Archivi del mese: gennaio 2013

Blow Up n.177

Graham Parker & The Rumour

È in edicola il numero 177 di “Blow Up”. Include anche e soprattutto, per quanto mi riguarda, un lungo articolo (otto pagine) che ho dedicato a Graham Parker e ai suoi anni rumorosi.  E poi e fra il resto mie recensioni di recenti ristampe di Argent, Chicken Shack, Curved Air, George Duke, Marianne Faithfull, Marvin Gaye, Ghetto Brothers e West, Bruce & Laing, del box di Bob Dylan “The 50th Anniversary Collection” e di due album solo digitali di Ryan Adams e Felice Brothers.  

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Yo La Tengo – Fade (Matador)

Yo La Tengo - Fade

Ridendo, scherzando e suonando bella musica, saranno fra poco trent’anni che gli Yo La Tengo son fra noi. Sta a Ira Kaplan, Georgia Hubley e James McNew (che con il cognome che si ritrova non può lamentarsi se, dopo due abbondanti decenni di militanza, è ancora quello “nuovo”) decidere quando festeggiare un traguardo così importante. Se l’anno prossimo, visto che era il 1984 quando Ira e Georgia decidevano di rendere il loro sodalizio, oltre che sentimentale, artistico oppure nel 2015, giacché il debutto discografico assoluto, con il sette pollici The River Of Water, data ’85. O se spostare ancora più in là le celebrazioni, essendo il 33 giri d’esordio “Ride The Tiger” una faccenda dell’86. Se rispetteranno l’ormai tradizionale iato triennale fra un’uscita maggiore e l’altra avranno allora da portare in tour, con i tanti stupendi insuccessi di una vita da cocchi della critica, il loro quattordicesimo album. Il tredicesimo è da un paio di settimane nei negozi e, se date retta a me, dovreste senz’altro farlo entrare in case dove auspicabilmente già dovrebbero avere trovato ospitalità i precedenti dodici, o almeno la stragrande maggioranza di essi, e possibilmente anche qualcuna (personalmente ho un debole per “Genius + Love”) delle diverse raccolte di inediti, rarità, versioni alternative. Sempre che per l’underground che da sempre di Velvet Underground si nutre nutriate un interesse pur minimo. Una volta che mi abbiano deluso in tutto questo tempo “ragazzi” e “ragazza”… ma dico una!

L’avrete inteso: con il trio di Hoboken sono di parte. Rispetto ad altri articoli del suo formidabile catalogo, “Fade” ha impiegato qualche passaggio in più a sbocciare completamente, a conquistarmi senza più riserve (tolta una interminabile traccia fantasma di sfiancante illbient più che ambient: pletorica fuga per pur meno rumorose tangenti di metal machine music). E nemmeno adesso e probabilmente mai lo indicherei come uno dei titoli da cui partire per avvicinarsi ai nostri eroi e che restano “Painful”, “I Can Hear The Heart Beating As One”, “And Then Nothing Turned Itself Inside Out”. E tuttavia se i suddetti già li avete… Ecco: se “Fade “somiglia – per suoni, respiro, atmosfere – a uno di questi capolavori è al secondo, al netto dei rockismi più pronunciati che ne perturbavano il suadente fluire. Qui le chitarre mordono e centrifugano in una iniziale Ohm appoggiata a una battuta quasi hip hop e stridono appena in una in ogni caso melodiosa Paddle Forward. Laddove invece sorridono e poppeggiano scintillanti in una Is That Enough che in un mondo migliore scalerebbe le classifiche e sono post-folk in una Stupid Things che trovo molto Stereolab (idem The Point Of It) e in una I’ll Be Around che sono i Cul De Sac alle prese con Nick Drake piuttosto che con John Fahey. Comunque felpate in una Two Trains dal passo prevedibilmente ferroviario e parimenti ma diversamente vellutate (ossia velvettiane) in una Before We Run (la più bella del mazzo in una lotta all’ultimo battimani con la contraddizione in termini in forma di minimalismo barocco di Cornelia And Jane) che è come chiudesse un cerchio: forse nell’unico brano in cui la mano del nuovo produttore (dopo diverse consecutive regie di Roger Moutenot) John McEntire si avverte davvero, in un’orchestrazione squisita di archi e ottoni, gli Yo La Tengo provano ad aggiornare “Forever Changes”. Per chi se lo ricorda, il retro di “The River Of Water” era una cover di “A House Is Not A Motel”.

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10 (+10) classici della new wave

Joy Division

Ho una grande notizia da dare al mondo: non c’è una cosa chiamata new wave. Non esiste. Non è che una fantasia da froci. Non è mai stata altro che una cosa gentile da dire quando stai cercando di spiegare che non ti piace il noioso, vecchio rock’n’roll ma non osi pronunciare la parola ‘punk’, perché hai paura che ti sbattano fuori dalla fottuta festa, che non ti diano più la coca. C’è musica nuova, c’è un nuovo underground, c’è il noise,  c’è il punk, c’è il power pop, c’è lo ska, c’è il rockabilly, ma new wave non vuole dire un cazzo.

Così Claude Bessy, allora direttore di “Slash”, esprimeva a Penelope Spheris la difficoltà a definire cosa mai fosse questa “new wave” di cui tanto si parlava. Persino il dubbio che esistesse. Era il 1980 e la tirata di Bessy è uno dei tanti momenti memorabili offerti da The Decline Of Western Civilisation, straordinario documentario sulla scena punk californiana. Vent’anni dopo, definire cosa  sia stata la new wave è ancora impresa improba. Ci proviamo, partendo come Bessy da cosa non è mai stata: non un genere, bensì un insieme di sottogeneri nati sulla spinta del punk. Una caratteristica condivisa da tutto il movimento: un’ansia sperimentale che spingeva a connubi d’influenze arditi e faceva  sì che ogni recupero fosse creativo. Ecco, quel che rese così eccitante la new wave è che era per l’appunto “new” anche quando i suoi elementi costitutivi erano già noti. “Niente Elvis, Beatles o Rolling Stones nel 1977”, avevano cantato i Clash appena due anni prima di convocarli tutti per quella summa di un quarto di secolo di rock’n’roll chiamata “London Calling”. La new wave mise viceversa in pratica quel manifesto, recuperando del rock precedente non la fisicità del rockabilly, del beat, del garage, ma la  cerebralità di psichedelici e tedeschi. Nello stesso modo in cui al reggae preferiva la sua variante più ostica, il dub, e al calore del blues e del soul un funky  più di testa che di bacino. Il punk era una faccenda di chitarre? La new wave rispose con l’elettronica. Il punk veniva dalle strade? La new wave dalle scuole d’arte. Ma la seconda non fu una reazione al primo, bensì una sua conseguenza, e tutti e due furono una reazione al progressive, ai cantautori, in parte alla disco.

Le rivoluzioni sono destinate a non durare, al massimo a lasciare eredità. Così è stato per la new wave, che giungeva al capolinea intorno al 1983-’84 ma tracce della quale sono individuabili oggi in quella composita scena che si suole definire post-rock e anche in campioni di vendite come i Nine Inch Nails o gli Smashing Pumpkins. Per non dire di chi già c’era allora e ancora c’è, come U2 o Sonic Youth.

Non resta che stabilire i limiti temporali della nostra indagine. Detto di quando morì, uccisa dall’emergere di tendenze passatiste, occorre individuare una data di nascita per la new wave. Si potrebbe fissare il lieto evento al 2 marzo 1974, data in cui i Television esordirono dal vivo. Furono loro a battezzarla anche discograficamente, nell’agosto ’75, con il 45 giri Little Johnny Jewel. Toccò ad altri newyorkesi, i Blondie, tagliare  per primi il traguardo del 33 giri, nel dicembre 1976. A meno di non volere riconoscere tale primogenitura ai Residents. Il meglio di sé, ad ogni modo, la new wave lo offrì fra il 1978 e il 1981.

The Cure - Three Imaginary Boys

CURE “Three Imaginary Boys” (Fiction, 1979) – Prima di diventare per una breve stagione alfieri del gotico (di cui “Pornography” è uno dei capisaldi), equivoco che ancora oggi li penalizza, i giovanissimi Cure mostrano la loro valenza di artigiani pop in un disco spumeggiante in cui intingono nell’LSD riff alla Jam e fanno suonare Jimi Hendrix con i Devo, sciorinano beat di rara grazia per poi sporcarlo di isteria. Un classico, sebbene la sua versione americana, “Boys Don’t Cry” (PVC, 1980), gli sia preferibile per le preziose aggiunte, fra le altre, della title-track e di Killing An Arab.

Devo - Are We Not Men

DEVO “Q: Are We Not Men? A: We Are Devo!” (Warner Bros, 1978) – Si dovesse scegliere una sola canzone per spiegare cosa fu la new wave, la più autorevole candidata sarebbe la versione di Satisfaction dei Rolling Stones elaborata dal quintetto di Akron: cibernetica proiezione nel futuro di uno dei topoi del rock’n’roll. Umanissimi (umanistici) cantori dell’alienazione indotta dal trionfo della tecnologia, i Devo dipinsero un mondo paranoico riscattandolo con un’ironia mordace. Perché ciò che distingue l’uomo dai robot è che costoro non impareranno mai a ridere.

Joy Division - Closer

JOY DIVISION “Closer” (Factory, 1980) – Quando il secondo (e ultimo vero) album dei mancuniani venne pubblicato, Ian Curtis era già materia organica in decomposizione. Il Jim Morrison della sua generazione (ma in lui non vi era nulla dell’orgiastico vitalismo del leader dei Doors) aveva posto fine alla sua esistenza impiccandosi e quella tragedia è stata determinante per cristallizzare l’immagine dei Joy Division, giovani ammaliati da invincibili malinconie che si concedono un empito di ribellione prima di arrendersi, inani, alla tragedia della vita.

