Apprendo ora che il grande, grande, grandissimo Ed Cassidy ci ha lasciati ieri. Non vale dolersene. Aveva ottantanove anni e fino all’ultimo è stato vivo, vivo, vivissimo. Meglio levare un ideale calice e brindare a colui che già nel 1967 era il batterista rock più anziano al mondo, in un tempo in cui si diffidava di chi aveva più di trent’anni e lui ne aveva quarantaquattro. Lo celebro, il vecchio Cass, riprendendo questo lungo articolo che dedicai sulle pagine di “Blow Up” alla band cui resterà legata per sempre la sua memoria, gli immensi Spirit.

“Un genio patetico e torturato… un bambino prodigio che non ebbe mai un’infanzia”: parole di Mark Andes, bassista dei primi e per qualcuno unici Spirit, titolari fra il 1968 e il 1970 di tre abbacinanti capolavori e in mezzo di un altro disco ineguale, sì, ma routinariamente sottovalutato giusto perché costretto a viaggiare in compagnia di simili pesi massimi. Album oltre che enormi peculiarissimi in un tempo in cui il rock era ancora giovane, ed entusiasmante, e un alberello che non la smetteva più di slanciare verso il cielo nuovi rami. Non si era mai sentito nulla del genere, inestricabile intreccio di un folk sognante e un jazz cerebrale ma dal cuore caldo, di una psichedelia lunare ma fantasticamente pop nella sua quintessenza e un proto-hard germogliato da semini blues. Né si è mai più sentito, siccome gli Spirit furono un irripetibile unicum che come tale non ha avuto epigoni. Loro deus ex machina, al di là dei crediti su copertine ed etichette, il torturato genio di cui sopra. Randy California ci ha prematuramente lasciati il 2 gennaio di dieci anni or sono. Fosse vissuto di più, per la storia del rock non sarebbe probabilmente cambiato niente e sia detto senza sminuire i suoi ultimi vent’anni, in cui fece ancora cose discrete, buone, anche ottime. Se però fosse nato un po’ prima, diciamo nel 1948 invece che il 20 febbraio 1951, la storia del rock sarebbe stata probabilmente molto, molto diversa. La mente vacilla al pensiero di cosa avrebbero potuto combinare insieme lui e un certo altro chitarrista gli fosse stato possibile raccogliere l’invito di costui a seguirlo a Londra. Così non fu. Randy aveva quindici anni e sei mesi. La madre glielo proibì, il patrigno – musicista lui pure – idem e, se anche gli avessero detto di sì, una volta arrivato in Gran Bretagna gli sarebbe stato rifiutato il permesso di lavoro e l’avrebbero rispedito a casa. Jimi Hendrix dovette partirsene da solo.
“Hendrix era unico, però unidimensionale. Suonava sempre da Hendrix, mentre Randy in un momento suonava come Hendrix e l’attimo dopo era partito per tutt’altre tangenti.”
A parlare in questo caso è Ed Cassidy, proprio quel patrigno che disse di no al ragazzetto. Suonavano già insieme da un po’, avrebbero continuato a farlo per tre tondi decenni. Cassidy sa cosa dice. E, al di là dei voli pindarici in cui ci si può lanciare immaginando quello che non fu, ciò che è stato resta e non smetterà mai di stupire. Così come rimase lo pseudonimo che proprio il chitarrista di Seattle appiccicò, in quel di New York, al suo controaltare losangeleno. Nei Jimmy James & The Blue Flames i Randy erano due e Jimi prese l’abitudine di chiamarli con il nome degli stati di provenienza. Texas e California. California fu.
Era nato Randy Craig Wolfe e quando imbracciò per la prima volta una sei corde lo strumento era più grosso di lui. Aveva cinque anni e fu la madre, Beatrice Pearl, musicista di area folk di discreta fama, a insegnargliene i rudimenti. Uno zio dal suo canto era il proprietario dell’Ash Grove, uno dei più rinomati club della Città degli Angeli, e capitava spesso di conseguenza che passassero da casa di Beatrice, soggiornandovi magari qualche giorno, gli artisti ingaggiati dal locale. Il fanciullino ebbe ulteriori maestri oltre a mammà: per non citarne che alcuni, John Lee Hooker e Mississippi John Hurt, Doc Watson e Ramblin’ Jack Elliott. Il meglio in materia di blues, di country, di folk. Né disdegnava rock’n’roll e rhyhtm’n’blues e fu allora da subito chitarrista di fenomenale eclettismo. O il jazz, che ascoltava ancor prima che un batterista classe 1923 (non 1931, come si può leggere in qualche enciclopedia) e dal curriculum ragguardevole (ad avere usufruito dei suoi servigi fra gli altri Cannonball Adderley, Gerry Mulligan e Zoot Sims) entrasse nella vita di Beatrice e di conseguenza nella sua. Nel 1965 la madre divorziava dal padre di Randy, Robert Wolfe, un ricco uomo d’affari. L’anno dopo sposava Cassidy, conosciuto al di nuovo fatale (non sarà l’ultima volta) Ash Grove. Il matrimonio non durerà che quattro anni, ma il sodalizio artistico fra Ed e Randy gli sopravviverà di un abbondante quarto di secolo.
