono stati i cantori più credibili. Avevano cuore e stile.
5. Strummer non fa un album dall’89 e Jones – che ha evidentemente bisogno, per rendere al meglio, di lavorare con partner, non con gregari – è una figura irrimediabilmente di secondo piano nel panorama musicale odierno. Simonon dipinge. Headon – pare – fa il tassista. La tentazione di una rimpatriata potrebbe farsi forte. La speranza è che non ci sia mai: i Clash furono figli di un tempo e circostanze particolari e oggi non potrebbero essere che la cover band di loro stessi. Una contraddizione vivente, loro che guardarono sempre avanti, mai indietro. Un malinconico jukebox, nulla più.
Se Strummer e Jones torneranno a comporre insieme (il che potrebbe non essere una cattiva idea), che usino un altro nome. Le leggende meritano rispetto, da parte di chi ne fu l’artefice più che da chiunque altro.
Pubblicato per la prima volta su “Dynamo!”, n.4, febbraio 1995.
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