Pere Ubu - The Modern Dance

PERE UBU “The Modern Dance” (Blank, 1978) – Altri paesaggi industriali americani oppressi da un cielo plumbeo di smog. Dalla Akron dei Devo alla Cleveland di David Thomas e soci cambia l’approccio allo spartito: qui più tribale, convulso, meno Kraftwerk e più Captain Beefheart, una parte di acido solforico e una di acido lisergico in un intossicante cocktail. Protagonisti di una delle poche rimpatriate con un senso nella storia del rock, i Pere Ubu da conoscere assolutamente sono tuttavia questi. La danza moderna muove su un filo di esuberanza, su abissi d’angoscia.

Public Image Ltd - The Metal Box

PUBLIC IMAGE LTD. “The Metal Box” (Virgin, 1978) – Pagati i debiti residui con il punk con il debutto “First Issue”, Johnny “non più Rotten” Lydon, Keith Levene e Jah Wobble stilano un capolavoro di sintesi in cui il krautrock collide con il dub e si stempera in una malevola ambient che anticipa l’isolazionismo. Originale sin dalla confezione (una scatola di metallo del tipo di quelle usate per conservare le bobine dei film; le stampe successive, ribattezzate “Second Edition”, avranno una normale copertina di cartone), il secondo P.I.L. mette in musica Rimbaud come nessun’altro disco mai.

Souxsie & The Banshees - The Scream

SIOUXSIE AND THE BANSHEES “The Scream” (Polydor, 1978) – Come in quello di Munch, nell’urlo di Siouxsie ci sono orrore e disperazione autentici ma anche un che di beffardamente teatrale. È il quesito di sempre: l’arte imita la vita o è il contrario? Fatto sta che aggirandosi nelle tenebre fra queste dieci canzoni bellissime, archetipi senza colpa degli esangui stereotipi dark, si avverte che più che a una tragedia (come fu il caso dei Joy Division) si sta assistendo  alla compiaciuta rappresentazione di essa. Nondimeno magistrale.

Suicide - Suicide

SUICIDE “Suicide” (Red Star, 1977) – Fra i primi gruppi “rock” a rigettare la formula chitarra-basso-batteria per l’accoppiata marchingegni elettronici-voce (prima di loro i Silver Apples e qualche tedesco), i newyorkesi Suicide di tale stirpe sono tuttora i “più”: geniali, influenti, estremisti. A ventitré anni dall’uscita Frankie Teardrop, disturbante cronaca di follia domestica urlata da Alan Vega sui fondali da fabbrica creati dal synth di Martin Rev, è ancora un’esperienza d’ascolto radicale. E il resto è rockabilly da ventunesimo secolo, cantilene futuriste, perversione, dolcezza.

Talking Heads - More Songs About Buildings And Food

TALKING HEADS “More Songs About Buildings And Food” (Sire, 1978) – Dalle canzoncine nevrasteniche del precedente “77” all’ossessivo funky di “More Songs” il passo sembrerebbe lungo. Lo è in effetti, ma con l’aiuto di Brian Eno i Talking Heads lo compiono senza inciampi. È l’inizio di quel flirt con la musica nera che porterà in due anni, per tramite di “Fear Of Music”, alle sinfonie poliritmiche africaneggianti di “Remain In Light”.

Television - Marquee Moon

TELEVISION “Marquee Moon” (Elektra, 1977) – John Coltrane che incontra i Moby Grape: così si potrebbero riassumere – Tom Verlaine benedicente, avendo egli sempre dichiarato tali influenze – i programmi della migliore TV che abbia mai trasmesso dalla Grande Mela. Free jazz e psichedelia insieme in visionari paesaggi urbani quali non se ne ammiravano dai tempi dei Velvet Underground. Altri numi tutelari esposti sin dal nome d’arte scelto dal giovane Tom Miller: i poeti decadenti francesi. Amore condiviso con l’amico ripudiato Richard Hell e la musa di sempre Patti Smith.

Ultravox - Sysetms Of Romance

ULTRAVOX “Systems Of Romance” (Island, 1978) – Senza più il punto esclamativo nella ragione sociale, gli Ultravox del terzo LP, ma per fortuna ancora con John Foxx, senza il quale produranno techno-pop la cui enfasi (smisurata) sarà direttamente proporzionale tanto alle vendite che alla pochezza delle idee. Altra storia i primi Ultravox!, versione aggiornata al dopo punk dei Roxy Music e di certo krautrock. Non a caso si scomodarono per produrli Eno e Conny Plank.

Ne voglio ancora!

BAUHAUS “The Sky’s Gone Out” (Beggars Banquet, 1982) – È il loro disco meno lugubre il capolavoro dei vessilliferi del gotico.

B-52’S “B-52’s” (Warner Bros, 1979) – Hanna & Barbera + Phil Spector + Devo =…

CLOCK DVA “Thirst” (Fetish, 1982) – Glaciale avanguardia.

ECHO AND THE BUNNYMEN “Heaven Up Here” (Korova, 1981) -Surreale e niente affatto revivalistica psichedelia.

GANG OF FOUR “Entertainment” (EMI, 1979) – Funky marxista. Irruento, algido e sghembo.

KILLING JOKE “Killing Joke” (EG, 1980) – Una danza di guerra mozzafiato.

POP GROUP “Y” (Radar, 1979) – Free jazz, funk, dub, punk, rumorismo e politica. Magmatico.

WALL OF VOODOO “Call Of The West” (IRS, 1981) – Morricone wave.

WIRE “154” (Harvest, 1979) – Electro-pop stralunato, fra estasi e fisicità.

XTC “Drums And Wires” (Virgin, 1979) – Se sono stati “i Beatles della new wave”, questo è il loro “Rubber Soul”.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.389, 21 marzo 2000. Ristampato in forma lievemente rimaneggiata sempre su “Il Mucchio”, n.697, agosto 2012.

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Velvet Gallery (10)

E dopo tre-album-tre finalmente qualcuno mi concesse, sul numero di “Velvet” del giugno 1989, di scrivere un articolo sui Flaming Lips, gruppo di cui ero cultore oltranzista sin dalla ristampa su Pink Dust dell’altrimenti introvabile EP d’esordio. Alla critica statunitense e britannica ne serviranno ad ogni buon conto altri tre di album dei Nostri per accorgersi della loro esistenza. Mi perdonerà allora, il lettore odierno, un evidente errore in cui incappavo in un pezzo scritto con a disposizione fonti a dir poco lacunose.

Flaming Lips - Apocalips Now 1

Flaming Lips - Apocalips Now 2

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Bruce Springsteen 1973-1995 (3): Born To Run

Born To Run

Thunder Road. Tenth Avenue Freeze-Out. Night. Backstreets. Born To Run. She’s The One. Meeting Across The River. Jungleland.

Columbia, ottobre 1975 – Registrato presso i 914 Sound Studios di Blauvelt e il Record Plant di New York – Tecnico del suono: Jimmy Iovine – Produttori: Bruce Springsteen, Jon Landau, Mike Appel.

Ricordava Springsteen in un’intervista del 1974: “Per diversi anni non ho avuto un giradischi. Più o meno da quando i miei si trasferirono a ovest a quando sono venuto a New York. Di conseguenza, si può dire che io non abbia ascoltato davvero alcun album uscito dopo il 1967”. È lecito chiedersi, dunque, come sarebbe stata la musica del Nostro se avesse avuto quell’esposizione alla psichedelia (conosciuta solo per breve contatto diretto, al tempo del soggiorno californiano degli Steel Mill) e ai cantautori intimisti dei primi ’70,  che invece non ebbe. Ma dopo averci riflettuto un po’ si giunge alla conclusione che probabilmente nulla sarebbe cambiato. Non per incompatibilità del Nostro con Jefferson Airplane o James Taylor, beninteso, giacché ha sempre dimostrato un eclettismo negli ascolti e un’apertura mentali notevoli, bensì perché nel 1967 (aveva allora diciotto anni) la sua formazione musicale era completata e tutta o quasi orientata verso suoni neri o influenzati dai neri, e non molta psichedelia e pochissimi cantautori saranno sensibili a quelle influenze. Soprattutto, perché l’arte di Springsteen è proustianamente volta alla ricerca del tempo perduto e nella memoria niente resta impresso come il primo giorno di scuola, una festa più speciale di altre, una gita o un litigio con i genitori, il primo bacio. E le canzoni che di tutto ciò sono state colonna sonora, inseguite alla radio, suonate su un impianto da poco o abbozzate, incespicando ed esaltandosi, sulla prima chitarra.

Si dice che i musicisti possano essere divisi in due categorie. Della prima fanno parte i Peter Buck e gli Elvis Costello, semplici appassionati prima che artisti, gente con collezioni di dischi sterminate e conoscenze enciclopediche, non limitate al genere che suonano. Sono un’esigua minoranza costoro. Per quanto strano possa sembrare, tanti musicisti non ascoltano musica che di rado e senza metodo, accendendo la radio o la TV. Altri conoscono la scena in cui si muovono ma da lì non si scostano. Molti si sono fermati agli ascolti dei quindici anni, quelli che li spinsero a imbracciare uno strumento. A tutti difetta la curiosità di investigare su passato e presente, variamente giustificata, il più delle volte con l’aspirazione a una peraltro impossibile originalità, che l’ascolto di troppa musica d’altri comprometterebbe.