È il 1966, dunque. Da qualche mese l’insolità coppia – fra i due ci sono ventotto anni, che sarebbero un’enormità pure oggi e tanto più in un’epoca in cui i figli stanno ribellandosi ai padri e abissi vengono scavati fra le generazioni – condivide un gruppo che occhieggia al blues nella ragione sociale, Red Roosters, e ambisce a diventare (dichiara uno di loro, non identificato, in un’intervista a un giornale del posto) “l’equivalente per l’America di ciò che i Beatles sono per l’Inghilterra”. Niente di meno. A parte che fra loro c’è uno con un’età da professore, i Red Roosters sono in tutto e per tutto un complessino liceale. A parte, anche, che le gare per complessini liceali le vincono immancabilmente. Il secondo chitarrista è John Arden Ferguson, detto Jay, e al basso c’è Mark Andes, rispettivamente un 1947 e un 1948. Ce n’è persino un terzo di chitarrista, giustappunto un compagno alla Chatsworth High School di Jay e Mark, tal Mike Fondelier, di cui si perderanno le tracce. Come dire che quattro quinti della formazione classica degli Spirit sono già assieme. Ben allenati da Cassidy, che ha preso a frequentare il rock da non molto passando dalle parti di quei mitologici Rising Sons palestra sia per Ry Cooder che per Taj Mahal, i ragazzi inanellano un paio di decine di concerti e registrano un singolo che resterà però inedito. L’appassionato cacciatore di minuzie prenda nota che uno dei due brani è una cover di un cavallo di battaglia di Rufus Thomas, Walking The Dog, che California riprenderà parecchi anni dopo, nel monumentale “Spirit Of ’76”. A porre fine all’avventura dell’insolitamente assortito quattro più uno è la necessità dell’uno di rimediare suonando almeno il bastante a viverci. Ritenendo che potrebbe avere più opportunità di impiego da turnista a New York che a Los Angeles, Ed si trasferisce nella primavera del 1966 nella Grande Mela. A Randy tocca naturalmente seguirlo. Altro liceo, altro gruppo. Dureranno un paio di anni i Tangerine Puppets, non incideranno alcunché, il nostro eroe sarà con loro per qualche settimana appena, eppure forse da nessun altro complesso scolastico sono uscite così tante future stelle. A Randy-non-ancora-California sommate Walter Becker (Steely Dan), John Cummings e Tommy Erdelyi. Se i cognomi di questi ultimi due non vi dicono nulla, provate a sostituirli con “Ramone”. Esatto… Scappa da ridere, eh?
Un bel dì Randy si reca nel più rinomato negozio di strumenti del Village, il Manny’s Music Store sulla Quarantottesima. Vuole comprarsi un’altra chitarra. Incrocia un giovanotto di colore vestito sgargiantemente intento a provare un ampli. Scambiano due battute, si mostrano vicendevolmente qualche trucco, cominciano a suonare insieme e non smetteranno più per tre mesi. Al Café Wha?, sempre al Greenwich, Jimmy James & The Blues Flames saliranno sul palco cinque volte ogni notte, per sette notti alla settimana. È lì che Chas Chandler, in tour negli Stati Uniti con gli Animals, impazzisce a tal punto per Jimi Hendrix da appendere il basso al chiodo, diventarne il manager e portarselo di corsa a Londra. Come raccontato dianzi Randy, ora California e presto in California di nuovo, non può seguirlo. Il Fato ha in serbo altro per lui. Favolosa coincidenza che nel preciso giorno, il 27 maggio 1967, in cui “Are You Experienced” fa il suo ingresso nelle classifiche britanniche a un love-in in Griffith Park, a Los Angeles, gli inseparabili Randy e Ed, a zonzo con un loro amico, il ventitreenne tastierista John Locke, si imbattano casualmente in Jay e Mark. Ferguson e Andes vengono cooptati nei neonati Spirits Rebellious, entro breve Spirit. È un quintetto superbamente assortito, con un jazzista di solida esperienza come Cassidy