Archivi del mese: dicembre 2012

Di un’ancora abbastanza giovane Gioventù Sonica

Mi è capitato più di una volta di stroncare pesantemente questo o quel disco sperimentale dei Sonic Youth. Li ho sempre preferiti, i Nuovayorkesi, quando declinavano rock. Di norma fragoroso, molto spesso abrasivo, ma pur sempre rock. A memoria, questa fu l’unica volta in cui fui piuttosto critico nei confronti di uno dei loro album regolari.

Sonic Youth

È in circolazione da qualche tempo un nuovo album dei Sonic Youth, il nono non contando mini e live, il quarto del contratto Geffen. Si chiama “Washing Machine”, ha una copertina (di gusto vagamente warholiano) deliziosa e per quei pochi che ancora si ostinano a preferire il vinile ai dischetti digitali è doppio, come i due lavori chiave della quindicennale storia della Gioventù Sonica newyorkese, “Daydream Nation” e “Dirty”. A suo modo, potrebbe rivelarsi un disco-chiave anch’esso. Chi ha optato per il vinile si gusterà maggiormente le numerose foto che illustrano la vita domestica della coppia Moore-Gordon e, munendosi di lente d’ingrandimento e santa pazienza, potrà dilettarsi a identificare un po’ di titoli fra i dischi che affollano uno scorcio di scaffalatura di casa Moore immortalato sulla busta del primo LP. Un assortimento ben poco “rock” nel suo eclettismo: Robert Johnson, gli Half Japanese ultrasperimentali degli esordi, John Cage, Brian Eno con Fripp, Albert Ayler, dei quartetti d’archi. In posizione quasi centrale, il cofanetto degli “Indian Tapes” del nostro Andrea Centazzo, pescato il cielo sa dove. Le annotazioni positive su “Washing Machine” possono finire qui. Sorpresi?

L’impressione che qualcosa non andasse chi scrive l’ha avuta sin dal primo ascolto, quando si è ritrovato un paio di volte ad alzare il volume, fenomeno inedito per un gruppo con il quale, per amor di pace condominiale, aveva sempre dovuto smorzarlo. La prima sensazione è stata dunque che al suono dei Sonic Youth difettassero stavolta quella urticante potenza e quella stratificazione di elementi da individuare e esplorare uno alla volta che hanno fatto il tossico fascino della loro discografia anche dopo “Daydream Nation”. La Lavatrice youthiana produce oggi un rumore di fondo bi-(in luogo che tri) dimensionale, monotono piuttosto che minimale. Poco interessante. Potrebbe non essere un guaio irrimediabile non fosse avaro, “Washing Machine”, anche di canzoni “a presa rapida”, di cui furono al contrario generosi tanto “Goo” che “Dirty”, i primi due LP in studio per la Geffen. Né pare in grado di crescere con il susseguirsi delle esplorazioni, come il suo predecessore “Experimental Jet Set, Trash And No Star”, pur’esso non esaltante di primo acchito ma poi capace di lievitare. Narcolettico ove questo è soporifero, quasi Mamma Gordon e Papà Moore avessero voluto confezionare un lavoro buono come ninnananna per la loro Coco.

Troppa severità? No, se pensate che ai campioni si debba chiedere sempre il massimo. Sì, se ritenete che nei riguardi di una band che non aveva sbagliato un disco finora, e che ha influito come poche altre sulle vicende del rock, si possa essere indulgenti. Per sperare in future resurrezioni vi basteranno allora la title-track e No Queen Blues, che suona come avrebbero suonato i Grateful Dead avessero iniziato il loro viaggio un decennio dopo e sull’altra costa; il mesmerico procedere, saporoso di tempi andati, di The Diamond Sea; la citazione dei Byrds di Eight Miles High in Saucer-Like. Sperare non costa niente, no?

Peter Buck, parlando dei Sonic Youth pre-”Daydream Nation”, ebbe a dire che erano un grande gruppo non in quanto autori di grandi canzoni ma perché inventori e depositari di un sound inconfondibile. Quei Sonic Youth, formatisi sia come musicisti che come gruppo durante la fase più tarda della no wave, mettevano insieme i Suicide e i Velvet Underground terroristi di Sister Ray, il Wall of Sound chitarristico a-rock di Glenn Branca e gli Stooges, il jazz armolodico di Ornette Coleman e l’avanguardia colta. In “Confusion Is Sex”, in “Bad Moon Rising”, in “Evol”, in misura minore ancora in “Sister” (lavori usciti fra l’83 e l’87) il suono, aggressivo e apparentemente caotico, clamorosamente eversivo – nel suo ben studiato disordine, nella sua amelodicità, nel suo modo di fratturare i ritmi – di ogni canone del rock, è tutto e la canzone classicamente intesa è nulla. Addirittura, si ha sovente l’impressione che elementi di disturbo vengano volutamente, dispettosamente introdotti ogni qual volta un brano rischia di incrociare nel suo percorso armonia, gradevolezza, un fantasma di ritornello.

“Daydream Nation” nel 1989 compì, senza parere in principio, una rivoluzione copernicana. Meno ostico il suono (psichedelico in più di un frangente), prendono per la prima volta forma canzoni memorabili che (non si poteva saperlo allora) saranno un ponte fra no wave e grunge: di questa nuova maniera l’iniziale Teen Age Riot è paradigmatica. Fu l’ultimo disco “indipendente” per la Gioventù Sonica, che un’attività concertistica frenetica aveva fatto assurgere a una popolarità inconsueta per proposte sì ostiche. Tanto che giunse un’offerta di contratto dalla Geffen, con garantito il controllo da parte della band di ogni particolare dei prodotti a venire, dalla registrazione alla grafica alla promozione. Thurston Moore, Lee Ranaldo, Kim Gordon e Steve Shelley in calce a quel contratto apposero le loro firme. La prima cosa che fecero, entrati in Geffen, fu di caldeggiare l’ingaggio di un gruppo di loro protetti, tali Nirvana. Suggerirono poi ai Nirvana stessi di fare produrre il loro nuovo LP all’al tempo poco noto Butch Vig. Il resto è Storia.

Ma non è solo per avere spianato la strada alla banda Cobain e al successivo sconvolgimento (altro che punk e new wave!) da parte di “Nevermind” dei concetti di “mainstream” e “rock alternativo” che i Sonic Youth post-firma per la Geffen sono stati importanti, per il rock degli anni ’90, almeno quanto gli altri Sonic Youth lo erano stati per la musica della seconda metà degli ’80. Il fatto è che “Goo” (’90) e soprattutto il successivo “Dirty” (’92) sono capolavori che, senza concedere più di tanto in fruibilità dei suoni, mettono in fila canzoni di levatura sensazionale.

Hanno dominato il cartellone del “Lollapalooza” 1995 i Nostri. Quanto sia stata grande la loro influenza sull’ultimo rock a stelle e strisce è stato chiarito esemplarmente, ce ne fosse stato bisogno dopo Nirvana e Dinosaur Jr., dal passaggio prima di loro sul palco di Beck, che di Thurston sembra il fratello minore, e dei Pavement, che molto hanno dei tardi Sonic Youth nel loro modo di scomporre e ricomporre gli elementi di una canzone pop.

“Washing Machine” è controrivoluzionario due volte: perché i suoi suoni non graffiano; perché i suoi brani non s’incidono nella memoria. Ma nessuna rivoluzione può essere permanente e la Gioventù Sonica (gioventù… Kim Gordon di annetti ne ha quarantadue) è stata in prima linea tre lustri. Siccome poche cose sono patetiche quanto osservare l’avanguardia farsi retroguardia, l’auspicio è che prima di trasformarsi negli Stones della loro generazione i Sonic Youth sappiano dire basta. L’unica, e migliore, alternativa è che ritrovino verve compositiva e della loro generazione siano i Neil Young.

Pubblicato per la prima volta su “Dynamo!”, n.12, dicembre 1995.