Bruce Springsteen non appartiene né alla prima schiera né tantomeno alla seconda, da cui lo distanziano l’interesse per l’opera altrui e la consapevolezza di suonare musica popolare, per la quale l’originalità è un falso problema. Cosciente di non inventare nulla, nello stesso tempo sa che ciò non lo sminuisce, perché perpetuare la tradizione in termini non di pura nostalgia equivale a mantenerla vitale e non è impresa da poco. Dalla prima lo separa invece un approccio alla musica più istintivo, vissuto con  cuore e visceri prima che con la mente che interviene semmai, per spiegare la passione, a posteriori. E se non è titolare di una ricca discoteca nondimeno il Nostro conosce bene le radici della sua arte e l’humus culturale in cui affondano. Può non possedere il disco che contiene una certa canzone ma quella canzone l’ha fatta sua in altra, più profonda maniera, ascoltandola alla radio innumerevoli volte e poi suonandola.

Ecco, l’educazione musicale di Springsteen, dipanatasi attraverso le consuete quattro tappe, può essere così schematizzata: le canzoni ascoltate alla radio sono state la scuola elementare; quelle stesse canzoni fatte proprie imparando a suonarle alla chitarra, le medie inferiori; ancora quelle canzoni suonate con un gruppo, il liceo; le canzoni autografe a quelle ispirate, l’università. Per gli aspiranti a una laurea in rock’n’roll fra il 1958 e i tardi anni ’60 non vi era corso di studi migliore di quello offerto dalle radio americane in AM. Il giovane Springsteen ne fece tesoro, innamorandosi via via di Elvis, del sanguigno soul sudista di scuola Stax/Atlantic, di quello venato di pop della Motown e del suo controaltare, il pop venato di soul delle produzioni di Phil Spector. E poi dei gruppi della British Invasion e di quelli americani che da quel fenomeno furono ispirati. E infine di Dylan. Fino a “The River”, quando si aggiunse una vena country, tutte le sue influenze ricadevano in uno di questi cinque filoni: rock’n’roll dei primordi; soul e rhythm’n’blues; pop orchestrale; il rock inglese della prima metà dei ’60; Bob Dylan. Lo si evince chiaramente – oltre che dall’ascolto dei dischi e dalla lettura delle interviste – dal lunghissimo elenco di cover suonate dal vivo da Springsteen posto da Dave Marsh in appendice a Born To Run il libro. A volte presenti in scaletta una sera e basta, a volte in lista per intere tournée quando non per anni. Interpretazioni sovente stellari il cui ricordo è per la più parte affidato a  registrazioni illegali, visto che, tolti quattro titoli presenti nel quintuplo live e il traditional Pony Boy apposto in calce a “Human Touch”, il Nostro non ha mai inserito brani scritti da altri nei suoi LP, riservandoli, quando ne ha incisi, a 45 giri e raccolte di autori vari. Non è che non abbia mai considerato tale evenienza però. La prima volta accadde mentre si trovava in studio per porre su nastro “Born To Run” l’album e incise una versione strumentale di A Love So Fine delle Chiffons, poi esclusa dalla scaletta definitiva: una canzone di Phil Spector, non a caso.

Quando entrai in studio per registrare ‘Born To Run’ volevo costruire un disco che avesse testi come quelli di Bob Dylan e suoni come nelle produzioni di Phil Spector, ma soprattutto volevo cantare come Roy Orbison.

Obiettivi ambiziosi e raggiunti, anche se naturalmente il Dylan di Sprinsgteen non è proprio Dylan, giacché parla con una lingua più piana di quella del bardo di Duluth, e di Phil Spector l’album adotta sì i toni sinfonici ma venando il suo romanticismo di un pessimismo che sa molto, appunto, di Orbison e del suo cantare per i solitari omaggiato esplicitamente nei primi versi dell’iniziale Thunder Road. È un miracolo di sintesi questo LP: Phil Spector e Bob Dylan, Roy Orbison e i Creedence, John Lennon e Pete Townshend, il rock’n’roll dei ’50 e il soul e il rhythm’n’blues dei ’60, e suggestioni latine e jazzy, tutto insieme, in un fluire armonioso ed emozionante di rimandi che non si finisce mai di scoprire. È un disco di rock classico e un classico della musica rock. È il luogo ove le promesse fatte da “Greetings From Asbury Park” e da “The Wild, The Innocent & The E Street Shuffle” vennero mantenute. È il lavoro che infine giustificò appieno le iperboli dei critici e la leggenda cresciuta attorno ai concerti di Springsteen e ormai giunta fino in Europa. È il primo album del Nostro dalla produzione, se  non esente da pecche, nel complesso del tutto soddisfacente. Il primo da cui non si potrebbe togliere nulla, ma proprio nulla. Nonché l’ultimo dell’era Appel, il tempo degli equivoci, e il primo dell’era Landau.

I deludenti esiti commerciali del 33 giri d’esordio (appena 25.000 copie vendute nel primo anno nei negozi) accompagnati a  cambi di personale negli uffici dirigenziali avevano determinato un disinteresse totale da parte della Columbia riguardo alle sorti del secondo LP, disinteresse che si era naturalmente ripercosso su vendite di nuovo fallimentari. Sembrò a un certo punto che l’etichetta fosse intenzionata a rescindere il contratto e probabilmente ciò sarebbe avvenuto senza una recensione di Jon Landau, uno dei più prestigiosi critici musicali americani, nella quale dichiarava nientemeno che di avere visto il futuro del rock’n’roll, un futuro chiamato Bruce Springsteen.

L’articolo di Jon arrivò in un momento in cui molte persone, incluse quelle della casa discografica, si domandavano se io valessi davvero qualcosa. Mi diede molte speranze… I ragazzi della band e io guadagnavamo cinquanta dollari a testa alla settimana. L’articolo mi aiutò ad andare avanti. Mi resi conto che stavo colpendo qualcuno.” (Bruce Springsteen)

Con quella frase, ‘ho visto il futuro del rock’n’roll e il suo nome è Bruce Springsteen’, volevo dire che in lui avevo trovato una nuova forma di purezza e di energia, di sincerità che in quel momento mi sembravano assenti nel mondo del rock’n’roll, che tendeva piuttosto a confezionare prodotti di mercato, superficiali. Ecco invece un cantante che aveva una spiccata umanità, una persona onesta che cantava di cose importanti per tutti. Era una frase retorica, ma mi era venuta spontanea dopo avere assistito a un concerto di Bruce.” (Jon Landau)

Il 1974 aveva visto avvicendamenti importanti nel gruppo. In febbraio se n’era andato Lopez, rimpiazzato da Ernest “Boom” Carter, che a sua volta se ne sarebbe andato in luglio insieme, defezione ben più grave, a David Sancious. Li sostituirono in agosto, rispettivamente, Max Weinberg e Roy Bittan, i primi due musicisti non di Asbury Park a entrare in formazione. Per rimarcare  l’importanza dell’evento e il ruolo svolto dal gruppo Springsteen da questo momento al 1988 girerà come Bruce Springsteen & The E Street Band (è interessante però rimarcare che l’unico disco così intestato è il quintuplo dal vivo, a chiarire che il Nostro considera i lavori in studio esclusivamente suoi mentre, nella dimensione live, riconosce una certa rilevanza al contributo dei musicisti che lo accompagnano). Già in primavera, nei ritagli di tempo concessi da un’attività concertistica intensa (anche perché rappresentava per la E Street Band l’unica fonte di reddito), si era cominciato a lavorare al terzo LP, nei soliti 914 Sound Studios di Blauvelt e con Appel in cabina di regia. Le registrazioni procedevano tuttavia assai lentamente, mentre  lo scoramento si impossessava di leader e gregari. Come già visto, prima Lopez, quindi Carter e Sancious alzeranno bandiera bianca. L’articolo di Landau, uscito in maggio, risollevò il morale e persuase la Columbia a puntare di nuovo sul pupillo di Hammond. Proprio sulla famosa frase sul futuro del rock’n’roll venne impostata una campagna pubblicitaria che aveva ora bisogno di qualcosa da pubblicizzare. Consapevole che il nuovo LP sarebbe stato decisivo per il suo avvenire, Springsteen al peso di questa consapevolezza quasi soccombette nel corso di una lavorazione travagliatissima – Landau affiancò Appel come produttore nel marzo 1975 e in aprile ci si trasferì ai Record Plant e si ripartì pressoché da zero – che lo lasciò stremato e a tal punto incerto sul valore dell’album da proporre alla CBS di fare uscire un live con la stessa scaletta. Richiesta per fortuna rigettata. Ascoltando il disco riesce difficile credere che l’artefice di questa pietra miliare abbia potuto dubitare anche per un istante della sua creazione.

Le due facciate di “Born To Run” sono strutturate in maniera simile e hanno un’articolazione quasi da suite. In entrambe il brano chiave è il primo (significativamente, le due canzoni sono da allora immancabilmente presenti nelle scalette live) ed entrambe si congedano toccando un climax drammatico. Thunder Road e Born To Run sono le due facce di una medesima medaglia: il loro tema sono i sogni dell’adolescenza che svaniscono, la dolorosa consapevolezza del “forse non siamo più così giovani” condivisa dai protagonisti della prima che porta quelli della seconda a continuare a fuggire a se stessi, all’epifania di Backstreets, lo “scoprire che siamo solo come tutti gli altri”. L’una e l’altra canzone hanno un finale apparentemente ottimista. Thunder Road, la più memorabile delle ballate pianistiche del Nostro, si chiude con un’esplosione vitalistica: “è una città piena di perdenti/ed io me ne sto andando per vincere” canta Springsteen, e Clemons lo fiancheggia con un assolo di sax gioiosamente furente. L’epica cavalcata elettrica, scandita da un muro di Fender cui Phil Spector avrebbe forse potuto rendere giustizia (Mike Appel, purtroppo, no) di Born To Run, si acquieta nella parte centrale per tornare a impennarsi su una promessa: “Un giorno ragazza, non so quando,/raggiungeremo quel luogo/dove davvero vogliamo andare/e cammineremo nel sole/ma fino ad allora vagabondi come noi/sono nati per correre”. Vi è ben poco di ottimistico in realtà: l’adolescenza è finita, le sue infinite promesse sconfitte dalle assunzioni di responsabilità dell’età adulta. Resta giusto il tempo per un’ultima corsa senza meta.

