Sono passati esattamente quarant’anni (per essere pignoli, quarant’anni e una settimana) da quando la Columbia spediva nei negozi l’album d’esordio dell’ennesimo “nuovo Bob Dylan”. Non un “nuovo Bob Dylan” qualunque, però, siccome a farlo mettere sotto contratto (e dalla stessa casa discografica) era colui che già aveva scoperto l’originale. Non fosse stato per John Hammond, la carriera di Bruce Springsteen non sarebbe forse mai iniziata. Non fosse stato per la sua ostinazione, si sarebbe poi probabilmente interrotta dopo giusto un paio di LP, dalle vendite parecchio deludenti in rapporto alla fama di straordinario performer live di cui già godeva il nostro eroe.
Come fatto per i R.E.M. prendendo a pretesto il trentennale di “Chronic Town”, colgo l’occasione di questo anniversario per ripubblicare a puntate su VMO un librettino che firmai per Giunti, nel 1998. Cronologia esclusa.
Blinded By The Light. Growin’ Up. Mary Queen Of Arkansas. Does This Bus Stop At 82nd Street?. Lost In The Flood. The Angel. For You. Spirit In The Night. It’s Hard To Be A Saint In The City.
Columbia, gennaio 1973 – Registrato presso i 914 Sound Studios di Blauvelt, New York – Tecnici del suono: Louis Lekav, Jack Ashkinazy – Produttori: Mike Appel e Jim Cretecos.
Immaginatevi la scena. Da un lato della scrivania c’è il vice-presidente della Columbia e, quel che più conta, il più leggendario scopritore di talenti nella storia dell’industria discografica: nell’arco di oltre quarant’anni è stato lui a portare per la prima volta in sala d’incisione giganti come Billie Holiday, Benny Goodman, Count Basie, Aretha Franklin e Bob Dylan. Dall’altro c’è un Signor Nessuno che ha da quattro mesi cambiato mestiere, da mediocre autore di canzoni a manager rampante. Il suo protetto gli è a fianco. L’esordio è raggelante. Il Signor Nessuno Mike Appel si rivolge così al Mito John Hammond: “Sei quello che ha scoperto Bob Dylan, vero? Be’, vediamo se è stata fortuna o se hai davvero un buon orecchio”. Siccome gli anni almeno a qualcuno portano saggezza e Hammond è la rarità assoluta che è, un discografico che ama il suo lavoro e sa farlo, anziché indicare la porta ai due ospiti zittisce il manager e invita l’artista a fargli sentire qualcosa. Bruce Springsteen attacca It’s Hard To Be A Saint In The City. Due ore dopo Hammond aggiunge al suo curriculum il nome di colui che si rivelerà per la sua etichetta il più azzeccato investimento di sempre. Poiché non ha mai messo sotto contratto nessuno senza prima vederlo su un palco, telefona a un locale del Village, il Gaslight Club, e fissa un concerto per la sera dopo. In un ambiente che potrebbe essergli ostile o comunque indifferente, dacché è una serata riservata ai comici, il giovanotto conquista il pubblico e, definitivamente, John Hammond. Il Mito scrive un memorandum per la Columbia nel quale definisce Bruce Springsteen il migliore artista da lui ascoltato in dieci anni. Ovviamente gli danno retta. Un mese e quattro giorni dopo, è il 9 giugno del 1972, Springsteen firma con la Columbia un contratto per dieci album. Sono passati poco più di sei anni da quando era entrato per la prima, e fino a quel punto unica, volta in uno studio di registrazione. Allora, nemmeno diciassettenne, aveva inciso due brani per un 45 giri del suo gruppo, i Castiles, autoprodotto e mai uscito. In mezzo, lunghe stagioni di concerti che gli hanno dato sì una certa popolarità nei dintorni di casa sua, nel New Jersey, ma non l’hanno portato in realtà da nessuna parte. A ventitré anni lo spettro del fallimento cominciava a incombere, ma adesso è una priorità per una multinazionale del disco.
Non si potrà mai ringraziare abbastanza John Hammond per l’intuito mostrato, una volta di più, nel capire la grandezza di Springsteen al primo incontro e posto perdipiù di fronte a uno solo dei molteplici aspetti della sua sfaccettata personalità (quello però che, a onor del vero, continuerà sempre a prediligere). E a essere onesti tocca ringraziare pure Mike Appel, personaggio scostante che da lì al 1977 danneggerà parecchio il suo protetto, ma al quale va riconosciuto il merito di avere creduto ciecamente in lui e di averlo fino a un certo punto sostenuto anche sacrificando il proprio tornaconto personale. Dirà anni dopo: “Non ho mai avuto nessun dubbio che fosse uno dei migliori, sul palco con quella giacca di pelle… come Elvis. Vogliamo tutti un pezzo di quella pelle. Bruce Springsteen non era un cantante rock qualsiasi. Era una religione. Io mi sono sempre visto come un novello Giovanni Battista che annunciava al mondo la venuta di Bruce”.