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Respect! Il rhythm’n’blues di casa Atlantic

Ray Charles

Cominciò tutto con un sacrificio dolorosissimo cui la maggior parte di noi musicomani non si sottoporrebbe neppure per pagare il conto del veterinario per il fedele cagnone o cure indispensabili per la vecchia mamma, o, se in ristrettezze economiche, per non patire la fame. Roba da far tremare vene e polsi. Diobbuono, ma ci pensate? Vendersi l’intera collezione di dischi. Separarsi da quelle migliaia di pezzi pazientemente raccolti in ogni dove nel corso degli anni e poi ordinati scrupolosamente, e carezzati, e amati quasi fossero esseri viventi (ma non lo sono, in fondo?), e ascoltati e riascoltati. Nel 1947 ne aveva un bel mucchio di dischi – quindicimila, si sussurra – l’allora ventiquattrenne Ahmet Ertegun, sfaccendato figlio di un diplomatico turco e appassionato estimatore della musica nera. Li aveva messi insieme con l’aiuto del fratello Nesuhi e li cedette per dare corpo a un sogno – essere parte del mondo delle sette note anziché osservarlo dal di fuori – e a un’intuizione – che dovevano essere tanti i giovani bianchi innamorati come lui della musica nera e dunque il mercato che questa occupava non era che una frazione di quello che avrebbe potuto conquistare. Con i soldi ricavati e cinquemila dollari allungatigli da Herb Abramson, altro impenitente collezionista di race records ed ex-A&R man della National, fondò la Atlantic. La neonata etichetta si insediò nel modesto appartamento (roba da sessanta dollari al mese) di Ahmet al Jefferson Hotel, sulla Cinquantaseiesima Strada, New York City, e prese a sfornare vinile. Dopo inizi un po’ stentati si guadagnerà, a partire più o meno dal ’53, una posizione sempre più importante nel mercato americano, fino a trasformarsi – caso più unico che raro – da indipendente in major, consociandosi con Warner Bros ed Elektra nella potentissima WEA. Facendo nel mentre la storia del soul e del rhythm’n’blues come nessun’altra casa discografica, eccetto la Stax, che però fu quasi da subito una dipendenza (seppure con larghissima autonomia) della Atlantic stessa.

Il successo della creatura di Mr. Ertegun fu un po’ come una valanga, che parte così piccola che con quella neve non puoi farci nemmeno un pupazzo, una palla al limite, e scendendo a valle si ingrossa con progressione inarrestabile. Per comprenderlo bisogna fare mente locale, a cos’era il mercato discografico USA all’indomani del secondo conflitto mondiale: da una parte c’erano le grandi etichette, che puntavano tutto sul jazz più annacquato e su un pop bianchissimo, esangue e melenso; dall’altra, a centinaia, le case discografiche più piccole che, chiuse in ambito pop dai colossi già affermati cercavano di ricavarsi un loro spazio puntando su segmenti di mercato molto specifici: il country, il jazz più ardito, il blues. In mezzo, fra incudine e martello, stavano gli artisti, per niente protetti da una legislazione sui diritti d’autore ancora lacunosa e sfruttati contrattualmente (quando contratti c’erano) a livelli inimmaginabili oggi. Più dalle indipendenti a dire il vero, in lotta disperata fra loro per la sopravvivenza e perennemente tese alla ricerca dell’hit occasionale, che non dalle major. Ciò che da subito distinse la Atlantic fu il suo puntare non sul successo di un brano bensì sulla figura dell’artista, affiancato da un team di musicisti, produttori, autori di canzoni di statura stellare e seguito passo dopo passo, mai abbandonato a sé stesso.

Ecco, fu il gioco di squadra a fare la fortuna della label degli Ertegun, il collettivo, composto da validi gregari come da autentici campioni; al punto che si creò un suono, uno stile Atlantic, difficile a descriversi ma di immediata riconoscibilità per gli aficionados. I suoi artefici principali entrarono in formazione uno alla volta. Fin dal 1948 Tom Dowd, all’epoca appena ventiduenne, tecnico del suono abilissimo che curerà quasi tutte le sedute di registrazione più importanti nel quarto di secolo successivo. All’incirca un paio di anni dopo Jesse Stone, un nero invece navigato (aveva esordito, lavorando nel circuito blues, nel ’27), eccellente direttore d’orchestra, compositore di vaglia, arrangiatore senza pari. E nel 1953 a sostituire Herb Abramson, sotto leva, venne chiamato Jerry Wexler, trentacinquenne ex-giornalista dalla passione e dalle ambizioni smisurate e dalla volontà di ferro: fu con lui al timone che il vascello Atlantic prese infine il largo, piazzando da lì al ’55, anno del congedo di Abramson dall’esercito, qualcosa come trenta titoli nei Top 10 delle classifiche R&B. Mai a un’indipendente era riuscita una simile impresa e da allora i successi si susseguiranno senza posa. Anche perché nel frattempo erano stati assunti Leiber & Stoller, una delle più grandi coppie di autori di canzoni del Novecento.

Non fu tutto rose, fiori e pietre miliari, comunque. Come Roma, il mito Atlantic non è stato edificato in una notte e sinceramente, riascoltate oggi, non destano soverchia impressione le prime facciate recanti quella inconfondibile etichetta (allora) rossa e nera: Joe Morris, Tiny Grimes, Frank Culley, lo stesso Stick McGee, che con la sua Drinkin’ Wine Spo-Dee-O-Dee diede ad Ahmet Ertegun nel 1949 il primo vero hit, appaiono figure minori, in bilico fra il jazz delle grandi orchestre e il rhythm’n’blues ai suoi albori, e il rock’n’roll a venire. E il pur immenso Professor Longhair di Hey Little Girl, Mardi Gras In New Orleans, Tipitina sembra guardarsi più alle spalle che avanti. Ma già nel ’49, con l’ingaggio di Ruth Brown, seguito da lì a due anni da quello di Joe Turner e l’anno dopo ancora da quello di Ray Charles, la Atlantic iniziò adessere la principale fra le fucine ove mischiando metalli già noti – il jazz sia delle big band che delle formazioni tascabili, il blues rurale e quello urbano e ormai elettrico, il boogie woogie, il gospel e il pop vocale sua secolare derivazione – si andava forgiando una lega nuova al punto di essere rivoluzionaria, e non solamente per la musica ma anche per il costume.

Chi potrà negare che la caduta almeno in ambito musicale delle barriere razziali, avvenuta con il diffondersi inarrestabile del rhythm’n’blues pure fra la gioventù bianca e con la quasi contemporanea esplosione del rock’n’roll, abbia avuto un effetto positivo sulla società USA? Che l’America possa essere la terra delle pari opportunità per tutti, indipendentemente da razza, colore e religione, la Atlantic parve dimostrarlo nei fatti: se i suoi artisti erano (e seguitarono a esserlo fin quando non tentò la fortuna pure in ambito rock) praticamente tutti di colore, parecchi dei musicisti di sala, degli arrangiatori, dei produttori, dei compositori erano bianchi (per non dire – ahem – dei proprietari). E bianchi e neri lavoravano insieme, in armonia. La storia dell’etichetta della Big Apple, di chi partendo da umili origini riesce, combinando impegno e inventiva, a giungere al successo, è una tipica parabola a stelle e strisce, un’esemplificazione di come il Sogno Americano a volte paghi. E agli anni ’50, e ancora più al decennio successivo, anni drammatici ma ricchi di speranza in un futuro migliore e di lotte per conquistarlo, anni in cui al Sogno Americano si credeva ancora, la Atlantic fornì una colonna sonora straordinaria. Vorrà dire forse qualcosa che la sua perdita della leadership nel settore della black music sia coincisa con le morti violente di Robert Kennedy e Martin Luther King, che tanto si erano battuti per l’integrazione.

Ma abbiamo corso troppo ed è tempo di tornare a Ray Charles, del quale Peter Guralnick ha lapidariamente scritto, nel suo capitale “Soul Music”, “è stato stilisticamente il padre della musica soul”. Punto. Spiegando poi che con ogni probabilità non lo sarebbe mai diventato se non avesse avuto la fortuna di imbattersi in una casa discografica come la Atlantic, che gli concesse tutto il tempo e l’incoraggiamento di cui aveva bisogno per maturare e trasformarsi da crooner alla Nat King Cole in vigoroso interprete di uno scintillante errebì (se preferite, un proto-rock’n’roll) intriso di gospel, di cui la leggendaria I Got A Woman è il prototipo e le non meno monumentali Hallelujah, I Love Her So, The Right Time, What’d I Say, Let The Good Times Roll i modelli successivi più convincenti. Da quando firmò per la Atlantic a quando, nel 1960, vi fu il più o meno consensuale divorzio (il Nostro tornerà alla base nel ’77), Ray Charles fu l’indiscusso numero uno della scuderia Ertegun, una scuderia sempre più ricca di assi, distinguibili grossomodo in due scuole: da un lato i Joe Turner, le Ruth Brown, le La Vern Baker, interpreti di un rhythm’n’blues dirompente e sensualissimo insieme, muscolare e lirico, attraversato da una marcata vena d’ironia; dall’altro gruppi vocali tanto maschili, come i Diamonds, i Clovers, i Drifters, i Chords, i Cardinals, i Robins, i Coasters, che femminili, Cookies e Bobbettes, che si misuravano con un pop-soul devoto alla tradizione della musica nera da chiesa e molto romantico. Tutti insieme appassionatamente scalarono le classifiche con costanza e frequenza impressionanti, rendendo l’etichetta sì forte economicamente (e regalandole un prestigio smisurato) da potere assorbire senza eccessivi problemi la defezione del suo nome più affermato. Oddio, una conseguenza, e non da poco, ci fu: Ahmet Ertegun smise di occuparsi di black music, lasciandola in cura a Wexler (che nel frattempo, insieme con lo stesso Ahmet e Nesuhi, aveva rilevato la quota societaria di Abramson) e si dedicò all’idolo pop Bobby Darin (da lì alla fine del decennio tornerà a lavorare con artisti di spessore, ponendo sotto contratto Cream, Led Zeppelin e Buffalo Springfield). Una decisione che persino i suoi collaboratori più stretti non sono mai riusciti a spiegarsi. Certo si era dimenticato, Ahmet Ertegun, di quel che dice un noto proverbio: morto un papa se ne fa un altro.