È l’ultimo LP  di Springsteen, “Born To Run”, in cui a prevalere sono i toni romantici, ma è un romanticismo amarognolo che contiene in nuce il duro neorealismo a venire. I protagonisti delle struggenti Backstreets e Jungleland possono ancora “camminare come eroi” ma devono nascondersi nei vicoli o bruciarsi in un valzer di morte, quello di Night  può ancora riscattare lo squallore della schiavitù di un lavoro senza redenzione correndo nella notte “triste e libero”, sulle ali di un rock’n’roll che anticipa “The River”, ma presto non gli resterà nemmeno tale patetica illusione e sarà l’uomo abbrutito e disperato di Factory.

I brani di raccordo fra due dischi tanto diversi come “The Wild, The Innocent & The E Street Shuffle” e “Born To Run” sono strategicamente piazzati in seconda posizione sull’uno e sull’altro lato: Tenth Avenue Freeze-Out è un po’ una nuova E Street Shuffle; She’s The One caracolla su un ritmo sferragliante che deve molto a Bo Diddley (e difatti la E Street Band era solita eseguirla in medley con Mona). Resta da dire di Meeting Across The River: la tromba rabbrividente che si libra sul piano e una ritmica affidata al solo basso (Richard Davis, non Garry Tallent; la tromba è quella di Randy Brecker) la fanno crepuscolare e waitsiana e la rendono, come Wild Billy’s Circus Story, unica nel canone springsteeniano.

Pubblicato per la prima volta in Bruce Springsteen: strade di fuoco, Giunti, 1998.

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Un lungo addio

Un lungo addio

(Avvertenza – In questo chilometrico post si spiegano infine dettagliatamente, per quanto è possibile senza uccidere di noia il lettore, le ragioni del mio divorzio dalla rivista “Il Mucchio”. Chi non mi seguiva anche su quelle colonne, chi frequenta VMO solo perché interessato a leggere di musica può serenamente impegnare altrimenti i cinque o dieci minuti che ha la gentilezza di dedicarmi quotidianamente.)

Esattamente un anno fa a oggi ho lasciato “Il Mucchio”. “Ma non te ne eri andato all’inizio dello scorso dicembre?”, si chiederà perplesso chi ha seguito qui – o sulla mia pagina Facebook, o sul forum della rivista suddetta – il dibattito successivo all’annuncio, nell’editoriale di Daniela Federico del numero di gennaio, dell’interruzione di una collaborazione complessivamente quasi ventennale. “Ma non te ne sei andato dopo la mancata pubblicazione di una  recensione che ti era stato chiesto di modificare?” Be’, la storia è un po’ più complicata di così. Nessuno lascia un giornale nel quale ha trascorso due terzi o all’incirca della sua vita di adulto per un unico scontro, per quanto aspro e grave possa essere stato. Non ci fosse altro, uno per certo non abbozzerebbe – se la sua schiena è dritta; se una schiena ce l’ha – ma, dopo, cercherebbe di ricomporre. C’era evidentemente dell’altro. Tantissimo d’altro.

Un anno fa mi sono dimesso, dicevo. Nella mattinata del 23 gennaio 2012 avvisavo con una mail di quanto stava per accadere i miei compagni di redazione e sventure – persone stimabilissime professionalmente e umanamente che saluto e abbraccio una ad una: Alessandro Besselva Averame, Aurelio Pasini, Carlo Bordone, Damir Ivic, Elena Raugei, Luca Castelli – e poi anticipavo ai capiservizio, su loro richiesta, la lettera di dimissioni che mi accingevo a inviare alla direttrice (nonché editrice e amministratrice: la grande anomalia che è questa rivista si nota anche da certi dettagli) Daniela Federico. Lo facevo perché mi sembrava giusto cercare di limitare i danni collaterali per Federico Guglielmi e John Vignola. Mi sembrava giusto ed ero disponibile a discuterla con loro, la lettera, ed eventualmente a cambiarla in qualche punto, ammorbidendola. Mi sembrava giusto, ma si è rivelato un errore. Un dispiaciuto ma non sorpreso (lo psicodramma collettivo andava avanti da quasi due mesi) Vignola si limitava a prendere atto. Guglielmi mi strappava un rinvio. Ventiquattro ore. Il massimo che potevo concedergli, visto che la sera dopo la Federico sarebbe stata a Torino e di incontrarla, con il rischio di una piazzata in pubblico, non avevo alcuna voglia. Ventiquattro ore. Il secondo e capitale errore. Perché avevo allora tutto il tempo per riflettere che le mie dimissioni rischiavano, arrivando nel momento più drammatico della sua storia, di dare il colpo di grazia a un giornale che non è mai stato un semplice giornale di musica come tanti. Andandomene proprio in quel momento avrei deluso troppa gente, dentro “Il Mucchio” ma soprattutto fuori. I lettori, che diamine. I lettori. Non avrebbero capito e avrei capito il loro non capire. Mi avrebbero visto come un traditore, come un killer magari prezzolato da Max Stefani. Non potevo sopportarlo. E persino quasi peggio era il pensiero che, oggettivamente, a Stefani avrei fatto in effetti un favore. Così quando la mattina seguente Guglielmi, prevedibilmente, mi chiedeva di soprassedere, di fare passare qualche mese ancora, non  opponevo troppa resistenza. Mi limitavo a scrivergli due righe a futura memoria: “Non ci sarà nessuno sviluppo positivo, mai. Lo sa John, lo sai tu, lo sapete tutti. E nessuno ha il coraggio di fare le due uniche cose possibili: dimettersi, oppure andare a uno scontro finale. Tertium non datur, a meno che tertium non voglia dire continuare a vivere di quotidiane umiliazioni per poi probabilmente arrivare comunque a un’ingloriosa fine”. E altro, che qui non riporto perché sono affari nostri.

Quella lettera di dimissioni allora non l’ho spedita. La sera del 24 gennaio mi toccava la cena aziendale, con Daniela Federico e Beatrice Mele. La sera del 25 la dividevo, come diverse altre centinaia di persone, fra il Blah Blah e lo Spazio 211, fra il reading di uno straordinario Maurizio Blatto (uno che per inciso scrive per una testata concorrente: tanto per dire quanto in giro si voglia bene al “Mucchio”) e un concerto con sul palco decine di musicisti, tutti lì gratuitamente per raccogliere fondi per un giornale a un passo dalla chiusura, e in consolle Max Casacci (uno che da Stefani era stato diffamato a più riprese: tanto per ridire quanto in giro… eccetera). La sera del 25 gennaio 2012 sono stato, con Torino, “nel Mucchio”. Sfortunatamente mi è poi toccato passarci il resto dell’anno. Ma è una storia lunga, vi dicevo.

Ho pubblicato il mio primo articolo su quello che era allora “Il Mucchio Selvaggio” nel febbraio 1983. Quelli che ero convintissimo che sarebbero stati gli ultimi nel settembre 1988. Mai mi sarei aspettato di tornare, per così dire, alla base e invece è proprio quanto accadde nel novembre 1999. Ho insomma dedicato a questo giornale una parte molto importante – e in certi momenti esclusiva – della mia vicenda professionale: diciotto anni e sette mesi in tutto, periodo che allo scorso 3 dicembre faceva di me – e di gran lunga – il veterano della compagnia dopo l’inarrivabile Federico Guglielmi. Mi pento di avere dato tutto questo tempo al “Mucchio”? No, per due ragioni. Una è che ho avuto negli anni la possibilità di conoscere eccellenti professionisti e spesso persone meravigliose, fra i colleghi. La seconda è che la militanza – perché per altri giornali, scoprii presto, si scrive ma in uno soltanto si milita – nel “Mucchio” mi ha messo in contatto con i lettori più incredibilmente appassionati che mai rivista specializzata abbia avuto in Italia. Quella stessa gente che un anno fa si è mobilitata con slancio commovente – sottoscrivendo abbonamenti, acquistando arretrati e magliette, offrendo spazi radiofonici, organizzando eventi pubblici – per fare sì che il giornale continuasse a esistere. Ecco: io ho sempre scritto per quella gente. Non per un direttore che mensilmente – in editoriali, rubriche, articoli e risposte a lettere che si era scritto da solo -insultava i suoi collaboratori, non per un editore che faceva un uso sciagurato e a dir poco discutibile eticamente di soldi oltretutto pubblici. Per quella gente ho sopportato.