a fare da chioccia, oltre che al versatilissimo figlioccio, a un secondo jazzista che alla bisogna sa suonare anche il rock (Locke), a un ragazzo cresciuto a blues e rock’n’roll (Andes) e a un altro di formazione classica (Ferguson) e per questo in grado di suggerire arrangiamenti assolutamente inusuali per i materiali che nascono da mesi di prove ininterrotte. Mentre intorno a loro ci si gode l’ebbrezza della Summer Of Love i cinque lasciano di rado la casa, con vista mozzafiato sul Topanga Canyon, affittata dal tastierista. Per i divertimenti, chimici e non, ci sarà tempo e alcuni dei nostri eroi e più di tutti il principale vi indulgeranno sin troppo. Per intanto si esercitano senza posa. Con atto di letterale nepotismo, Ed Pearl li invita a esibirsi ogni lunedì all’Ash Grove. È la sera cosiddetta morta, ma in poche settimane il pubblico da sparuto si fa tanto numeroso che il club non basta a contenerlo e le code intorno all’isolato diventano sempre più lunghe. Ne giunge voce a uno dei discografici più potenti della West Coast, Lou Adler. Appena tre mesi e due giorni dopo il fatidico incontro in Griffith Park, gli Spirit sottoscrivono un contratto per la sua etichetta, la Ode. L’omonimo album d’esordio prende velocemente forma negli studi hollywoodiani della CBS. È un avviso che il Destino, dopo essersi mostrato dapprincipio generoso, ha in serbo per il quintetto più spine che rose che la forma definitiva che gli imprime Adler, che si è assunto onori e oneri della produzione, sia però assai differente da quella immaginata da Randy, Ed e soci (il diciassettenne già indiscutibile star, nonostante firmi solamente due episodi su undici ove Ferguson ne sigla, da solo o in compagnia, nove). E il disco resterà per questo controverso, addirittura detestato da California, che non perdonerà mai al produttore di averci aggiunto archi e fiati, dandogli un sound più soffice di quello sul quale la band stava cementando la formidabile fama dei suoi concerti.
Io non posso però che giudicare quel che sento e ciò che sento è un 33 giri di strepitosa originalità, almeno pari a qualunque altra pietra miliare datata 1967 (a quell’anno appartiene, benché pubblicato nel gennaio ’68) e stiamo parlando dell’annus mirabilis per antonomasia del rock. Album di pura, ineffabile magia, dalle prime ticchettanti battute e dall’ondivaga, istantanea melodia dell’iniziale Fresh Garbage – brano subito incluso nel loro repertorio dai neonati Led Zeppelin – al suggello “in jazz” di Elijah, passando per la perfetta fusione fra i Beatles e i Pink Floyd coevi messa a punto in Uncle Jack e il raga di Girl In Your Eye, l’ipnosi pop di Topanga Windows e la circolare cantilena di Water Woman. A proposito di Zeppelin… Per Stairway To Heaven si “ispireranno” – mettiamola così: caritatevolmente – al primo, indiscutibile classico firmato da Randy California, Taurus. Sarà che è il primo LP degli Spirit che mi capitò di ascoltare e accadde in un età in cui ero più facilmente impressionabile di adesso. Sarà che da allora mi ha accompagnato in un tot di giretti oltre le porte della percezione ed è stato immancabilmente un cicerone squisito. Fatto è che a chi mi chiedesse da quale titolo approcciare gli Spirit gli suggerirei di partire dall’inizio, da qui. A chi mi domandasse di indicargli un unico articolo da acquistare in un catalogo che assortite antologie e riordini (o ri-disordini) di archivi stanno facendo sterminato, ebbene, darei la medesima risposta. Oppure (dipende dai giorni), andando di nuovo controcorrente, dando retta al cuore ma senza perdere di vista la ragion critica, gli consiglierei di catturare “Spirit Of ’76”, laddove tre quinti degli Spirit originali non ci sono. Scusami tanto, Randy.