Il nuovo pontefice dell’Atlantic Sound si presentò, a pochi mesi dal passaggio di Mr. I Got A Woman alla ABC, nelle più che rotonde fattezze di Solomon Burke. Era costui un predicatore nativo di Filadelfia dalle dimensioni pantagrueliche e dal talento non meno enorme, di una simpatia e di un carisma, oltretutto, irresistibili. Nonostante l’ancor giovane età era sulla scena già da diversi anni e godeva di una certa fama, che il suo secondo singolo per la Atlantic, il pastiche country-soul Just Out Of Reach, che solo un’interpretazione vocale favolosa redime dall’eccesso di saccarosio, accrescerà in misura esponenziale. I 45 giri che lo seguirono si dimostrarono superiori artisticamente e non meno fortunati commercialmente. Se qualcuno, defezionario Ray Charles, aveva potuto azzardare che la Atlantic (che cammin facendo si era pure creata un dipartimento jazz di eccelso livello; un nome per tutti: Charles Mingus) potesse andare a fondo, eccolo servito: viaggiava più che mai con il vento in poppa il veliero ora condotto con poteri assoluti da Jerry Wexler. Pressoché contemporaneo all’ingaggio di Burke fu il debutto da solista di Ben E. King, che fece sfracelli dapprima con Spanish Harlem, quindi con Stand By Me. Da lì a poco la Stax, minuscola etichetta di Memphis presa saggiamente sotto tutela da Wexler, comincerà a produrre successi e/o classici a getto continuo, marchiati Booker T. & The MG’s, William Bell, Otis Redding, Rufus e Carla Thomas, Eddie Floyd, Sam & Dave; Percy Sledge coglierà un hit di proporzioni titaniche con When A Man Loves A Woman, il brano che andando al numero uno sia nella classifica soul che in quella pop darà un contributo essenziale all’unificazione dei due mercati; e una giovane cantante di nome Aretha Franklin donerà un nuovo significato, nuove sfumature alla parola “soul”.

Qualità e successo andarono sempre sotto braccio in casa Atlantic nell’epoca in cui era sinonimo di musica nera. Quando la prima iniziò a scadere il secondo venne gradualmente a mancare e hanno un bel dire i curatori del fondamentale cofanetto “Atlantic Rhythm And Blues 1947-1974” (sette album doppi o sette CD singoli, pubblicato nel 1985 e da allora, per fortuna, mai uscito di catalogo) che così non fu. Il declino ad ogni modo – questo dobbiamo concederlo – fu dignitoso.

Atlantic Rhythm’n’Blues: venti classici

Willis Jackson – Gator’s Groove

Joe Turner – Shake, Rattle And Roll

The Chords – Sh-Boom

Ray Charles – I Got A Woman

Ruth Brown – Lucky Lips

Chuck Willis – What Am I Livin’ For?

The Coasters – Yakety Yak

Ray Charles – What’d I Say

The Drifters – There Goes My Baby

Ben E. King – Stand By Me

La Vern Baker – See See Rider

Solomon Burke – If You Need Me

Doris Troy – Just One Look

Esther Phillips – And I Love Him

Wilson Pickett – In The Midnight Hour

Percy Sledge – When A Man Loves A Woman

Arthur Conley – Sweet Soul Music

Joe Tex – Show Me

Aretha Franklin – Respect

The Persuaders – Thin Line Between Love And Hate

 Pubblicato per la prima volta su “Dance Music Magazine”, n.5, settembre 1992.

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Velvet Gallery (3)

Ho sempre adorato i Feelies. Nella loro prima vita, una delle band più grandi e influenti della new wave americana. Nelle innumerevoli esistenze successive, una delle più scandalosamente sottovalutate del cosiddetto college (e poi alternative) rock. Sul numero 2 di “Velvet” dedicavo loro questo articolo. Con sentimento.

The Feelies 1

The Feelies 2

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Ravi Shankar 1920-2012

Poche ore fa se n’è andato l’uomo che fece più di chiunque per propagandare la musica indiana in Occidente. Per quanto allievo in massima parte superficiale, attento quasi solo al colore e non alla sostanza, anche il rock gli deve molto.

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Presi per il culto (28): Status Quo – Picturesque Matchstickable Messages From The Status Quo (Pye, 1968)

Status Quo - Picturesque Matchstickable Messages From The Status Quo

Qualcuno ce la fa a essere profeta in patria e sfogliando gli annali del rock uno degli esempi più clamorosi in tal senso nei quali ci si possa imbattere è quello di un complesso che assumeva il nome con cui diverrà celebre nell’estate ’67 ma che, con una formazione appena diversa, era insieme già da cinque anni e aveva pubblicato quattro singoli, con due diverse ragioni sociali. Numero sette nel Regno Unito, Pictures Of Matchstick Men scalava pure la graduatoria USA dei 45 giri, fino a una rispettabilissima dodicesima posizione. Qualche mese dopo Ice In The Sun si arresterà alla settantesima. Si stenta a crederlo: da allora a Francis Rossi e soci non è mai più riuscito di violare le classifiche statunitensi. Nello stesso periodo in Gran Bretagna ci sono entrati, fra singoli, album e antologie, quel centinaio di volte. Né finiscono qui le anomalie della vicenda, siccome l’unico hit americano di costoro e la loro sola canzone indiscutibilmente degna di menzione in qualunque storia maggiore della popular music coincidono. Capolavoro di pop psichedelico scolpito a distorsori nel corpo di una melodia di formidabile immediatezza, Pictures Of Matchstick Men vanta un numero di tentativi di imitazione sorprendente (dalle belle cover che ne fecero Camper Van Beethoven e Slickee Boys all’opera dei Dukes Of Stratosphear pressoché in toto) per un brano a sua volta assai derivativo. È però proprio il suo essere distillato perfetto di suoni e senzazioni della Summer Of Love londinese a vidimargli il passaporto per un’eternità spicciola. I più con gli Status Quo la finiscono qui e lo si dica tranquillamente che quello che è forse il gruppo più dileggiato di sempre dalla critica le ironie e le stroncature se l’è immancabilmente meritate (peraltro consolandosi con conti in banca sontuosi e chi è patetico quindi?). I più, fra quanti mi stanno leggendo, degli  Status Quo avranno in mente piuttosto altri due titoli – quella Whatever You Want che da trentatré anni ci tormenta dalla radio; la pedestre resa della Rockin’ All Over The World di John Fogerty – particolarmente esemplari di un hard boogie ripetutosi per decenni uguale a se stesso. In tanti, a questo giro, a leggermi non avranno nemmeno cominciato. Nel caso: hanno fatto male, avvertiteli.

A un ascolto non prevenuto il debutto adulto degli allora giovincelli Francis “Mike” Rossi (voce e chitarra), Rick Parfitt (all’anagrafe Richard Harrison; chitarra), Roy Lynes (organo), Alan Lancaster (basso) e John Coghlan (batteria) si rivela qualcosa più che una canzone celebre con undici a mero contorno e anzi prologo. Sebbene senza regalare altre illuminazioni d’immenso. Tanto ottimo artigianato in compenso, a partire dalla già citata Ice In The Sun, giocosa marcetta facilmente inseribile in un “Sgt. Pepper’s” apocrifo, e da una Paradise Flat giocata sul contrasto fra corde squillanti e un organo solenne. Continuando con l’acid-barock ancora in zona Fab Four di Elizabeth Dreams, con una Technicolour Dreams ai profumi d’Oriente, con le riletture lisirgidescenti, e una spanna sopra gli originali, di Spicks And Specks (Bee Gees) e Green Tambourine (Lemon Pipers). Anche negli episodi più trascurabili “Pictures Matchstickable Messages From The Status Quo” si conserva come minimo gradevole curiosità antiquaria da cui si toglierebbe giusto (ma solo per l’eccessiva somiglianza alla canzone che aveva appena lanciato il quintetto) l’iniziale Black Veils Of Melancholy, salvando serenamente viceversa una scampanellante When My Mind Is Not Live e la spensieratezza beat con un tocco favolistico di Gentleman’s Joe Sidewalk Cafe, la circolare Sheila  e l’ipnotico vaudeville Sunny Cellophone Skies.