Il 20 aprile 2011 proprietà (non è proprio esatto, trattandosi formalmente di cooperativa; ma è per intendersi) e direzione del giornale (l’amministrazione no, quella era già l’attuale e da sempre) cambiavano. Non mi facevo illusioni al riguardo. Mai creduto che si trattasse dell’alba di una nuova, radiosa era di vino e rose. Tuttavia dal non farsi illusioni all’avere una delusione dopo l’altra (la prima vedere autonominarsi direttrice una persona che non ha scritto un articolo di argomento musicale in tutta la sua vita; la seconda vedere promossa a caporedattrice una persona con un curriculum di due righe in luogo di un’altra indiscutibilmente, incommensurabilmente più qualificata per quel ruolo, o meglio ancora per quello di direttore) ne corre. Si stava meglio quando si stava peggio? A parte che il giornale si è nel frattempo emendato da taluni difetti detestabili, azzarderei di sì. Perché Stefani almeno nel suo “io so io e voi nun siete n’cazzo” era esplicito. Non cercava un “dialogo” che, nel momento in cui in realtà il contraddittorio non lo si accetta (e chiunque osi alzare la manina per dire che qualcosa non gli sta bene diventa uno “che rema contro”), non è che una presa in giro. Mai pensato che la democrazia sia il migliore dei sistemi per condurre un giornale. Può essere il più nefasto. Nondimeno l’uomo solo al comando e i sacrifici insieme non si tengono. Mi si può benissimo dire (possibilmente non dopo avermi fatto una domanda ed essersi irritati perché la mia risposta non era quella attesa) che devo stare al mio posto, che è diritto del direttore – che in questo caso, ricordo di nuovo, è pure editore e amministratore –  decidere come meglio crede. Perfetto. Nulla da eccepire. Però allora non fare il democratico. Però allora pagami: non per gratitudine, perché ti ho dato un’enorme mano a tirarti fuori dalla merda in cui stavi, ma semplicemente perché ho fatto il mio lavoro, l’ho fatto bene, l’ho fatto nei tempi dati. E se ti credi di essere Mondadori allora sii Mondadori a tempo pieno e non lanciare appelli ai lettori come se fossi “Il Manifesto” o Radio Popolare. Ci vorrebbe un po’ di coerenza. Di decenza. Un minimo.

Nei primi mesi del 2012 sono stati i lettori a salvare “Il Mucchio”. Nel resto dell’anno l’insipienza di chi ne ha preso il timone lo ha riportato nel pieno di una tempesta se possibile peggiore della precedente. Ed è pazzesco che si ritrovi in una simile situazione una casa editrice che negli anni ha ricevuto in grazioso dono dallo stato svariati milioni di euro. Svariati.

Ma diamo i numeri?

516.456,90

517.000

451.360,50

451.179,96

423.160,82

422.221,73

364.552,76

Questi – per i soli sette anni (compresi fra il 2003 e il 2010) dei quali il sito della Presidenza del Consiglio dei Ministri conserva traccia: la documentazione la trovate qui – sono i denari che ha ricevuto ultimamente Stemax dallo stato italiano come contributi all’editoria. Cifre ragguardevoli, per quanto costantemente calanti (e in tal senso il 2012 ha lasciato sul campo più morti che feriti), e tanto di più lo erano (oltretutto integrate da un bel 10% di credito di imposta acquisto carta) negli anni precedenti. Come potrà constatare, pur nelle pieghe di conti piuttosto fumosi al riguardo, chi avrà la pazienza di andare a cercarsi i bilanci pubblicati annualmente, come da obblighi di legge, sul giornale stesso. Non è questo il luogo per aprire un dibattito sui fondi all’editoria, che sono sempre stati un modo anomalo per mettere una toppa a una situazione anomala come quella italiana, nella quale la raccolta pubblicitaria va immancabilmente (come in nessun altro paese civile al mondo succede) a privilegiare determinati soggetti e anzi e nello specifico un soggetto. A quanti – non per partito preso o pregiudizio ideologico – sostengono che il rattoppo è peggio del buco fino a non molto tempo fa avrei detto che sbagliavano. Oggi non lo direi più. Credo che si partisse da un principio pure giusto, ma che una legge mal formulata e l’assenza per lunghissimo tempo di qualsivoglia controllo abbiano prodotto abusi scandalosi. Nella sua per certi versi imperdibile autobiografia, Wild Thing, Max Stefani è ineffabilmente candido al riguardo. Copio e incollo, e mi perdonerà se per una volta mi cimento in una specialità della quale è notoriamente un campionissimo, da pagina 209.

…avevo saputo da Aurelia Spezzano che c’era la possibilità concreta di ottenere dei finanziamenti da parte dello Stato costituendo una “cooperativa di giornalisti”. Addirittura il 50% del fatturato?!? A me (che non sapevo neanche cosa fosse lo scoperto in banca) parve una favola. Feci quindi una nuova società sotto forma cooperativa che editò il giornale, affittandolo dalla Lakota. La chiamai “Stemax”… …quasi tutte le Cooperative di questo genere (con forse l’unica eccezione del “Manifesto”) sono in effetti delle SRL truccate. Ci sono uno o due proprietari e sette amici o famigliari che non contano niente ma servono solo a fare numero. Vero è che le Cooperative non possono rendere utili ma ognuno può pagarsi lo stipendio che vuole e per pagare meno tasse possibili si caricano sull’azienda auto di lusso, case e ogni genere di benefit, compreso varie assicurazioni. La prima cosa da fare è comprarsi un ufficio e darlo in affitto (ovviamente solo sulla carta) alla Cooperativa: praticamente la Cooperativa paga il mutuo e dopo tot anni ti ritrovi casa gratis.

Ecco. Credo abbiate capito il meccanismo. Molto più avanti, nel pieno dell’epico racconto della sua cacciata dal giornale, Stefani incautamente farà l’elenco (pagina 301) di quelli che erano i soci al momento della sua defenestrazione. Su nove nomi, uno era addirittura ignoto a Stefani stesso e i giornalisti (e spero che l’Ordine non mi espella per avere contato Stefani come tale, ma il tesserino ce l’ha) erano ben quattro. Quattro giornalisti, o comunque quattro persone che a Stemax in qualche modo lavoravano, e cinque prestanome. “Il Mucchio” dal 1996 al 2012 ha preso soldi dallo stato in quanto periodico edito da una cooperativa di giornalisti. Peccato che, nei più volte mutati elenchi dei soci, di giornalisti che in effetti scrivevano per “Il Mucchio” si stenti a trovarne. Io non sono mai stato socio di Stemax. Federico Guglielmi non è mai stato socio di Stemax. John Vignola non è mai stato socio di Stemax. Con l’eccezione di Massimo Del Papa, nessuna delle firme di primo piano del “Mucchio” è mai stata socia della cosiddetta “cooperativa di giornalisti” Stemax. Che ciò nonostante (con ogni evidenza le verifiche a tal riguardo sono sempre state per così dire lacunose) ha ricevuto dallo stato, per gli anni di cui sopra, i contributi previsti per le cooperative di giornalisti. Ne avesse fatto buon uso, almeno!

Pur essendo a conoscenza – più o meno e avendo appreso i dettagli più sconcertanti per un bel pezzo poco per volta e per il maggioritario resto in un colpo solo: avevo qualche ottima ragione per essere fuori di me lo scorso gennaio – di come siano andate in effetti le cose, stento a capacitarmi di come abbia potuto un giornale che godeva di simili aiutini, e che qualche copia la vendeva (in alcuni momenti – oggi incluso – poche, in altri un numero niente affatto disprezzabile), ridursi alle disperate condizioni odierne. Dividerei il discorso in due parti. Innanzitutto ci sono state scelte editoriali folli: il settimanale non sarebbe mai dovuto nascere e, a ucciderlo una volta nato, se non in culla dopo due o massimo tre anni, la Stemax non si sarebbe caricata della zavorra di debiti che ora, a ben nove di anni dal ritorno alla cadenza mensile, la sta trascinando a fondo. Il settimanale è stato un buco nero nel quale sono sparite cifre insensate, un’avventura che Stefani (lo ammette lui stesso di non essere mai stato capace a fare i conti) si è ostinato a portare avanti parecchio oltre la data (2000? facciamo anche 2001 ma certo non 2004) in cui il disastro era andato assumendo proporzioni che si riveleranno ingestibili, inemendabili. E questa è la prima parte: si parla di politiche sbagliate perseguite oltre ogni limite di buon senso. La seconda metà della storia racconta che, mentre progressivamente gli incolpevoli e inconsapevoli collaboratori pagavano dazio vedendo dilatarsi a dismisura i saldi di compensi oltrettutto mai adeguati nemmeno simbolicamente al costo della vita, c’era chi – invece di, ad esempio, provare a investire in innovamento mettendo così fuori gioco quella concorrenza che non poteva permetterselo – si concedeva stipendi sontuosi e, per l’appunto, “ogni genere di benefit”: dalla macchina aziendale al pieno di benzina (sempre Stefani dixit, eh?) e persino all’abbonamento alla pay tv. Mentre c’era chi doveva ricorrere a prestiti perché messo in ginocchio dal ritardo dei pagamenti (ad esempio chi sta scrivendo queste righe: l’ultimo finirò di rimborsarlo il prossimo agosto), altri vivevano un filino più agiatamente. Magari integrando i miseri introiti – visto che c’erano – appropriandosi dei diritti d’autore (ventimila euro, lo sbandiera sempre la stessa personcina ma questo già lo sapevo, grazie) per un libro del quale non avevano scritto praticamente una riga.

Voglio essere molto chiaro al riguardo: se “Il Mucchio” dovesse morire nei prossimi mesi (il “se” al momento attuale è caritatevole) le responsabilità saranno di Max Stefani e di Daniela Federico, ma in una percentuale enormemente sbilanciata verso il primo. 80 contro 20, 90 contro 10, 95 contro 5… fate voi. Per quanto io abbia tanto da rimproverare alla seconda, non posso non cercare di essere – per quanto mi è possibile da persona che è parte in causa – un minimo obiettivo al riguardo. Non posso non riconoscere che, se Daniela Federico ha amministrato la Stemax sin dalla nascita della società e non può quindi in alcun modo dirsi innocente, per un lungo periodo non è stata in condizioni di opporsi a chi (di nuovo: alla faccia della fantomatica cooperativa) ne era nei fatti l’editore. Per lungo tempo ne ha subito le scelte, probabilmente senza condividerle, e non appena le è stato possibile cominciare a esercitare una qualche opposizione, e provare a limitare i danni, lo ha fatto. Per amore del “Mucchio”? Soltanto per portare a casa la pelle? Non ha importanza. Lo ha fatto ed è ciò che conta, anche se probabilmente non ha fatto abbastanza, anche se probabilmente lo ha fatto a tempo abbondantemente scaduto.