Per i più – regolatevi – il capolavoro degli Spirit è però il successivo – uscito nel 1969 ma inciso nei primi mesi del ’68 – “The Family That Plays Together”. Ventiduesimo nella classifica di “Billboard”, dopo avere fruttato un numero 25 con il singolo fra rock’n’roll ed errebì I Got A Line On You, farina del sacco di un Randy seccatissimo che Lou Adler, ancora in cabina di regia, lo avesse sfidato a produrre un hit, se ne era capace. Lo fu e nondimeno, a parte che rimarrà l’unico successo vero del gruppo, ci sono gioielli che quando si spalanca il forziere del secondo Spirit paiono di caratura superiore: il sogno lisergico It Shall Be; una favolistica The Drunkard, resa struggente dagli archi; una Darlin If che è come se Dylan fosse stato il quinto di Crosby, Stills, Nash e Young; una Jewish che dispensa esattamente le fragranze etniche che il titolo evoca; una Aren’t You Glad nel cui perentorio finale solista e ottoni vicendevolmente si rincorrono. Guardi i crediti e scopri che la bilancia California-Ferguson si sta riequilibrando. Cinque a sei, adesso. Guardi il retro di copertina e sobbalzi vedendo un Ed Cassidy nerovestito e con sullo sfondo un paesaggio desolato che leva al cielo il braccio destro. Che diavolo gli passava per la testa? E che diavolo passò per la testa a Adler di sconsigliare ai Nostri di andare a Woodstock? Già non li aveva convocati a Monterey, il padre di tutti i festival, da lui stesso organizzato. Ci sono treni che passano una volta e se li perdi non andrai più da nessuna parte. Figurarsi quando hai la fortuna di avere una seconda possibilità e non l’afferri.
Al confronto è una sciocchezzuola il pasticcio combinato con “Clear”, pur’esso datato ’69 e nato come commento a una pellicola, Model Shop del francese Jacques Demy, che cominciò ad affondare al primo ciak del primo giorno di riprese e completò un naufragio a suo modo memorabile al botteghino. A quel punto Adler decideva di recuperare alcuni dei brani scritti per il film (la colonna sonora non vedrà la luce che nel 2005, su Sundazed) e di integrare con una manciata di canzoni. Da qui l’aria raccogliticcia e i forti scarti qualitativi fra questo e quel pezzo. A fronte di una Policeman’s Ball che è una Topanga Windows minore o di una Ice sospettosamente in anticipo sul progressive, della nenia fricchettona di Ground Hog o di una I’m Truckin’ che passa senza lasciar tracce, il funky-jazz di Dark Eyed Woman e un’assorta Cold Wind, un’incantata Give A Life, Take A Life e una New Dope In Town da qualche parte fra Stones e Dead svettano dalla cintola in su e in un’ideale raccolta del quintetto avrebbero certamente diritto di cittadinanza. Ciò detto, il vero torto di “Clear” è di trovarsi in mezzo a una compagnia tanto fulgida da rendere impietoso il raffronto. Ma paragonatelo a tanti dischi di psichedelia oggetti di culto fra certi presunti intenditori per il semplice fatto di essere di gente più oscura e li cancellerà agevolmente.
Per il rapporto già teso fra il discografico e il gruppo “Clear” e Woodstock sono un uno-due da K.O. Ciliegina sull’acida (non nel senso lisergico del termine) torta è che Adler si sbarazzi degli Spirit cedendoli alla Epic come parte dell’accordo che prevede che quella casa distribuisca un’artista della Ode che si accinge a togliersi e a regalare ben altre soddisfazioni mercantili, vale a dire Carole King. Poiché non tutto il male vien per nuocere, fa il suo ingresso in scena a questo punto il produttore David Briggs, di cui tutti ricordano i numerosi album con Neil Young e pochi che diede un decisivo apporto al policromo affresco di “Twelve Dreams Of Dr. Sardonicus”. Poiché tutto il male vien per nuocere, anche i rapporti interni al complesso si sono deteriorati, indistruttibile solo quello fra patrigno e figliastro. Il giovane Randy (fa strano dirlo: un veterano di diciannove anni) oltre a soffrire dei postumi di una commozione cerebrale dovuta a una caduta da cavallo sta entrando in una spirale di egocentrismo e paranoia, una magrezza che sconfina nell’anoressia, LSD e coca assunti in gran copia e sono sostanze che non vanno per niente d’accordo fra loro, figurarsi se assunte da uno che bordeggia la schizofrenia. Gli anni sotto pressione, l’infanzia negata da una madre ambiziosa per interposta persona ed esigentissima, l’adolescenza saltata per entrare direttamente nell’età adulta stanno presentando il conto. Come era accaduto con i Love di “Forever Changes”, come accadrà agli Sly & The Family Stone di “There’s A Riot Goin’ On” una situazione ai limiti e oltre della rottura frutta però un disco immane. Leggo da diverse parti di un