La parola chiave in questa citazione di Appel è “rock”. Negli uffici della Columbia il giovane artista si presentò con un aspetto da classico cantautore folk anni ‘60/primi ’70: barba incolta, abbigliamento trasandato da studente e/o artista senza un soldo in tasca, chitarra acustica sotto braccio. E cantò le più verbose e visionarie fra le canzoni che aveva scritto sino a quel momento. Non vi è da stupirsi se fu scambiato da Hammond, che non lo aveva mai visto nella sua usuale dimensione concertistica e che già aveva posto sotto contratto l’originale, per “il nuovo Dylan”, seppure un nuovo Dylan potenzialmente in grado, finalmente dopo tanti falsi allarmi, di non uscire distrutto da un confronto con il Maestro. Il manager ebbe il torto di assecondare la visione di Hammond, di arrogarsi un lavoro, quello del produttore, che non era il suo e, forse, di economizzare eccessivamente sui costi di registrazione del primo LP: “L’intero album venne a costare in tutto 11.000 dollari. La differenza fra i 40.000 preventivamente messi in bilancio e gli 11.000 che spendemmo fu il nostro unico guadagno all’epoca. Cosa ne facemmo? Lo reinvestimmo subito per tirare avanti. Tutti i membri del gruppo. È una pratica comune nel business, nota come ‘differential’, viene fatta da tutti, grandi e piccoli. Risparmiammo parecchio registrando ai 914 Studios, fuori dal grande giro della città. Nonostante questo, se avessimo lasciato Bruce a incidere ai Power Station, secondo me non avrebbe fatto differenza. Non c’era niente di quello che stavamo facendo che necessitasse della qualità di uno studio di registrazione di alto livello. E a ogni modo i 914 Sound Studios erano eccellenti. Il fatto che fossero fuori mano era l’unico motivo per cui le loro tariffe erano scontate”.
Appel ha ragione, però ha torto. È innegabile che il tipo di LP che è “Greetings From Asbury Park N.J.” non abbisogna di studi particolarmente sofisticati. Nondimeno è pure vero che a un album d’esordio si domanda di rappresentare compiutamente quella che è stata, sino a quel momento, l’evoluzione della personalità dell’artista e di indicare, almeno fra le righe, i possibili sviluppi futuri e “Greetings” da questo punto di vista è un fallimento non solo perché punta tutto sullo Springsteen folksinger, ignorando lo Springsteen rocker, ma anche perché la produzione è disastrosa. Il gruppo, quando c’è, oltre a essere posto sullo sfondo rispetto a una voce prevaricatrice è pure ripreso pessimamente. La batteria pare di cartone, il basso manca di qualsiasi profondità, il piano è poco brillante e innaturale, il sassofono uno starnazzare abulico. In generale, la dinamica sarebbe inaccettabile per un demo, figurarsi per un album di una major. Se si prendono per buone le dichiarazioni di Appel riguardo al livello dei 914 Sound Studios (si può farlo non soltanto sulla fiducia visto che il disco successivo, inciso nella stessa sala, ha suoni decisamente migliori), non resta che imputare per intero a lui e a Jim Cretecos la piattezza del risultato finale.
Non vi è da stupirsi se i critici, naturalmente la stragrande maggioranza, che non avevano mai assistito a un concerto di Springsteen e dunque non potevano sapere che il debutto a 33 giri non rendeva più del 10% del suo potenziale, resi oltretutto diffidenti da una massiccia campagna pubblicitaria della Columbia tutta incentrata sulla faccenda de “il nuovo Dylan”, lo scambiarono per un bluff. Ancora all’altezza dell’uscita di “Born To Run” saranno in molti a considerarlo un personaggio costruito a tavolino dalla casa discografica, con una superficialità che non può essere imputata a quanti furono tiepidi con “Greetings From Asbury Park N.J.”. Un mezzo disastro, nonostante regali alcuni fra i brani migliori del repertorio del Nostro.
A uno dei più memorabili è affidato il compito di inaugurarlo. Appel aveva portato in CBS un nastro con le prime tre o quattro canzoni completate e il lavoro era piaciuto, ma gli era stato chiesto qualcosa di più immediato per il mercato dei 45 giri. Girò la richiesta a Springsteen, che immediatamente scrisse Blinded By The Light e Spirit In The Night. Uscirono entrambe in quel formato, senza peraltro riscuotere alcun successo (riprese tre anni dopo dalla Manfred Mann’s Earth Band saranno invece due grossi hit, la prima addirittura un numero uno), e sono, con Growin’ Up, For You e la già citata It’s Hard To Be A Saint In The City, la metà di “Greetings” degno prologo a una vicenda artistica unica nel rock americano dell’ultimo quarto di secolo. Nonostante la produzione ignobile e un testo fluviale dalla dizione confusa (man mano che i testi si faranno più lineari, anche la pronuncia di Springsteen diventerà più intelleggibile) tentino di annegarne il drive funky, Blinded By The Light ha l’agile vigoria tipica già allora dei gruppi del nostro eroe. È gioiosa e guascona. Se gli allucinati flash che la aprono sono dylaniani fino alla parodia, i cinque fulminanti versi conclusivi (“Accecato dalla luce/Mamma mi ha sempre detto di non/fissare il sole/ma mamma è lì che sta/il divertimento”), sono difficili da immaginare cantati dal menestrello di Duluth. Così come quelli a proposito dell’alzarsi quando è richiesto di stare seduti e del trovare la chiave dell’universo nel motore di una vecchia macchina parcheggiata di Growin’ Up, euforico inno di passaggio fra adolescenza e giovinezza scandito da un piano che ha accenti boogie.