A Daniela Federico rimprovero la metamorfosi (perché io un minimo la Daniela di prima la conoscevo ed era persona per la quale per un certo periodo ho nutrito stima, simpatia, anche del genuino affetto) post-20 aprile 2011. A Daniela Federico rimprovero di avere avuto l’arroganza di assumere la direzione del giornale non avendo né le competenze né la sensibilità per farlo e avendo invece a disposizione una persona assolutamente qualificata e assolutamente fidata, cui ha invece scelto di infliggere la peggiore umiliazione professionale che potesse infliggerle ed è comportamento del quale tuttora non mi capacito (manco mi capacito che quella persona non abbia reagito andandosene e facendo causa, ma tant’è). A Daniela Federico rimprovero di essere passata dalla sera alla mattina dal Direttorio al trono imperiale. A Daniela Federico rimprovero le tante promesse fatte (anche io conservo le mail, eh?) e per la più parte non mantenute. Una direzione che con l’acqua sporca di trascorse cialtronaggini ha buttato via quel bambino, bellissimo e dispettoso, che era lo spirito che ha reso “Il Mucchio” un giornale differente da tutti gli altri che nei decenni si sono occupati di musica, o prevalentemente di musica, in questa terra dei cachi. Le rimprovero di essersi fatta prendere per il collo nella risoluzione del contenzioso con l’ex-direttore, quando era lei ad avere in mano corda e sapone, e anche quei soldini oggi avrebbero fatto comodo. Ma il coraggio se uno non ce l’ha non se lo può dare e credo che pure da questo derivi la mollezza del “Mucchio” post-Stefani. Forte con i deboli (fastidiosissimo il continuo ricordare ai collaboratori storici che fuori dalla porta c’è la fila degli aspiranti collaboratori) e debole con i presunti forti, la direttora si è persa in costose quisquilie come il rinnovamento grafico quando l’unica, piccola possibilità di restare a galla sarebbe stata quella di studiare e attuare un assalto al Web. Dov’è il nuovo sito del “Mucchio” di cui si favoleggia da un paio di anni? Persino il forum sta gradualmente sfiorendo. Daniela Federico non è arrivata ieri al “Mucchio”, c’è dal lontanissimo 1986, e ciò nonostante in tutti questi anni non ha metabolizzato nulla – per carità: mia opinione – né dello spirito del giornale né della psicologia del suo lettore medio: ci avesse mai acchiappato qualcosa, non le sarebbe passato per l’anticamera del cervello di fare di una recensione che di quello spirito e quella psicologia è financo esageratamente pregna un assurdo casus belli. Non l’avevo certo scritta con quella intenzione (ho un sacco di piacevoli perversioni ma il sadomasochismo no, non mi aggrada) e mai mai mai mai mai mai mai (ho detto abbastanza volte “mai”?) avrei immaginato che avrebbe costituito un problema. Cara Daniela, perdona il francesismo: non ci hai capito un cazzo.

E, cara Daniela, fatti dire un’altra cosa. Non sarebbe andata a finire così male (mi sarei dimesso ugualmente, ma sarebbe stata un’uscita di scena infinitamente meno chiassosa) se, messa a conoscenza del fatto che ritenevo che un tuo ventilato progetto editoriale potesse danneggiarmi, tu sul finire dello scorso settembre non avessi ritenuto di telefonare prima al tuo legale e soltanto poi al sottoscritto. Non si fa così, Daniela. Non fra amici. Gli amici, se sorgono dei problemi fra loro, provano a spiegarsi senza andare prima a vedere a chi dà eventualmente ragione la legge, anche perché non sempre la legge dà ragione a chi eticamente l’avrebbe. Per quanto assurdo sembri innanzitutto a me stesso, io fino a quel pomeriggio ancora mi ostinavo a pensarti come a un’amica. Ma Dio ci scampi dai “compagni che sbagliano”.

“Il Mucchio” si appresta a subire una drastica riduzione della foliazione di cui ci si è guardati bene dall’avvisare i tanti che proprio in questi giorni, essendo passato un anno tondo da quell’altro fatal gennaio, stanno rinnovando l’abbonamento. Agli interni è stato dato il preavviso che precede il licenziamento. I collaboratori retribuiti (percentuale che con il tempo è andata facendosi sempre più minoritaria) hanno ricevuto la scorsa settimana (io compreso) un modesto acconto delle spettanze del 2012. Il resto rinviato a una data da destinarsi che somiglia sinistramente al “mai”. Da qui a fine mese dovrò pagare la quota annuale all’Ordine dei Giornalisti e all’Associazione Stampa Subalpina. In probabilissima assenza di sviluppi positivi in questi pochi giorni che mancano, ne approfitterò per fare ciò che in quasi tre decenni non ho mai fatto (avevo un bravissimo avvocato e il mio punteggio in cause simili è a oggi di tre a zero in mio favore): chiederò assistenza per recuperare i crediti che avanzo dalla Stemax. Al “Mucchio” ho dato tanto in vita mia, troppo. Gli spiccioli (che poi per me spiccioli non sono) farò il possibile per non lasciarglieli.

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Christopher Owens – Lysandre (Fat Possum)

Christopher Owens - Lysandre

I giovani non sono più quelli di una volta. Soprattutto perché non è che siano poi così giovani. Prendete Christopher Owens: per essere il Kurt Cobain della sua generazione – una faccenda di pura estetica piuttosto che di musica: parallelo spericolato in epoca Girls e adesso improponibile – è in ritardo di quei sei anni e anzi nove. A parte che Cobain, con cui attualmente condivide giusto la magrezza estrema (e se sia anoressia o altro si preferisce non sapere), non si sarebbe mai prestato a fare da modello per Yves Saint Laurent. A parte che Cobain, povero figlio, qualche ragione per essere stressato ce l’aveva, mentre al confronto fa ridere che il più o meno giovanotto abbia sciolto il gruppo precedente perché non reggeva le pressioni del successo: centodiciannovesimo in Gran Bretagna, trentasettesimo negli States in un tempo in cui vale come valeva un duecentesimo posto in era “In Utero” e di che stiamo parlando quindi? Owens quasi se le tira addosso le cattiverie, chiedendosi pensoso all’inizio di Love Is In The Ear Of The Listener, in ricercato contrasto con il giulivo poppetto chitarristico cui appoggia le sue parole, “what if I’m just a bad songwriter/and everything I say has been said before”? Una domanda interessante, direi, e se tutti quelli che fanno dischi se la ponessero, e poi si dessero una risposta onesta, quanti dischi uscirebbero rispetto a quelli che escono nella realtà? Un dieci per cento? Facciamo cinque, va. Comunque come autore Christopher Owens non è scadente, no. E però è in materia di paraculaggine che è un campionissimo, da podio il giorno in cui l’essere paraculi sarà riconosciuto come disciplina olimpica.

Non c’è niente da fare. Arrivo in prossimità del fondo della mezzoretta scarsa che dura questo debutto solistico ad anni trentatré (ne aveva già trenta il Nostro quando i Girls davano alle stampe il rumoroso ma melodioso ma rumoroso “Album”) dicendomi che non è proprio un pacco ma non è nemmeno ’sto granché e, all’attacco di Part Of Me, invariabilmente cado in ginocchio. In deliquio per uno strepitoso folk-pop a passo di marcia con tutte le cose giuste al posto giusto, mi faccio venire il dubbio di non avere prestato la dovuta attenzione alle otto canzoni (più un incipit e un interludio) prima e ricomincio da capo. Come in un loop che mi lascia insieme irritato ed esilarato. E a ogni giro di giostra il giudizio di un qualcosina migliora. ’Fanculo, Christopher. Avrei anche altra roba da ascoltare, sai?

Concept (’sti ggiovani d’oggi hanno un sacco di idee originali) interamente incentrato su un romanzetto d’amore che ha segnato ultimamente la vita di chi l’ha scritto, di “Lysandre” una cosa non si potrà mai dire: che non sia costruito magistralmente. Dall’incantato Lysandre’s Theme, che lo apre sfumando nella ballata andante con brio Here We Go, al suggello di cui sopra, non vi è nulla che non sia calibrato per tenere costantemente desta l’attenzione. Si tratti di cambio di passo e/o atmosfera che va dietro a cambio di passo e/o atmosfera così come di un intarsio. Magari uno strumento che si aggiunge a costo di caricare di troppi colori il quadro e sciuparlo, come succede con il sax starnazzante che manda in vacca il boogie rock New York City. O con quel flauto che torna spesso e la prima volta che fa capolino dici “figo!” e dopo un po’ è la prevedibilità resa spartito. O con la voce femminile sempre a sostegno, di cui ora si vorrebbe fare a meno e ora che pigliasse il centro del proscenio. Di A Broken Heart azzarderei che si esaurisca nel titolo esplicito, di Everywhere You Knew che abbia il difetto opposto del resto di un programma che infioretta troppo le sue seduzioni spicciole ma insidiose. Mi piacciono invece senza “se” e senza “ma” il beat scanzonatissimo e adeguatamente energico Here We Go Again, una Riviera Rock da celare in qualche piega del catalogo nobile 2 Tone, una traccia omonima di giocosa circolarità. Tipo Donovan che decide di scrivere qualcosa per i Beatles, quest’ultima, e ci va coraggio oltre che talento soltanto per provarci. Sulla faccia da schiaffi mi sono dianzi espresso.