album da intendere come l’esordio solistico di California ma a smentirlo basta un’occhiata ai crediti, con Ferguson e Locke che si assumono la paternità di sei (inegualmente divisi: cinque e uno) dei dodici sogni del Dottore. Vero d’altro canto, a sentire tutte le testimonianze, che man mano che ci si inoltrava nei sei interminabili mesi di lavorazione il nostro Randy prendeva sempre più in mano la situazione, emarginando gradualmente soprattutto Ferguson e Andes. I quali, intesa l’antifona, intraprenderanno a breve insieme la mediocre avventura Jo Jo Gunne, power band con pochi fronzoli e ancora meno estro, che una volta che ne hai ascoltato i dischi non riesci a capacitarti che si tratti dello stesso Ferguson che ha scritto una Fresh Garbage. E anche un paio delle canzoni più belle del bellissimo “Twelve Dreams Of Dr. Sardonicus”: il dinoccolato funk dallo spumeggiante ritornello di Animal Zoo, l’acida giostrina di Street Worm. Ove California è al suo top in una morbida Nature’s Way che diventerà il suo brano-simbolo, in una Love Has Found A Way da fare ammattire di gelosia Brian Wilson, nell’avvolgente e solenne Soldier con la quale gli Spirit più Spirit di tutti si congedarono. Il 30 gennaio 1971 al newyorkese Fillmore East Randy California, Jay Ferguson, John Locke, Mark Andes e Ed Cassidy calcavano una ribalta (non considerando fugaci rimpatriate nell’agosto ’76 e nell’ottobre ’91 e una meno effimera reunion durata dal dicembre ’82 all’agosto ’84) per l’ultima volta tutti e cinque insieme. Da lì in avanti gli Spirit saranno Randy, Ed e chi passava da quelle parti.
Ecco, avrei potuto metterla qui la parola “fine”. Sorvolando su brutture come l’atroce “Feedback”, dato alle stampe da un gruppo con dentro Locke e Cassidy ma senza California e insomma lo “Squeeze” (vedi Velvet Underground) degli Spirit. Sorvolando sull’acrimonioso divorzio di Beatrice e Ed che poneva in una condizione impossibile Randy, legatissimo a entrambi. Sorvolando sull’esaurimento nervoso cui il nostro uomo soccombeva definitivamente in un 1973 segnato dal furto della strumentazione, da un tentato suicidio, da un ricovero in clinica per disintossicarsi. E sarebbe rimasto giusto lo spazio per dire di una morte assurda, il 2 gennaio 1997, non ancora quarantaseienne, nel pieno di una stagione umanamente e – massì – artisticamente felice, di autentica rinascita, ripulito da ogni vizio e intento a riprendersi la vita: tuffatosi fra le onde del Pacifico di fronte alle coste di un’isola delle Hawaii per soccorrere il figlio dodicenne Quinn, lo portava in salvo ma era lui, nuotatore provettissimo, a scomparire fra i flutti. Poi per una postilla, per raccontare di come ho scoperto, proprio compiendo le ricerche per questo articolo, che lo scorso agosto pure John Locke ci ha lasciati. Diavolo di un Cassidy… finirai per seppellirli tutti. Ma vi avrei allora tenuto all’oscuro, se già non fate parte del circolo degli happy few, di due album stratosferici.
Il primo datato 1972, debutto in proprio di un Randy California fiancheggiato fra gli altri da un Noel Redding sotto mentite spoglie: in “Kapt. Kopter And The (Fabulous) Twirly Birds” nel mentre si mette a nanna il fantasma di Hendrix si inventano Kyuss e compagnia stoner con quei vent’anni di anticipo (ascoltare la pazzesca versione della beatlesiana Rain per credere). Il secondo del 1975 a dispetto di un titolo che recita “Spirit Of ’76”. Nelle cui quattro facciate da quello che è oggettivamente un delirio di stampo mistico-fantascientifico Randy cavava riflessioni sull’America anche acute e il campionario più straordinario, vasto e sentito di uno stile da sempre impareggiabile collezione di stili. Fra questi solchi una Hey Joe degna di Jimi (e c’è anche The Star Spangled Banner) e due delle più magnifiche cover di Dylan mai incise da chiunque: una The Times They Are A’Changing più estatica che profetica, una Like A Rolling Stone compassionevole invece che irosa. Fra questi solchi il marziale country di Lady Of The Lakes e lo sfrigolare funk di Sunrise, una My Road da Donovan geneticamente ed elettricamente modificato e una Thank You Lord sacrale come il titolo promette. Qui Joker On The Run: un ilare folk-rock più Monkees che Byrds, ma dei Monkees convinti di essere i Grateful Dead. In una qualche dimensione parallela è stata un grande hit. In una qualche dimensione parallela, Randy California ha avuto indietro dal Destino il maltolto e chiacchiera di delfini con Fred Neil. Finalmente pacificato.
Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.104, gennaio 2007.
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