Chi si fosse fatto convincere sappia che è la “Deluxe Edition” del 2009 la stampa da puntare. Non tanto perché offre il disco sia in mono che in stereo (e chi sa di musica sixties non ignora che in certi dettagli si cela tanta sostanza), quanto perché lo ingrassa con un gruzzoletto di incisioni per la BBC comprendente due gemme inedite: il garage-pop Things Get Better; una Judy In Disguise che si scommetterebbe presa in prestito da Question Mark & The Mysterians quando sono invece John Fred & The Playboys. E si fanno ancora apprezzare, fra il resto, una Make Me Stay A Bit Longer al tempo solo su singolo e in zona Procol Harum e alcuni brani tratti dai repertori di Spectres e Traffic Jam, palestre di beat e garage con un retrogusto di errebì bianco nelle quali i non ancora Status Quo si erano allenati. Sfortunatamente, se ne dimenticheranno.

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Velvet Gallery (2)

Già nel 1988 fondare un giornale di musica era cosa da pazzi. Ci parve allora molto appropriato dedicare alcune pagine del primo numero a un elogio della follia. Io contribuii a quell’articolo a più mani diffondendomi estesamente su un artista di cui già mi era capitato di scrivere e che tornerò ad affrontare negli anni a più riprese: l’originale per antonomasia, l’alieno, il solo e unico Captain Beefheart.

Captain Beefheart 1

Captain Beefheart 2

Captain Beefheart 3

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Spirit: la famiglia che suonava insieme

Apprendo ora che il grande, grande, grandissimo Ed Cassidy ci ha lasciati ieri. Non vale dolersene. Aveva ottantanove anni e fino all’ultimo è stato vivo, vivo, vivissimo. Meglio levare un ideale calice e brindare a colui che già nel 1967 era il batterista rock più anziano al mondo, in un tempo in cui si diffidava di chi aveva più di trent’anni e lui ne aveva quarantaquattro. Lo celebro, il vecchio Cass, riprendendo questo lungo articolo che dedicai sulle pagine di “Blow Up” alla band cui resterà legata per sempre la sua memoria, gli immensi Spirit.

Spirit 1

“Un genio patetico e torturato… un bambino prodigio che non ebbe mai un’infanzia”: parole di Mark Andes, bassista dei primi e per qualcuno unici Spirit, titolari fra il 1968 e il 1970 di tre abbacinanti capolavori e in mezzo di un altro disco ineguale, sì, ma routinariamente sottovalutato giusto perché costretto a viaggiare in compagnia di simili pesi massimi. Album oltre che enormi peculiarissimi in un tempo in cui il rock era ancora giovane, ed entusiasmante, e un alberello che non la smetteva più di slanciare verso il cielo nuovi rami. Non si era mai sentito nulla del genere, inestricabile intreccio di un folk sognante e un jazz cerebrale ma dal cuore caldo, di una psichedelia lunare ma fantasticamente pop nella sua quintessenza e un proto-hard germogliato da semini blues. Né si è mai più sentito, siccome gli Spirit furono un irripetibile unicum che come tale non ha avuto epigoni. Loro deus ex machina, al di là dei crediti su copertine ed etichette, il torturato genio di cui sopra. Randy California ci ha prematuramente lasciati il 2 gennaio di dieci anni or sono. Fosse vissuto di più, per la storia del rock non sarebbe probabilmente cambiato niente e sia detto senza sminuire i suoi ultimi vent’anni, in cui fece ancora cose discrete, buone, anche ottime. Se però fosse nato un po’ prima, diciamo nel 1948 invece che il 20 febbraio 1951, la storia del rock sarebbe stata probabilmente molto, molto diversa. La mente vacilla al pensiero di cosa avrebbero potuto combinare insieme lui e un certo altro chitarrista gli fosse stato possibile raccogliere l’invito di costui a seguirlo a Londra. Così non fu. Randy aveva quindici anni e sei mesi. La madre glielo proibì, il patrigno – musicista lui pure – idem e, se anche gli avessero detto di sì, una volta arrivato in Gran Bretagna gli sarebbe stato rifiutato il permesso di lavoro e l’avrebbero rispedito a casa. Jimi Hendrix dovette partirsene da solo.

Hendrix era unico, però unidimensionale. Suonava sempre da Hendrix, mentre Randy in un momento suonava come Hendrix e l’attimo dopo era partito per tutt’altre tangenti.”

A parlare in questo caso è Ed Cassidy, proprio quel patrigno che disse di no al ragazzetto. Suonavano già insieme da un po’, avrebbero continuato a farlo per tre tondi decenni. Cassidy sa cosa dice. E, al di là dei voli pindarici in cui ci si può lanciare immaginando quello che non fu, ciò che è stato resta e non smetterà mai di stupire. Così come rimase lo pseudonimo che proprio il chitarrista di Seattle appiccicò, in quel di New York, al suo controaltare losangeleno. Nei Jimmy James & The Blue Flames i Randy erano due e Jimi prese l’abitudine di chiamarli con il nome degli stati di provenienza. Texas e California. California fu.

Era nato Randy Craig Wolfe e quando imbracciò per la prima volta una sei corde lo strumento era più grosso di lui. Aveva cinque anni e fu la madre, Beatrice Pearl, musicista di area folk di discreta fama, a insegnargliene i rudimenti. Uno zio dal suo canto era il proprietario dell’Ash Grove, uno dei più rinomati club della Città degli Angeli, e capitava spesso di conseguenza che passassero da casa di Beatrice, soggiornandovi magari qualche giorno, gli artisti ingaggiati dal locale. Il fanciullino ebbe ulteriori maestri oltre a mammà: per non citarne che alcuni, John Lee Hooker e Mississippi John Hurt, Doc Watson e Ramblin’ Jack Elliott. Il meglio in materia di blues, di country, di folk. Né disdegnava rock’n’roll e rhyhtm’n’blues e fu allora da subito chitarrista di fenomenale eclettismo. O il jazz, che ascoltava ancor prima che un batterista classe 1923 (non 1931, come si può leggere in qualche enciclopedia) e dal curriculum ragguardevole (ad avere usufruito dei suoi servigi fra gli altri Cannonball Adderley, Gerry Mulligan e Zoot Sims) entrasse nella vita di Beatrice e di conseguenza nella sua. Nel 1965 la madre divorziava dal padre di Randy, Robert Wolfe, un ricco uomo d’affari. L’anno dopo sposava Cassidy, conosciuto al di nuovo fatale (non sarà l’ultima volta) Ash Grove. Il matrimonio non durerà che quattro anni, ma il sodalizio artistico fra Ed e Randy gli sopravviverà di un abbondante quarto di secolo.

È il 1966, dunque. Da qualche mese l’insolità coppia – fra i due ci sono ventotto anni, che sarebbero un’enormità pure oggi e tanto più in un’epoca in cui i figli stanno ribellandosi ai padri e abissi vengono scavati fra le generazioni – condivide un gruppo che occhieggia al blues nella ragione sociale, Red Roosters, e ambisce a diventare (dichiara uno di loro, non identificato, in un’intervista a un giornale del posto) “l’equivalente per l’America di ciò che i Beatles sono per l’Inghilterra”. Niente di meno. A parte che fra loro c’è uno con un’età da professore, i Red Roosters sono in tutto e per tutto un complessino liceale. A parte, anche, che le gare per complessini liceali le vincono immancabilmente. Il secondo chitarrista è John Arden Ferguson, detto Jay, e al basso c’è Mark Andes, rispettivamente un 1947 e un 1948. Ce n’è persino un terzo di chitarrista, giustappunto un compagno alla Chatsworth High School di Jay e Mark, tal Mike Fondelier, di cui si perderanno le tracce. Come dire che quattro quinti della formazione classica degli Spirit sono già assieme. Ben allenati da Cassidy, che ha preso a frequentare il rock da non molto passando dalle parti di quei mitologici Rising Sons palestra sia per Ry Cooder che per Taj Mahal, i ragazzi inanellano un paio di decine di concerti e registrano un singolo che resterà però inedito. L’appassionato cacciatore di minuzie prenda nota che uno dei due brani è una cover di un cavallo di battaglia di Rufus Thomas, Walking The Dog, che California riprenderà parecchi anni dopo, nel monumentale “Spirit Of ’76”. A porre fine all’avventura dell’insolitamente assortito quattro più uno è la necessità dell’uno di rimediare suonando almeno il bastante a viverci. Ritenendo che potrebbe avere più opportunità di impiego da turnista a New York che a Los Angeles, Ed si trasferisce nella primavera del 1966 nella Grande Mela. A Randy tocca naturalmente seguirlo. Altro liceo, altro gruppo. Dureranno un paio di anni i Tangerine Puppets, non incideranno alcunché, il nostro eroe sarà con loro per qualche settimana appena, eppure forse da nessun altro complesso scolastico sono uscite così tante future stelle. A Randy-non-ancora-California sommate Walter Becker (Steely Dan), John Cummings e Tommy Erdelyi. Se i cognomi di questi ultimi due non vi dicono nulla, provate a sostituirli con “Ramone”. Esatto… Scappa da ridere, eh?