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Punk’s not dead – Gli album fondamentali del ’77

Nell’autunno 1999 tornavo a collaborare, dopo un’ assenza ultradecennale da quelle colonne, a un allora settimanale “Il Mucchio”. Pochi mesi dopo, un progetto tanto ambizioso nelle intenzioni quanto piuttosto povero nella realizzazione  ricavava un indubbio arricchimento dalla nascita di un inserto che da allora, con cadenza mensile, si sarebbe occupato di ristampe e, più in generale, di materiali d’archivio. Vecchi almeno dieci anni – come regola – al momento della trattazione. Al primo “Classic Rock” contribuivo, oltre che con diverse recensioni, con un ricordo di Curtis Mayfield che coincideva con la prima “Pietra miliare” e, soprattutto, con la prima di una serie infinita di discografie minime. Si cominciava parlando di punk.

Sex Pistols

Alcune cose che accaddero nell’ottobre del 1977… In Gran Bretagna i Sex Pistols, dopo avere scandalizzato una volta di più con un singolo, il quarto (Holidays In The Sun), pubblicavano il loro primo (e unico vero) LP, “Never Mind The Bollocks”. Niente sarebbe più stato lo stesso per il rock. Gli X-Ray Spex dal canto loro esordivano a 45 giri con la schizoide Oh Bondage Up Yours. In Francia debuttavano sulla breve distanza i geniali Metal Urbain. Negli Stati Uniti pubblicavano il loro primo album i Dead Boys di Stiv Bators. E in Italia? I frequentatori di edicole del Bel Paese (specie rara allora come oggi) si ritrovavano fra le mani una nuova rivista musicale. Un nome singolare, ispirato dal western capolavoro di Sam Peckinpah, Neil Young in copertina e trentadue paginette in bianco e nero dalla grafica artigianale. Blues, country, folk i generi affrontati. E il punk? L’unico indizio che qualcosa di importante stava accadendo nel rock è dato da una pagina comprata dalla RCA per pubblicizzare, fra gli altri, “Leave Home” dei Ramones.

Nei tanti anni trascorsi da allora “Il Mucchio Selvaggio” ha fatto ampiamente ammenda della cantonata presa allora sottovalutando, quando non dileggiando, il punk e dal 1980 in poi è sempre stato in prima fila nel propagandare ogni novità degna di nota. Senza mai dimenticare che in musica come in chimica nulla nasce dal nulla e non si può dunque comprendere il presente e immaginare il futuro senza conoscere il passato. L’inserto che da questa settimana, con cadenza mensile, lo arricchirà vuole offrire ai lettori più giovani un agile strumento per impossessarsi dei rudimenti della storia del rock (ma non solo) e ai più esperti un piacevole ripasso, qualche approfondimento e, per quanto riguarda nello specifico questa rubrica, un’occasione per indignarsi per l’esclusione di questo o quel titolo dai decaloghi che di volta in volta esporremo. Nessun problema, siamo tutti commissari tecnici della nazionale.

Ci è piaciuta l’idea di partire dall’anno in cui partì “Il Mucchio”. Il punk consumò in fretta la sua rivoluzione, mischiandosi poi ad altri generi, evolvendosi in hardcore o al contrario fossilizzandosi in stilemi che hanno finito per rivelarne la natura reazionaria. Ben poco di quello odierno vale l’inchiostro che si usa per parlarne, ma i classici restano classici. Ah… il 1977 cominciò nel ’76 e finì nel ’78. Il punk successivo, anche il più valido, sarà comunque, in qualche maniera, un’altra cosa.

Adverts - Crossing The Red Sea With The Adverts

ADVERTSCrossing The Red Sea With The Adverts” (Anchor, 1978) – Ci si ricorda raramente degli Adverts quando si elencano i capisaldi del primo punk inglese. Sarà perché non suscitarono il clamore dei Pistols, le loro canzoni non erano immediate come quelle dei Buzzcocks e non ebbero, dacché si sciolsero dopo un secondo LP indecoroso, una carriera lunga e gloriosa come i Clash o i Jam. Ma sotto il profilo squisitamente musicale “Crossing The Red Sea”, dirompente ma alquanto elaborato nella scrittura, è forse il prodotto migliore di quel luogo e quell’era. Da riscoprire assolutamente.

Buzzcocks - Singles Going Steady

BUZZCOCKSSingles Going Steady” (United Artists, 1979) – Furono i primi ad autoprodursi, i mancuniani Buzzcocks, registrando e stampando in proprio un biglietto da visita chiamato Spiral Scratch. Non troverete  le quattro canzoni in esso comprese in questa raccolta ma in compenso ne avrete altre sedici al pari straordinarie, i lati A e B dei primi otto 45 giri pubblicati dal gruppo su United Artists. Canzoni memorabili nel senso letterale del termine, perfetta unione di impeto punk e melodia pop che da allora fa scuola. Potete chiedere informazioni al riguardo ai Green Day, o ai Prozac+.

The Clash - The Clash

CLASHThe Clash” (CBS, 1977) – Un disco perfetto fin dalla copertina, che sul davanti coglie Paul Simonon, Mick Jones e Joe Strummer in un vicolo, facce serie e un po’ annoiate, e sul retro propone un’immagine, con la polizia che carica, dei disordini razziali a Notting Hill Gate che ispirarono il tumulto di versi infuocati e chitarre rabbiose di White Riot, modello di quasi tutto il resto della micidiale scaletta. Rilevante eccezione il reggae di Police & Thieves (una rilettura di Junior Murvin). Chiaro segnale da subito che i Clash non volevano farsi intrappolare dagli stereotipi.

Damned - Damned Damned Damned

DAMNEDDamned Damned Damned” (Stiff, 1977) – Il primo singolo punk britannico? New Rose dei Damned, che usciva nell’ottobre del 1976. Il primo album? Questo, che vedeva la luce nel febbraio dell’anno dopo. L’importanza storica dei Dannati è indiscutibile. Sui meriti artistici si può invece dibattere. Paragonato agli altri titoli affrontati in queste due pagine, il debutto dei Damned (che resta ad ogni buon conto il loro disco più riuscito) perde il confronto con quasi tutti. Vale dunque come istantanea dell’epoca e per una manciata di brani (metà programma) comunque ancora eccitanti e godibili.

Dead Boys - Young Loud And Snotty

DEAD BOYSYoung, Loud And Snotty” (Sire, 1977) – Titolo esplicito: “Giovani, rumorosi e arroganti”. Testi pure. Musiche, di più. Bardature sadomaso, schizzi di sangue, abuso di sostanze illecite. Provenienti da Cleveland, Ohio (la stessa città dei Pere Ubu; antenati in comune i seminali Rocket From The Tombs), i Ragazzi Morti sbarcano nella Grande Mela e mettono a ferro e fuoco la scena locale gravitante sul CBGB’s evocando la Detroit di Stooges ed MC5 con un pugno di canzoni che valgono qualunque cavallo di battaglia dei maestri. Ascoltare (Sonic Reducer) per credere.

Richard Hell & The Voidoids - Blank Generation

RICHARD HELL & THE VOIDOIDS Blank Generation (Sire, 1977) –  Chi ha inventato il look punk a base di catene, magliette e jeans laceri e capelli scagliati dal gel verso il cielo? I Sex Pistols? No. Malcolm McLaren? Nemmeno. Fu in realtà il prime mover del punk newyorkese Lester Myers, in arte Richard Hell, che McLaren copiò. Ma non è per questo che a Hell, allontanato dai Television da un Tom Verlaine geloso, va riconosciuto un ruolo chiave nella genesi del genere. Sono Blank Generation, brano ed LP, a conquistarglielo. Rispettivamente, un inno e un capolavoro.

Radio Birdman - Radios Appear

RADIO BIRDMAN Radios Appear (Trafalgar, 1977) – In maniera più “tradizionale” rispetto ai Dead Boys, gli australiani Radio Birdman si pongono pur’essi in scia a MC5 e Stooges, che al tempo erano sciolti da pochi anni ma parevano assai più “preistorici” di quanto non sembrino oggi. Spingono l’omaggio fino a coverizzare, nell’edizione americana di “Radios Appear” (quella australiana ha una scaletta diversa) la T.V. Eye dei secondi. Forse non saranno punk (ai Radio Birdman l’etichetta non è mai piaciuta), ma questo e il seguente “Living Eyes” sono due dei più bei dischi di rock stradaiolo di sempre.

Ramones - Ramones

RAMONESRamones” (Sire, 1976) – Jeans sdruciti, giacconi da tranviere, capelli a caschetto. E poi: canzoni di due o tre accordi bruciate in due minuti. E ancora: cadenze surf, impasti vocali alla Beach Boys, melodie semplicissime e impossibili da cancellare dalla memoria. Tutto qui il segreto dell’eterna giovinezza dei finti fratelli di Forest Hills, New York. Ci hanno marciato splendidamente per vent’anni, quasi altrettanti album e 2263 concerti. Tutto era già presente nel primo LP. Catturatelo, insieme con il successivo “Leave Home”, nel CD “All The Stuff And More Vol.1”.

