Bruce Springsteen 1973-1995 (3): Born To Run

Born To Run

Thunder Road. Tenth Avenue Freeze-Out. Night. Backstreets. Born To Run. She’s The One. Meeting Across The River. Jungleland.

Columbia, ottobre 1975 – Registrato presso i 914 Sound Studios di Blauvelt e il Record Plant di New York – Tecnico del suono: Jimmy Iovine – Produttori: Bruce Springsteen, Jon Landau, Mike Appel.

Ricordava Springsteen in un’intervista del 1974: “Per diversi anni non ho avuto un giradischi. Più o meno da quando i miei si trasferirono a ovest a quando sono venuto a New York. Di conseguenza, si può dire che io non abbia ascoltato davvero alcun album uscito dopo il 1967”. È lecito chiedersi, dunque, come sarebbe stata la musica del Nostro se avesse avuto quell’esposizione alla psichedelia (conosciuta solo per breve contatto diretto, al tempo del soggiorno californiano degli Steel Mill) e ai cantautori intimisti dei primi ’70,  che invece non ebbe. Ma dopo averci riflettuto un po’ si giunge alla conclusione che probabilmente nulla sarebbe cambiato. Non per incompatibilità del Nostro con Jefferson Airplane o James Taylor, beninteso, giacché ha sempre dimostrato un eclettismo negli ascolti e un’apertura mentali notevoli, bensì perché nel 1967 (aveva allora diciotto anni) la sua formazione musicale era completata e tutta o quasi orientata verso suoni neri o influenzati dai neri, e non molta psichedelia e pochissimi cantautori saranno sensibili a quelle influenze. Soprattutto, perché l’arte di Springsteen è proustianamente volta alla ricerca del tempo perduto e nella memoria niente resta impresso come il primo giorno di scuola, una festa più speciale di altre, una gita o un litigio con i genitori, il primo bacio. E le canzoni che di tutto ciò sono state colonna sonora, inseguite alla radio, suonate su un impianto da poco o abbozzate, incespicando ed esaltandosi, sulla prima chitarra.

Si dice che i musicisti possano essere divisi in due categorie. Della prima fanno parte i Peter Buck e gli Elvis Costello, semplici appassionati prima che artisti, gente con collezioni di dischi sterminate e conoscenze enciclopediche, non limitate al genere che suonano. Sono un’esigua minoranza costoro. Per quanto strano possa sembrare, tanti musicisti non ascoltano musica che di rado e senza metodo, accendendo la radio o la TV. Altri conoscono la scena in cui si muovono ma da lì non si scostano. Molti si sono fermati agli ascolti dei quindici anni, quelli che li spinsero a imbracciare uno strumento. A tutti difetta la curiosità di investigare su passato e presente, variamente giustificata, il più delle volte con l’aspirazione a una peraltro impossibile originalità, che l’ascolto di troppa musica d’altri comprometterebbe.

Bruce Springsteen non appartiene né alla prima schiera né tantomeno alla seconda, da cui lo distanziano l’interesse per l’opera altrui e la consapevolezza di suonare musica popolare, per la quale l’originalità è un falso problema. Cosciente di non inventare nulla, nello stesso tempo sa che ciò non lo sminuisce, perché perpetuare la tradizione in termini non di pura nostalgia equivale a mantenerla vitale e non è impresa da poco. Dalla prima lo separa invece un approccio alla musica più istintivo, vissuto con  cuore e visceri prima che con la mente che interviene semmai, per spiegare la passione, a posteriori. E se non è titolare di una ricca discoteca nondimeno il Nostro conosce bene le radici della sua arte e l’humus culturale in cui affondano. Può non possedere il disco che contiene una certa canzone ma quella canzone l’ha fatta sua in altra, più profonda maniera, ascoltandola alla radio innumerevoli volte e poi suonandola.