Un bel dì Randy si reca nel più rinomato negozio di strumenti del Village, il Manny’s Music Store sulla Quarantottesima. Vuole comprarsi un’altra chitarra. Incrocia un giovanotto di colore vestito sgargiantemente intento a provare un ampli. Scambiano due battute, si mostrano vicendevolmente qualche trucco, cominciano a suonare insieme e non smetteranno più per tre mesi. Al Café Wha?, sempre al Greenwich, Jimmy James & The Blues Flames saliranno sul palco cinque volte ogni notte, per sette notti alla settimana. È lì che Chas Chandler, in tour negli Stati Uniti con gli Animals, impazzisce a tal punto per Jimi Hendrix da appendere il basso al chiodo, diventarne il manager e portarselo di corsa a Londra. Come raccontato dianzi Randy, ora California e presto in California di nuovo, non può seguirlo. Il Fato ha in serbo altro per lui. Favolosa coincidenza che nel preciso giorno, il 27 maggio 1967, in cui “Are You Experienced” fa il suo ingresso nelle classifiche britanniche a un love-in in Griffith Park, a Los Angeles, gli inseparabili Randy e Ed, a zonzo con un loro amico, il ventitreenne tastierista John Locke, si imbattano casualmente in Jay e Mark. Ferguson e Andes vengono cooptati nei neonati Spirits Rebellious, entro breve Spirit. È un quintetto superbamente assortito, con un jazzista di solida esperienza come Cassidy a fare da chioccia, oltre che al versatilissimo figlioccio, a un secondo jazzista che alla bisogna sa suonare anche il rock (Locke), a un ragazzo cresciuto a blues e rock’n’roll (Andes) e a un altro di formazione classica (Ferguson) e per questo in grado di suggerire arrangiamenti assolutamente inusuali per i materiali che nascono da mesi di prove ininterrotte. Mentre intorno a loro ci si gode l’ebbrezza della Summer Of Love i cinque lasciano di rado la casa, con vista mozzafiato sul Topanga Canyon, affittata dal tastierista. Per i divertimenti, chimici e non, ci sarà tempo e alcuni dei nostri eroi e più di tutti il principale vi indulgeranno sin troppo. Per intanto si esercitano senza posa. Con atto di letterale nepotismo, Ed Pearl li invita a esibirsi ogni lunedì all’Ash Grove. È la sera cosiddetta morta, ma in poche settimane il pubblico da sparuto si fa tanto numeroso che il club non basta a contenerlo e le code intorno all’isolato diventano sempre più lunghe. Ne giunge voce a uno dei discografici più potenti della West Coast, Lou Adler. Appena tre mesi e due giorni dopo il fatidico incontro in Griffith Park, gli Spirit sottoscrivono un contratto per la sua etichetta, la Ode. L’omonimo album d’esordio prende velocemente forma negli studi hollywoodiani della CBS. È un avviso che il Destino, dopo essersi mostrato dapprincipio generoso, ha in serbo per il quintetto più spine che rose che la forma definitiva che gli imprime Adler, che si è assunto onori e oneri della produzione, sia però assai differente da quella immaginata da Randy, Ed e soci (il diciassettenne già indiscutibile star, nonostante firmi solamente due episodi su undici ove Ferguson ne sigla, da solo o in compagnia, nove). E il disco resterà per questo controverso, addirittura detestato da California, che non perdonerà mai al produttore di averci aggiunto archi e fiati, dandogli un sound più soffice di quello sul quale la band stava cementando la formidabile fama dei suoi concerti.

Io non posso però che giudicare quel che sento e ciò che sento è un 33 giri di strepitosa originalità, almeno pari a qualunque altra pietra miliare datata 1967 (a quell’anno appartiene, benché pubblicato nel gennaio ’68) e stiamo parlando dell’annus mirabilis per antonomasia del rock. Album di pura, ineffabile magia, dalle prime ticchettanti battute e dall’ondivaga, istantanea melodia dell’iniziale Fresh Garbage – brano subito incluso nel loro repertorio dai neonati Led Zeppelin – al suggello “in jazz” di Elijah, passando per la perfetta fusione fra i Beatles e i Pink Floyd coevi messa a punto in Uncle Jack e il raga di Girl In Your Eye, l’ipnosi pop di Topanga Windows e la circolare cantilena di Water Woman. A proposito di Zeppelin… Per Stairway To Heaven si “ispireranno” – mettiamola così: caritatevolmente – al primo, indiscutibile classico firmato da Randy California, Taurus. Sarà che è il primo LP degli Spirit che mi capitò di ascoltare e accadde in un età in cui ero più facilmente impressionabile di adesso. Sarà che da allora mi ha accompagnato in un tot di giretti oltre le porte della percezione ed è stato immancabilmente un cicerone squisito. Fatto è che a chi mi chiedesse da quale titolo approcciare gli Spirit gli suggerirei di partire dall’inizio, da qui. A chi mi domandasse di indicargli un unico articolo da acquistare in un catalogo che assortite antologie e riordini (o ri-disordini) di archivi stanno facendo sterminato, ebbene, darei la medesima risposta. Oppure (dipende dai giorni), andando di nuovo controcorrente, dando retta al cuore ma senza perdere di vista la ragion critica, gli consiglierei di catturare “Spirit Of ’76”, laddove tre quinti degli Spirit originali non ci sono. Scusami tanto, Randy.

Spirit 2

Per i più – regolatevi – il capolavoro degli Spirit è però il successivo – uscito nel 1969 ma inciso nei primi mesi del ’68 – “The Family That Plays Together”. Ventiduesimo nella classifica di “Billboard”, dopo avere fruttato un numero 25 con il singolo fra rock’n’roll ed errebì I Got A Line On You, farina del sacco di un Randy seccatissimo che Lou Adler, ancora in cabina di regia, lo avesse sfidato a produrre un hit, se ne era capace. Lo fu e nondimeno, a parte che rimarrà l’unico successo vero del gruppo, ci sono gioielli che quando si spalanca il forziere del secondo Spirit paiono di caratura superiore: il sogno lisergico It Shall Be; una favolistica The Drunkard, resa struggente dagli archi; una Darlin If che è come se Dylan fosse stato il quinto di Crosby, Stills, Nash e Young; una Jewish che dispensa esattamente le fragranze etniche che il titolo evoca; una Aren’t You Glad nel cui perentorio finale solista e ottoni vicendevolmente si rincorrono. Guardi i crediti e scopri che la bilancia California-Ferguson si sta riequilibrando. Cinque a sei, adesso. Guardi il retro di copertina e sobbalzi vedendo un Ed Cassidy nerovestito e con sullo sfondo un paesaggio desolato che leva al cielo il braccio destro. Che diavolo gli passava per la testa? E che diavolo passò per la testa a Adler di sconsigliare ai Nostri di andare a Woodstock? Già non li aveva convocati a Monterey, il padre di tutti i festival, da lui stesso organizzato. Ci sono treni che passano una volta e se li perdi non andrai più da nessuna parte. Figurarsi quando hai la fortuna di avere una seconda possibilità e non l’afferri.

Al confronto è una sciocchezzuola il pasticcio combinato con “Clear”, pur’esso datato ’69 e nato come commento a una pellicola, Model Shop del francese Jacques Demy, che cominciò ad affondare al primo ciak del primo giorno di riprese e completò un naufragio a suo modo memorabile al botteghino. A quel punto Adler decideva di recuperare alcuni dei brani scritti per il film (la colonna sonora non vedrà la luce che nel 2005, su Sundazed) e di integrare con una manciata di canzoni. Da qui l’aria raccogliticcia e i forti scarti qualitativi fra questo e quel pezzo. A fronte di una Policeman’s Ball che è una Topanga Windows minore o di una Ice sospettosamente in anticipo sul progressive, della nenia fricchettona di Ground Hog o di una I’m Truckin’ che passa senza lasciar tracce, il funky-jazz di Dark Eyed Woman e un’assorta Cold Wind, un’incantata Give A Life, Take A Life e una New Dope In Town da qualche parte fra Stones e Dead svettano dalla cintola in su e in un’ideale raccolta del quintetto avrebbero certamente diritto di cittadinanza. Ciò detto, il vero torto di “Clear” è di trovarsi in mezzo a una compagnia tanto fulgida da rendere impietoso il raffronto. Ma paragonatelo a tanti dischi di psichedelia oggetti di culto fra certi presunti intenditori per il semplice fatto di essere di gente più oscura e li cancellerà agevolmente.