The Saints - (I'm) Stranded

SAINTSI’m Stranded” (EMI, 1977) – Ritmi per quattro quinti della scaletta (fa eccezione un paio di ballate elettriche) incalzanti, chitarre affilate, ritornelli nevrotici/innodici. Pur danneggiato da una produzione invero approssimativa (era stato concepito come demo), il debutto del quartetto di Brisbane (poi trasferitosi a cercar fortuna, invano, in Gran Bretagna) ventitre anni dopo risulta ancora esplosivo. Soprattutto nei frenetici 3’25” della canzone che lo inaugura e lo battezza. Se ci chiedessero di esemplificare il punk dei primordi con un solo brano, ecco, è quello che sceglieremmo.

Sex Pistols - Never Mind The Bollocks

SEX PISTOLSNever Mind The Bollocks, Here’s The Sex Pistols” (Virgin, 1977) – Dovendolo invece raccontare con un album, quale si presterebbe più di questo? Non il migliore fra quelli che abbiamo individuato come migliori. Anzi! Ma cosa sarebbe stato il punk (ci sarebbe stato il punk?) senza la banda di Johnny il Marcio? Istrionici, iconoclasti e furbetti, i Sex Pistols musicalmente non inventarono nulla (nulla che non avessero inventato gli Who o gli Stooges, se non Eddie Cochran) ma in materia di rapporto con i media scrissero pagine che tuttora si studiano con divertita ammirazione.

Ne voglio ancora!

ALTERNATIVE TVThe Image Has Cracked” (Deptford Fun City, 1978) – Mark Perry, massimo teorico del punk britannico, mette in pratica i suoi insegnamenti.

GENERATION XGeneration X” (Chrysalis, 1978) – I più pop del mazzo.

HEARTBREAKERS “L.A.M.F.” (Track, 1977) – L’anello di congiunzione fra i New York Dolls e il punk.

JAMIn The City” (Polydor, 1977) – Gli eredi degli Who di My Generation.

METAL URBAINLes hommes mort sont dangereux” (Byzz/Rough Trade, 1981) – Sex Pistols + Suicide = Metal Urbain. Postumo.

SHAM 69Tell Us The Truth” (Polydor, 1978) – Gli iniziatori, loro malgrado, del discusso filone Oi!.

PATTI SMITH GROUPRadio Ethiopia” (Arista, 1976) – Rimbaud incontra Jim Morrison e diventa donna, a New York.

STRANGLERSRattus Norvegicus” (United Artists, 1977) – Dei Doors irranciditi da una permanenza troppo prolungata nei bassifondi.

WIREPink Flag” (Harvest/EMI, 1977) – I più avanguardisti.

X-RAY SPEXGerm Free Adolescents” (EMI, 1978) – Rock’n’roll sfregiato dal vetriolo di un sax urlante.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.386, 29 febbraio 2000. Ristampato in forma lievemente rimaneggiata sempre su “Il Mucchio”, n.697, agosto 2012.

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Velvet Gallery (9)

Dio, quanto cominciai a detestarli, a un certo punto gli articoli cosiddetti “trasversali”. Inizialmente una geniale pensata bianchiniana che si trasformava presto in cliché e bisognava allora, ad ogni costo, inventarsi gli accostamenti e i parallelismi più improbabili per sistemare in uno stesso contenitore una band o un solista, uno o più scrittori, possibilmente un qualcosa di cinema. Sul numero 8 di “Velvet” finivano nella stessa scatola il cyberpunk, gli Spacemen 3, i Loop. Be’, tutto sommato potevano pure starci insieme…

Storie di psichedelia minimale 1

Storie di psichedelia minimale 2

Storie di psichedelia minimale 3

Storie di psichedelia minimale 4

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Jerry Garcia – L’ultimo viaggio di Captain Trips

Dopo un abbondante anno di VMO potrei ormai dire che conosco i miei polli. O forse no. Ogni tanto i lettori di questo blob riescono ancora a cogliermi in contropiede ed è successo in maniera clamorosa con l’ultima puntata di “Velvet Gallery”, quella dedicata a certi Grateful Dead apocrifi che offrirono splendida prova di sé nei tardi ’80. Al di là dell’acceso dibattito seguito, a sorprendermi è stato il numero dei visitatori della singola pagina. E chi l’avrebbe mai detto che in Italia, dove  fra l’altro non suonò mai, il Morto Riconoscente fosse ancora così popolare?

Da più parti mi è stato chiesto se dei Grateful Dead originali mi sia mai capitato di scrivere estesamente, o se avessi piani futuri in tal senso, e già ho risposto. Nel frattempo mi è però venuto in mente che qualche parola per costoro, o per meglio dire per colui che più che il leader ne era l’anima stessa, ebbi purtroppo a spenderla, nella più triste delle circostanze. Sul numero 1 di “Magic Fuzz”, fanza durata pochissimo immaginata da quel simpatico svalvolato di John Vignola, toccava a me ricordare Jerry Garcia a poche settimane dalla prematura scomparsa.

Jerry Garcia

Non capita spesso – anzi: non era mai capitato – che un presidente degli Stati Uniti avvertisse la necessità di esprimere il cordoglio della nazione per la scomparsa di un musicista rock. Né era mai accaduto che il sindaco della città dell’artista in questione, San Francisco, facesse esporre le bandiere a mezz’asta in segno di lutto e la CNN per diversi giorni dedicasse una parte dei suoi notiziari a testimonianze sul caro estinto e servizi sullo stato d’animo dei suoi fans. Ma Jerry Garcia, morto per un infarto lo scorso 9 agosto all’età di cinquantatré anni, non era un musicista qualunque e, nello stesso tempo, era molto più che semplicemente un musicista.

Per qualcosa come trent’anni il suo gruppo, i Grateful Dead, ha attraversato in lungo e in largo gli Stati Uniti (e probabilmente non li attraverserà mai più) raccogliendo folle oceaniche, senza nessuna pubblicità e di norma senza un album nuovo da promuovere (la produzione discografica dei Nostri si era fatta assai parca negli scorsi tre lustri: l’ultimo loro LP in studio risale addirittura all’ottantotto). Folle che con il trascorrere del tempo si erano fatte incredibilmente composite: ne facevano parte vecchi e nuovi hippie così come affermati professionisti, vi si incontrava dall’erborista all’insegnante passando per il fanatico di computer e la commessa del supermercato, e quanto all’età si andava oramai dai dodici ai sessant’anni. Folle formate per buona parte da fedelissimi: il fan genuino, il vero Deadhead, vedeva sempre più di un concerto nell’ambito di un tour e non erano pochi quelli che seguivano il gruppo per intere settimane, da una città all’altra. A unire questa umanità variegatissima, oltre ovviamente all’amore per la musica del Morto Riconoscente, l’eredità migliore della controcultura degli anni ’60: le battaglie ecologiste e le sperimentazioni con le sostanze psicoattive, un rapporto equilibrato con la propria sessualità e il rifiuto delle religioni rivelate, delle gerarchie e di ogni pregiudizio politico, religioso, sessuale, razziale.

Al centro di tutto ciò, una rock band che un quarto di secolo prima dei Pearl Jam creò una propria agenzia per combattere le tendenze monopolistiche nell’organizzazione dei concerti; che un mucchio di tempo prima di “Live Aid” cominciò a devolvere una parte dei suoi guadagni a organizzazioni di volontariato; che fregandosene dei lai scagliati al cielo dall’industria ha sempre incoraggiato i cultori a registrare i concerti (giungendo al punto di creare ovunque suonasse aree apposite dedicate a questa attività) e a fare poi circolare i nastri senza lucrarci sopra.

E al centro di questa band c’era Jerry Garcia, un uomo dolcissimo di quelli, davvero rari, che attraversano la vita sorridendo, che l’unione di modestia, attitudine positiva e carisma rende guide spirituali, tanto più naturali perché inconsapevoli. Parole di Bob Dylan: “Per me non era soltanto un grande musicista e un amico, era un fratello maggiore. Mi ha insegnato più cose di quante non si sia mai reso conto. Nulla può lenire o compensare una simile perdita”.

Era entrato a tal punto nell’immaginario americano, Jerry Garcia, che un gelato era stato battezzato con il suo nome.

Certo: è stato anche un grande chitarrista e un compositore superbo. E il capitolo che i Grateful Dead hanno scritto nel Grande Romanzo della musica popolare di questo secolo è fra più avvincenti. Cosmica e insieme terrena, la loro: con radici saldamente affondate nel blues e nel country ma sempre pronta a librarsi verso empirei psichedelici, dalle strutture solide ma nel contempo mobilissime, così da lasciare spazi, allargabili a piacere, in cui far correre l’immaginazione – solo Hendrix, in ambito rock, ha avuto un approccio all’improvvisazione così prossimo al jazz. Non meno di quattro album in studio dei Nostri – “Anthem Of The Sun”, “Aoxomoxoa”, “Workingman’s Dead” e “American Beauty” – meritano di essere chiamati Capolavori e l’elenco dei loro live memorabili – a partire dal colossale “Live Dead” – è ancora più lungo.

Ma a me pare che l’importanza dei Grateful Dead, e di Garcia, trascenda la musica. Rappresentavano l’utopia di un mondo migliore e se è vero che tanti dei sogni degli anni ’60 si sono rivelati illusioni o trasformati in incubi è non meno vero che alcuni dei fiori sbocciati allora si sono poi fatti frutti.

Appena la notizia del triste evento si è diffusa, su Internet si è abbattuto un diluvio senza precedenti di messaggi dei fans: pochi esprimevano dolore, disperazione; i più celebravano la vita, le idee, le opere dell’artista e dell’uomo. Gente che ha capito e ha cominciato da subito a dimostrare che Jerry Garcia è morto, ma è vivo.

Pubblicato per la prima volta su “Magic Fuzz”, n.1, autunno 1995.

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