I giovani non sono più quelli di una volta. Soprattutto perché non è che siano poi così giovani. Prendete Christopher Owens: per essere il Kurt Cobain della sua generazione – una faccenda di pura estetica piuttosto che di musica: parallelo spericolato in epoca Girls e adesso improponibile – è in ritardo di quei sei anni e anzi nove. A parte che Cobain, con cui attualmente condivide giusto la magrezza estrema (e se sia anoressia o altro si preferisce non sapere), non si sarebbe mai prestato a fare da modello per Yves Saint Laurent. A parte che Cobain, povero figlio, qualche ragione per essere stressato ce l’aveva, mentre al confronto fa ridere che il più o meno giovanotto abbia sciolto il gruppo precedente perché non reggeva le pressioni del successo: centodiciannovesimo in Gran Bretagna, trentasettesimo negli States in un tempo in cui vale come valeva un duecentesimo posto in era “In Utero” e di che stiamo parlando quindi? Owens quasi se le tira addosso le cattiverie, chiedendosi pensoso all’inizio di Love Is In The Ear Of The Listener, in ricercato contrasto con il giulivo poppetto chitarristico cui appoggia le sue parole, “what if I’m just a bad songwriter/and everything I say has been said before”? Una domanda interessante, direi, e se tutti quelli che fanno dischi se la ponessero, e poi si dessero una risposta onesta, quanti dischi uscirebbero rispetto a quelli che escono nella realtà? Un dieci per cento? Facciamo cinque, va. Comunque come autore Christopher Owens non è scadente, no. E però è in materia di paraculaggine che è un campionissimo, da podio il giorno in cui l’essere paraculi sarà riconosciuto come disciplina olimpica.
Non c’è niente da fare. Arrivo in prossimità del fondo della mezzoretta scarsa che dura questo debutto solistico ad anni trentatré (ne aveva già trenta il Nostro quando i Girls davano alle stampe il rumoroso ma melodioso ma rumoroso “Album”) dicendomi che non è proprio un pacco ma non è nemmeno ’sto granché e, all’attacco di Part Of Me, invariabilmente cado in ginocchio. In deliquio per uno strepitoso folk-pop a passo di marcia con tutte le cose giuste al posto giusto, mi faccio venire il dubbio di non avere prestato la dovuta attenzione alle otto canzoni (più un incipit e un interludio) prima e ricomincio da capo. Come in un loop che mi lascia insieme irritato ed esilarato. E a ogni giro di giostra il giudizio di un qualcosina migliora. ’Fanculo, Christopher. Avrei anche altra roba da ascoltare, sai?
Concept (’sti ggiovani d’oggi hanno un sacco di idee originali) interamente incentrato su un romanzetto d’amore che ha segnato ultimamente la vita di chi l’ha scritto, di “Lysandre” una cosa non si potrà mai dire: che non sia costruito magistralmente. Dall’incantato Lysandre’s Theme, che lo apre sfumando nella ballata andante con brio Here We Go, al suggello di cui sopra, non vi è nulla che non sia calibrato per tenere costantemente desta l’attenzione. Si tratti di cambio di passo e/o atmosfera che va dietro a cambio di passo e/o atmosfera così come di un intarsio. Magari uno strumento che si aggiunge a costo di caricare di troppi colori il quadro e sciuparlo, come succede con il sax starnazzante che manda in vacca il boogie rock New York City. O con quel flauto che torna spesso e la prima volta che fa capolino dici “figo!” e dopo un po’ è la prevedibilità resa spartito. O con la voce femminile sempre a sostegno, di cui ora si vorrebbe fare a meno e ora che pigliasse il centro del proscenio. Di A Broken Heart azzarderei che si esaurisca nel titolo esplicito, di Everywhere You Knew che abbia il difetto opposto del resto di un programma che infioretta troppo le sue seduzioni spicciole ma insidiose. Mi piacciono invece senza “se” e senza “ma” il beat scanzonatissimo e adeguatamente energico Here We Go Again, una Riviera Rock da celare in qualche piega del catalogo nobile 2 Tone, una traccia omonima di giocosa circolarità. Tipo Donovan che decide di scrivere qualcosa per i Beatles, quest’ultima, e ci va coraggio oltre che talento soltanto per provarci. Sulla faccia da schiaffi mi sono dianzi espresso.
ma cosa vuoi che conti se il disco sia bello o brutto dinanzi alla domanda più scottante che ti sei guardato bene dal porti: la Fat Possum come fa a licenziare un disco con una copertina del genere? Dal concept, alla faccia del tipo, alla scelta della fotografia che lo immortala … solo a me sembra inquietante tutto ciò?
Disco carino, caruccio, uccio. Da sette più, ma non di più…
Credo che Fat Possum intenda differenziare il proprio catalogo in maniera analoga alla Sub Pop post-grunge. E non ci vedo francamente nulla di male.
“di male” … è una affermazione grossa. Io volevo essere ironico ed allo stesso tempo però quella foto mi ha inquietato molto sul serio. Troppo fashion, troppo curata. La Fat Possum non ho mai pensato fosse obbligata a seguire per sempre un filone Burnside-style, ma nemmeno avrei mai pensato che si volesse dedicare a roba del genere (parlo solo sulla scorta del tuo ascolto). Anche commercialmente credo sarebbe stato meglio differenziare questa scelta come “marchio”. Magari …. “Slim Possum” 🙂