Per il rapporto già teso fra il discografico e il gruppo “Clear” e Woodstock sono un uno-due da K.O. Ciliegina sull’acida (non nel senso lisergico del termine) torta è che Adler si sbarazzi degli Spirit cedendoli alla Epic come parte dell’accordo che prevede che quella casa distribuisca un’artista della Ode che si accinge a togliersi e a regalare ben altre soddisfazioni mercantili, vale a dire Carole King. Poiché non tutto il male vien per nuocere, fa il suo ingresso in scena a questo punto il produttore David Briggs, di cui tutti ricordano i numerosi album con Neil Young e pochi che diede un decisivo apporto al policromo affresco di “Twelve Dreams Of Dr. Sardonicus”. Poiché tutto il male vien per nuocere, anche i rapporti interni al complesso si sono deteriorati, indistruttibile solo quello fra patrigno e figliastro. Il giovane Randy (fa strano dirlo: un veterano di diciannove anni) oltre a soffrire dei postumi di una commozione cerebrale dovuta a una caduta da cavallo sta entrando in una spirale di egocentrismo e paranoia, una magrezza che sconfina nell’anoressia, LSD e coca assunti in gran copia e sono sostanze che non vanno per niente d’accordo fra loro, figurarsi se assunte da uno che bordeggia la schizofrenia. Gli anni sotto pressione, l’infanzia negata da una madre ambiziosa per interposta persona ed esigentissima, l’adolescenza saltata per entrare direttamente nell’età adulta stanno presentando il conto. Come era accaduto con i Love di “Forever Changes”, come accadrà agli Sly & The Family Stone di “There’s A Riot Goin’ On” una situazione ai limiti e oltre della rottura frutta però un disco immane. Leggo da diverse parti di un album da intendere come l’esordio solistico di California ma a smentirlo basta un’occhiata ai crediti, con Ferguson e Locke che si assumono la paternità di sei (inegualmente divisi: cinque e uno) dei dodici sogni del Dottore. Vero d’altro canto, a sentire tutte le testimonianze, che man mano che ci si inoltrava nei sei interminabili mesi di lavorazione il nostro Randy prendeva sempre più in mano la situazione, emarginando gradualmente soprattutto Ferguson e Andes. I quali, intesa l’antifona, intraprenderanno a breve insieme la mediocre avventura Jo Jo Gunne, power band con pochi fronzoli e ancora meno estro, che una volta che ne hai ascoltato i dischi non riesci a capacitarti che si tratti dello stesso Ferguson che ha scritto una Fresh Garbage. E anche un paio delle canzoni più belle del bellissimo “Twelve Dreams Of Dr. Sardonicus”: il dinoccolato funk dallo spumeggiante ritornello di Animal Zoo, l’acida giostrina di Street Worm. Ove California è al suo top in una morbida Nature’s Way che diventerà il suo brano-simbolo, in una Love Has Found A Way da fare ammattire di gelosia Brian Wilson, nell’avvolgente e solenne Soldier con la quale gli Spirit più Spirit di tutti si congedarono. Il 30 gennaio 1971 al newyorkese Fillmore East Randy California, Jay Ferguson, John Locke, Mark Andes e Ed Cassidy calcavano una ribalta (non considerando fugaci rimpatriate nell’agosto ’76 e nell’ottobre ’91 e una meno effimera reunion durata dal dicembre ’82 all’agosto ’84) per l’ultima volta tutti e cinque insieme. Da lì in avanti gli Spirit saranno Randy, Ed e chi passava da quelle parti.

Ecco, avrei potuto metterla qui la parola “fine”. Sorvolando su brutture come l’atroce “Feedback”, dato alle stampe da un gruppo con dentro Locke e Cassidy ma senza California e insomma lo “Squeeze” (vedi Velvet Underground) degli Spirit. Sorvolando sull’acrimonioso divorzio di Beatrice e Ed che poneva in una condizione impossibile Randy, legatissimo a entrambi. Sorvolando sull’esaurimento nervoso cui il nostro uomo soccombeva definitivamente in un 1973 segnato dal furto della strumentazione, da un tentato suicidio, da un ricovero in clinica per disintossicarsi. E sarebbe rimasto giusto lo spazio per dire di una morte assurda, il 2 gennaio 1997, non ancora quarantaseienne, nel pieno di una stagione umanamente e – massì – artisticamente felice, di autentica rinascita, ripulito da ogni vizio e intento a riprendersi la vita: tuffatosi fra le onde del Pacifico di fronte alle coste di un’isola delle Hawaii per soccorrere il figlio dodicenne Quinn, lo portava in salvo ma era lui, nuotatore provettissimo, a scomparire fra i flutti. Poi per una postilla, per raccontare di come ho scoperto, proprio compiendo le ricerche per questo articolo, che lo scorso agosto pure John Locke ci ha lasciati. Diavolo di un Cassidy… finirai per seppellirli tutti. Ma vi avrei allora tenuto all’oscuro, se già non fate parte del circolo degli happy few, di due album stratosferici.

Il primo datato 1972, debutto in proprio di un Randy California fiancheggiato fra gli altri da un Noel Redding sotto mentite spoglie: in “Kapt. Kopter And The (Fabulous) Twirly Birds” nel mentre si mette a nanna il fantasma di Hendrix si inventano Kyuss e compagnia stoner con quei vent’anni di anticipo (ascoltare la pazzesca versione della beatlesiana Rain per credere). Il secondo del 1975 a dispetto di un titolo che recita “Spirit Of ’76”. Nelle cui quattro facciate da quello che è oggettivamente un delirio di stampo mistico-fantascientifico Randy cavava riflessioni sull’America anche acute e il campionario più straordinario, vasto e sentito di uno stile da sempre impareggiabile collezione di stili. Fra questi solchi una Hey Joe degna di Jimi (e c’è anche The Star Spangled Banner) e due delle più magnifiche cover di Dylan mai incise da chiunque: una The Times They Are A’Changing più estatica che profetica, una Like A Rolling Stone compassionevole invece che irosa. Fra questi solchi il marziale country di Lady Of The Lakes e lo sfrigolare funk di Sunrise, una My Road da Donovan geneticamente ed elettricamente modificato e una Thank You Lord sacrale come il titolo promette. Qui Joker On The Run: un ilare folk-rock più Monkees che Byrds, ma dei Monkees convinti di essere i Grateful Dead. In una qualche dimensione parallela è stata un grande hit. In una qualche dimensione parallela, Randy California ha avuto indietro dal Destino il maltolto e chiacchiera di delfini con Fred Neil. Finalmente pacificato.

Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.104, gennaio 2007.

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Ken Stringfellow – Danzig In The Moonlight (Lojinx)

Ken Stringfellow - Danzig In The Moonlight

Sono nel bel mezzo del rush di chiusure consueto per la prima decade del mese e che nell’arco di cinque o sei giorni mi porterà a scrivere complessivamente di quella trentina di album, fra nuove uscite e ristampe, e meno male che stiamo entrando nel periodo tradizionalmente meno affollato di uscite dell’anno. Fra ieri e oggi mi devono essere arrivati quegli altri quaranta dischi e meno male che ormai di promozionali “veri” (al diavolo gli mp3) quasi non se ne vedono più rispetto a una volta. E poi me n’è stata recapitata un’altra decina che, visto che c’ero, ho invece  comprato e che dite? Che l’ho fatto perché non sapevo che ascoltare? Quando al prossimo processo l’avvocato proverà a dimostrarmi non nel pieno possesso delle facoltà mentali potrebbe essere un bell’asso nella manica. Insomma: in certi momenti più nolente che volente, mi tocca fare girare più musica di quanto non dovrebbe essere umanamente lecito, più di quanta ne infliggerei al mio peggiore nemico ed è diventato per me tristemente normale non avere idea del formato in cui posseggo un disco e dovere rileggermi per sapere che ne penso. Meno male che occasionalmente salta fuori qualcosa di così bello da giustificare, o quasi, tutta la vita più che mai preziosa sprecata ascoltando roba brutta, o semplicemente (che è peggio) nemmeno troppo scadente ma inutile. “Danzig In The Moonlight” non è a tal punto memorabile da finire dritto nella suddetta categoria. Lo è abbastanza da iscriversi a un’altra: album che per fortuna un qualche giornale mi ha chiesto di recensire e così non mi sono limitato a un ascolto o due  per poi cancellarne l’esistenza. Al primo impatto mi era parso caruccio, niente di più, per quanto con una singola canzone sopra la media. Frequentandolo è salito, ma tanto.