In Mary Queen Of Arkansas il gruppo, scalpitante nei primi due brani nonostante la briglia sia tenuta da Appel cortissima (il sospetto è che più che del nuovo Bob Dylan si fosse a un certo punto in cerca del nuovo James Taylor), abbandona il proscenio. Restano una chitarra acustica in 3/4 e una voce dolente. L’atmosfera si rischiara con il vivace folk-rock di Does This Bus Stop At 82nd Street? e torna claustrofobica con il piano melodrammatico di Lost In The Flood, raggiunto solamente intorno a metà brano dal resto del gruppo. È una canzone notevole più che altro per il testo, sensazionale susseguirsi di istantanee dei bassifondi multietnici della Grande Mela degne di un film di gangster di Scorsese o di De Palma. L’immagine del deliquentello ispanico ferito a morte da un poliziotto e il cui corpo “ha colpito la strada con un tonfo così bello” resta nella memoria assai più a lungo della melodia fragile che l’accompagna.
Fragile fino all’inconsistenza è anche l’apertura della seconda facciata, The Angel, una ballata per piano e voce con un tocco di violino finale non redentore, troppo “qualunque” anche per lo Springsteen incerto dell’esordio. Da lì alla fine è però un crescendo. In For You, una Like A Rolling Stone depurata dall’acredine, il folk-rock si sposa al suono che farà della E Street Band la macchina più perfetta che abbia mai corso sulle autostrade del rock’n’roll. Spirit In The Night, esaltata ed esaltante celebrazione di amori e vagabondaggi adolescenziali, è uno dei brani più black mai pubblicati dal Nostro e sarà per anni un punto fermo nelle variabilissime scalette dei concerti. It’s Hard To Be A Saint In The City, infine: sfrutta schemi blues ma non è blues, sa di giovane Dylan ma non è una volgare imitazione, è scarna ma arrangiata con una raffinatezza (quel piano rock’n’roll che si colora improvvisamente di jazz!) che preconizza gli album a venire. John Hammond la ascoltò solo chitarra e voce e se ne invaghì lo stesso perdutamente.
Pubblicato per la prima volta in Bruce Springsteen: strade di fuoco, Giunti, 1998.
commosso ringrazio. leggerò tutto insieme alla fine … e se non è troppo osare chiederlo … perché non inserire “for blog only” un aggiornamento ad oggi ??? 😉
Pagando il giusto… 🙂
Tutto perfetto, tranne: Lost in the flood… Perché melodia fragile?
Giusto oggi leggevo un librettino di Colombati (Nebraska) nel quale veniva ripreso un ampio stralcio da un tuo vecchio articolo, credo su Extra.
Anch’io leggerò sino alla fine (che poi coincide più o meno a quando ho mollato il boss…) e sentitamente ringrazio.
Ciao,
Michael.
Libretto che, non mi stanco di ripetere, è quanto di meglio pubblicato su Springsteen in Italia. Insieme alla retrospettiva sul Mucchio Extra qualche anno fa e mi pare pure quella fosse di Eddy. Ad Andrea Peviani: Lost in The flood è meravigliosa, ma Eddy è un maledetto snob…
D’accordo quasi su tutto. Produzione pessima, ma gli episodi in Hammersmith e Live 1975-85 hanno poi reso giustizia alla qualita’ dei pezzi, compresa Lost in the flood, imho in alcuni passaggi proprio tra i pezzi piu’ dylaniati e dylanianti. E i bootleg: For You al Roxy 78…
Mi permetto di segnalare un lapsus: Hammond porta davvero per la prima volta in sala d’incisione quei giganti da te citati, tutti tranne uno: Bessie Smith, che iniziò a incidere nel lontanissimo 1923, e che Hammond, se non sbaglio, porta in sala d’incisione per l’ULTIMA volta negli anni ’30.
Hai ragione a metà. Hammond non scoprì Bessie Smith. Piuttosto la “riscoprì”. Era il 1933, quattro anni prima della prematura scomparsa dell’artista. Grazie in ogni caso della segnalazione, ho provveduto a correggere.