Che il signor Ken Stringfellow, da Hollywood ma adottato da Seattle, sia insieme un figo e uno sfigato dovreste saperlo. Non si può definire altrimenti uno che ha suonato con i Big Star e però con gli ultimi Big Star, non con la formazione storica (aveva del resto due anni e mezzo quando usciva “#1 Record”). Che è stato una presenza più o meno costante in dieci anni di R.E.M. ma disgraziatamente quelli che in prospettiva non lasceranno traccia. Che, soprattutto, è stato e di recente è tornato a essere una metà di quei Posies che trovarono in fretta un domicilio nientemeno che presso la Geffen, salvo stabilire dei record negativi di vendite per l’etichetta e riuscire a farsi licenziare quando il semplice essere di Seattle era condizione sufficiente a farsi offrire contratti multimilionari. Nemmeno io, che di power pop sono discretamente fanatico, devo avere  in casa più di due o tre dei loro album in studio e mi risulta ne abbiano fatti otto. Messi tutti insieme, devono avere totalizzato un millesimo degli incassi di Alicia Keys e mi tocca riconoscere un concorso di colpa. Provo a emendarmi propagandando un lavoro che, essendo ancora qui, fra vent’anni potrebbe essere un “Presi per il culto”, puntata mille o all’incirca. Siate previdenti, procuratevelo adesso.

In altri tempi, prima che si potesse comprare/scaricare un brano alla volta, “110 0r 220V” sarebbe stata la classica canzone della quale si diceva che bastasse da sola a giustificare l’acquisto di un album. Voi rubatene un ascolto e se il suo folk-rock armonizzato Dylan non vi farà subito impazzire mi chiedo cosa lo stiate leggendo a fare VMO. E poi sappiate che nessuno dei tredici pezzi che completano la scaletta di “Danzig In The Moonlight” vale altrettanto ma che, privato di un simile apice, resterebbe comunque un disco da 7. In forza della ballata glam Jesus Was An Only Child e di una gemma di blue-eyed soul chiamata Superwise, della pianamente pianistica History Buffs e del jingle-jangle eccentrico You’re The Gold, del blues da vaudeville Drop Your Pride (si è capito che è un disco variegato?) e del rintoccare di corde cui si appendono cuori solitari in dialogo di Doesn’t It Remind You Of Something. Giusto per fare qualche esempio, eh? Pray mi piacerebbe passarla ad Al Green, per sentire l’effetto che fa.

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Quando i Metallica erano la Rivoluzione

Sono trascorsi trent’anni (e qualche mese) dacché un quartetto di under 21 debuttava discograficamente partecipando a un’antologia – “Metal Massacre” – che suscitava una qualche eco giusto fra i più maniacali cultori di heavy. Da un esordio sottotraccia a un’epopea e una rivoluzione. In dieci anni e cinque album.

Metallica

Nella Hit The Lights inclusa nella raccolta di cui sopra, e proveniente da un demo inciso nell’autunno ’81, ci sono in realtà solo due dei Metallica che saranno, vale a dire il chitarrista ritmico e cantante James Hetfield e il batterista – danese – Lars Ulrich, che si erano conosciuti poco prima in quel di Newport Beach, California. Gli altri sono comprimari arruolati per l’occasione. Un chitarrista solista, Dave Mustaine, arriverà da lì a breve ma si fermerà appena il tempo necessario a scoprire di non essere fatto per un pollaio di soli galli: se ne andrà per formare i Megadeth e con gli ex-compagni sarà subito rivalità fierissima. Di un primo bassista, Ron McGovney, si perderanno viceversa in fretta le tracce. Ma già prima di arruolare in quei ruoli rispettivamente Kirk Hammett e Cliff Burton, e non avverrà che a inizio 1983, nell’embrione di Metallica che registra il brano in questione i semini di quanto verrà sono in germoglio. Infatti, se le parti di chitarra hanno un gusto tipicamente metal la ritmica echeggia il punk – la voce in mezzo – e non si era mai sentito nulla di simile. Non si era mai nemmeno immaginato nulla di simile, siccome trattavasi di mondi lontani e in lotta anche – come dire? – ideologicamente e questo nonostante in Gran Bretagna complessi come Motörhead e Iron Maiden avessero evidenziato da subito le contiguità. È però soltanto con i Metallica di Hit The Lights che nasce sul serio una nuova concezione del rock pesante, depurata dagli stereotipi sessisti, dai belletti del glam, da un’epicità fine a se stessa e inconciliabile con il quotidiano, dal tecnicismo esasperato. È grazie a loro che il metal, ibridandosi con il punk, recupera energia genuina, non artefatta, e diventa un genere “di confine”, non più intrappolato dentro rigide coordinate stilistiche bensì aperto alle contaminazioni. Senza Hetfield e Urlich, e poi Hammett e Burton e Newstead, saremmo probabilmente ancora alle pagliacciate masturbatorie di cui Spinal Tap fu parodia irresistibile perché perfettamente centrata. E pazienza se quelle pagliacciate restano parte di una musica che non è una ma dieci o cento e i Metallica stessi, completando malauguratamente il cerchio, nella loro multimilionaria e astiosa media età (ricorderete la polemica contro il download) hanno finito per fare un disco con l’orchestra: la loro rilevanza storica, vero e proprio spartiacque, non ne viene toccata. In assenza della compagine californiana la musica hard’n’heavy degli ultimi due decenni sarebbe stata assai diversa e infinitamente meno intrigante e variegata, appannaggio di un pubblico conservatore caratterizzato da una chiusura mentale estrema (quella sì, mica i suoni) e non piuttosto terreno di caccia e coltura di musicisti disposti al rischio e appassionati curiosi, senza pregiudizi.

Naturalmente tutto ciò in Hit The Lights non era che in nuce e ci vorrà un più corposo pronunciamento, in forma di LP edito nell’83 dalla Megaforce, perché almeno la stampa più attenta si renda conto che qualcosa di nuovo si sta muovendo nei territori del rock duro. Formidabile “Kill’em All”, apertura affidata all’unico brano già edito, chiusura al rovinoso maelstrom di Metal Militia e in mezzo altri otto pezzi mozzafiato. Si va da The Four Horsemen, epica e innodica come titolo impone, a una quasi stoogesiana Seek And Destroy (ma guarda un po’…), passando per una breve e affilata Motorbreath (guarda un po’ 2), per una Jump In The Fire che modernizza gli AC/DC con un riff granitico e un ritornello di impatto, per una (Anesthesia) Pulling Teeth con influenze Black Sabbath e persino psichedeliche che sfumano nell’assalto all’arma bianca di Whiplash. E ancora: per Phantom Lord, riff micidiale, breve intermezzo acustico e sprintata ripartenza, e No Remorse, in cui la solista spadroneggia ma senza esibizionismi di grana grossa. Una pietra miliare.

Non altrettanto eccitante (arduo del resto dare a cotanto debutto un successore completamente all’altezza) ma in ogni caso notevole “Ride The Lightning”, del 1984 e sempre su Megaforce. Che contiene alcune cose “radiofoniche” quali la title-track, Trapped Under Ice ed Escape, qualche brano sulla falsariga thrash del primo album (Creeping Death il migliore) e il gioiello The Call Of Ktulu, superbo strumentale di indole progressiva omaggiante il maestro dell’horror letterario H.P. Lovecraft. Soprattutto, ed è inclusione di quelle che strappano stelle al cielo, contiene Fight Fire With Fire, strepitoso esempio di grind ante litteram, assai prima e meglio dei Napalm Death e dei loro digrignanti discepoli. Altra classe, i Metallica.

Trascorrono due anni ed ecco arrivare nei negozi quello che parve il disco della maturità, della definizione di un canone che subirà invece innumerevoli aggiunte e aggiustamenti ancora. Primo atto del matrimonio con la Elektra tuttora perdurante, “Master Of Puppets” si colloca nell’esatto mezzo fra i predecessori con il bonus di una scrittura la cui raffinatezza resterà – quella sì – insuperata. In esso a trascinanti, forsennate cavalcate elettriche come Battery, Disposable Heroes e Damage Inc. si alternano classici dell’heavy evoluto come la canzone che lo intitola (monumentale e liricissimo l’assolo di chitarra al centro) e Orion, prossima a certi Hawkwind e seguito ideale di The Call Of Ktulu. A questo punto i Metallica sono beniamini della critica rock in generale, non solo di quella metal. A questo punto i Metallica sono beniamini non soltanto più dell’underground: l’album sale nelle classifiche statunitensi fino al ventinovesimo posto, una performance di tutto rispetto. È anche più diffusa la loro popolarità in Europa ed è proprio nel Vecchio Continente che i ragazzi sono in tour quando – per crudele ironia della sorte in Danimarca, patria di Ulrich – si abbatte su di loro una tragedia che sembra per un attimo destinata a interromperne l’ascesa, decretarne lo scioglimento, consegnarli anzitempo ai libri di storia della musica. Il 27 settembre 1986 l’autobus su cui viaggiano esce di strada e Burton muore. Non aveva che ventiquattro anni e mezzo. Colpo devastante e che divide in due la vicenda dei Metallica: prima un gruppo “di genere” ma nell’ambito di quel genere sovvertitore di qualsiasi regola; dopo, un gruppo di fama universale e decisamente transgender ma, nel contempo, non più propulsivo. Non se ne fa una questione di qualità, e anzi è opinione diffusa e che mi sento di sottoscrivere che il capolavoro dei Nostri sia il loro quinto album, l’omonimo datato ’91, ma di spinta innovativa via via più frenata. Di un guardare indietro in luogo che avanti. Della qual cosa non appena Jason Newstead prende il posto del caro estinto si ha eclatante ancorché eccitante indicazione con il mini “Garage Days Re-Revisited”, ruvido campionario di cover di quantomai varia provenienza – Diamond Head, Holocaust, Killing Joke, Budgie e Misfits – che sdogana sì il punk e persino la new wave presso il pubblico metal più aperto ma per la prima volta vede la band inserirsi in un filone – sia pure il più laterale possibile – di classicismo rock. Bulimico ove “Garage Days” aveva optato per una concisione settantasettina, l’anno dopo – e siamo arrivati al 1988 – “…And Justice For All” sembra andare in direzione opposta, verso folk e progressive piuttosto che punk e new wave, ma è per l’appunto apparenza. Sarà il primo disco dei Metallica a entrare nei Top 10 USA e nondimeno fu controverso allora e non è invecchiato bene, azzoppato dall’eccesso di ambizioni e più ancora da una produzione assurda: fredda, esile, piatta. Capace di sciupare l’unico momento di grandezza autentica, la ballata One. I tre anni seguenti saranno dedicati nell’ordine: 1) a consolidare una popolarità ormai enorme in ogni angolo del globo; 2) a riprendere fiato e raccogliere le idee; 3) a concretizzarle, tali idee, e stavolta facendo in modo che la produzione non le opacizzasse ma il contrario. Splendida splendente e per sempre una medaglia al collo di Bob “nomen omen” Rock. Esito un indiscutibile trionfo, tanto artistico che commerciale.

Che dire di un disco, ribattezzato subito il “Black Album”, vendutosi in milioni di copie (sette nei soli Stati Uniti) e al numero uno su entrambe le sponde dell’Atlantico? Se non che nell’ultimo annus mirabilis del rock, l’anno di “Screamadelica” e “Nevermind”, “Spiderland” e “Loveless”, fa la sua figurona, pur senza spostare in avanti (come quelli) alcun paletto e anzi retrocedendo verso riff levigati e ballate distese. È semplicemente la qualità compositiva a renderlo immenso, l’immediatezza di materiali che tuttavia reggono la frequentazione assidua. Andato a trovare in sala prove non ricordo quale gruppo nostrano, rammento che restai sbalordito sentendo nello studio accanto un’altra band che coverizzava Enter Sandman. Il “Black Album” era uscito da due giorni, forse tre: quel che si dice un classico istantaneo.

Nel ’96 “Load” replicherà formula e successo e sarà l’ultimo baluginare di ispirazione vera, l’ultimo disco capace di moderate e positive sorprese come un tocco di country qui, uno di boogie sudista là. Prima degli scarti all’ammasso di “Re-Load”. Prima di una seconda e più cospicua collezione di cover, “Garage Inc”. Prima soprattutto delle patetiche per quanto stereotipate storiacce di droga di Hetfield, delle dimissioni di Newstead, di un album con l’orchestra (“S&M”) imbarazzante sin dal fatto stesso di essere stato concepito, prima di un “St. Anger” che nel 2003 ha – probabilmente definitivamente – certificato nei Metallica dei ricchi e reazionari reduci di una rivoluzione che pare ben più lontana di venticinque anni.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.632, marzo 2007.

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Presi per il culto (27): Paul Roland – Danse Macabre (Bam Caruso, 1987)

Paul Roland - Danse Macabre

Povero Paul Roland! Nemmeno uno straccio di scheda sulla “All Music Guide” e dire che da quelle parti sul serio non se ne nega una a nessuno, cane o porco che sia. Niente. Un po’ di dischi messi in fila, non uno che sia degnato di due righe di commento, e questo è quanto. Povero Paul Roland, la cui discografia annovera a oggi – informa la voce succinta ma ben fatta che gli dedica Wikipedia – ben novantaquattro uscite, più trentanove partecipazioni ad antologie di autori vari, e non una volta una che il suo nome abbia fatto capolino nelle classifiche di una patria un po’ matrigna, se è vero come è vero che a un certo punto la lasciava per la più ospitale Germania. Dove non sarà una vera star, come non lo è mai stato né in Francia né in Italia, gli altri due paesi che nel tempo gli hanno prestato una qualche attenzione, ma quantomeno un agguerrito manipolo di cultori lo vanta. E allora, in fondo, perché mai “povero” Paul Roland? Tutto sembra indicare che l’uomo abbia una bella capacità di gestire al meglio la sua duplice attività di musicista e scrittore dalla produzione anche più fitta, fine narratore di racconti di mistero e immaginazione così come saggista a suo agio prevedibilmente con i temi dell’occulto ma pure – recentissimamente – apprezzato biografo di Marc Bolan. A un certo punto, erano i primi ’80, si ritrovò ad avere come manager la vedova del compianto tirannosauro, sfortunatamente non funzionò ma il numero di telefono a quanto pare lo aveva tenuto.

Dire che l’ho conosciuto, Paul Roland, sarebbe un po’ eccessivo. Ci scambiai qualche parola in una rigida notte d’inverno torinese, lui interessatissimo alla fama di città magica della capitale sabauda, stupore e compiacimento evidenti nell’alzare gli occhi e scoprire di continuo demoni sporti in agguato dalle facciate del centro storico. Ne conservo il ricordo di un gentiluomo di altri, ottocenteschi tempi, più maturo e posato degli anni che aveva e che ancora non erano trenta. Doveva essere il dicembre ’87, o forse il gennaio successivo. Era dunque il tour che portava in giro, unico complice l’allampanato violista Piers Mortimer, proprio “Danse Macabre”. Magari sarà anche a ragione di ciò che, fra i numerosi titoli che posseggo dell’artista tornato da un po’ a risiedere nel Cambridgeshire, per questo nutro un affetto particolare. E però è stato un riascolto a campione a confermarmi nell’idea che resti la sua opera più ispirata e a dissuadermi dal proposito invero snob, desiderando proporvi qualcosa di costui, di estrarre dagli scaffali il ben più stagionato (e a nome Midnight Rags) “The Werewolf Of London”: produzione giovanile (1980) di un ventenne talentuoso quanto acerbo ed eccessivamente propenso, fra una cavalcata glam e una tentazione prog, un intarsio acido e un’eco lontana di new wave, a un’opulenza strumentale dalla quale si emenderà.

A parte che è il più bello, volendo avere di Paul Roland un solo album è “Danse Macabre” quello da mettersi in casa (vi costerà due spiccioli, massimo quattro) pure perché è il più rappresentativo, il più esemplare. Mirabile paradigma di psichedelia fra il gotico e il moderatamente barocco che il Nostro aveva affinato, prima di questo che formalmente era il suo debutto da solista a 33 giri, in una robusta sequela di singoli, EP e mini (formidabile sinossi nella raccolta “House Of Dark Shadows”). Si tiravano in ballo per descriverla Syd Barrett (omaggiato direttamente con una Matilda Mother ondeggiante sull’orlo del valzer), Robyn Hitchcock e Julian Cope e sono paragoni che ci stanno. Ma fate il primo un po’ Edgar Allan Poe e un po’ Mister Hyde, del secondo rimpolpate l’esilità delle trame, al terzo sottraete qualche guizzo pop e mediamente un tot di decibel, sebbene il suggello Twilight Of The Gods morda hardelico. Brillante congedo da un album che si presenta con l’al pari incalzante Witchfinder General e offre nel prosieguo momenti di particolare memorabilità con la marcetta perfidamente suadente Madam Guillotine, con la ballata dalle fragranze inusitatamente mediterranee Still Falls The Snow, con una Gabrielle che resta quanto di più vicino a una possibile hit abbia mai vergato il nostro eroe. E ancora: con l’arcaico folkeggiare di Buccaneers. E poi e infine: con il raga adeguatamente drogato (drogatissimo) In The Opium Den. Quando sarei disposto a scommettere che mai in vita sua Messer Roland abbia assunto qualcosa di più forte di una bollente tazza di thè verde.

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