Ecco, l’educazione musicale di Springsteen, dipanatasi attraverso le consuete quattro tappe, può essere così schematizzata: le canzoni ascoltate alla radio sono state la scuola elementare; quelle stesse canzoni fatte proprie imparando a suonarle alla chitarra, le medie inferiori; ancora quelle canzoni suonate con un gruppo, il liceo; le canzoni autografe a quelle ispirate, l’università. Per gli aspiranti a una laurea in rock’n’roll fra il 1958 e i tardi anni ’60 non vi era corso di studi migliore di quello offerto dalle radio americane in AM. Il giovane Springsteen ne fece tesoro, innamorandosi via via di Elvis, del sanguigno soul sudista di scuola Stax/Atlantic, di quello venato di pop della Motown e del suo controaltare, il pop venato di soul delle produzioni di Phil Spector. E poi dei gruppi della British Invasion e di quelli americani che da quel fenomeno furono ispirati. E infine di Dylan. Fino a “The River”, quando si aggiunse una vena country, tutte le sue influenze ricadevano in uno di questi cinque filoni: rock’n’roll dei primordi; soul e rhythm’n’blues; pop orchestrale; il rock inglese della prima metà dei ’60; Bob Dylan. Lo si evince chiaramente – oltre che dall’ascolto dei dischi e dalla lettura delle interviste – dal lunghissimo elenco di cover suonate dal vivo da Springsteen posto da Dave Marsh in appendice a Born To Run il libro. A volte presenti in scaletta una sera e basta, a volte in lista per intere tournée quando non per anni. Interpretazioni sovente stellari il cui ricordo è per la più parte affidato a  registrazioni illegali, visto che, tolti quattro titoli presenti nel quintuplo live e il traditional Pony Boy apposto in calce a “Human Touch”, il Nostro non ha mai inserito brani scritti da altri nei suoi LP, riservandoli, quando ne ha incisi, a 45 giri e raccolte di autori vari. Non è che non abbia mai considerato tale evenienza però. La prima volta accadde mentre si trovava in studio per porre su nastro “Born To Run” l’album e incise una versione strumentale di A Love So Fine delle Chiffons, poi esclusa dalla scaletta definitiva: una canzone di Phil Spector, non a caso.

Quando entrai in studio per registrare ‘Born To Run’ volevo costruire un disco che avesse testi come quelli di Bob Dylan e suoni come nelle produzioni di Phil Spector, ma soprattutto volevo cantare come Roy Orbison.

Obiettivi ambiziosi e raggiunti, anche se naturalmente il Dylan di Sprinsgteen non è proprio Dylan, giacché parla con una lingua più piana di quella del bardo di Duluth, e di Phil Spector l’album adotta sì i toni sinfonici ma venando il suo romanticismo di un pessimismo che sa molto, appunto, di Orbison e del suo cantare per i solitari omaggiato esplicitamente nei primi versi dell’iniziale Thunder Road. È un miracolo di sintesi questo LP: Phil Spector e Bob Dylan, Roy Orbison e i Creedence, John Lennon e Pete Townshend, il rock’n’roll dei ’50 e il soul e il rhythm’n’blues dei ’60, e suggestioni latine e jazzy, tutto insieme, in un fluire armonioso ed emozionante di rimandi che non si finisce mai di scoprire. È un disco di rock classico e un classico della musica rock. È il luogo ove le promesse fatte da “Greetings From Asbury Park” e da “The Wild, The Innocent & The E Street Shuffle” vennero mantenute. È il lavoro che infine giustificò appieno le iperboli dei critici e la leggenda cresciuta attorno ai concerti di Springsteen e ormai giunta fino in Europa. È il primo album del Nostro dalla produzione, se  non esente da pecche, nel complesso del tutto soddisfacente. Il primo da cui non si potrebbe togliere nulla, ma proprio nulla. Nonché l’ultimo dell’era Appel, il tempo degli equivoci, e il primo dell’era Landau.

I deludenti esiti commerciali del 33 giri d’esordio (appena 25.000 copie vendute nel primo anno nei negozi) accompagnati a  cambi di personale negli uffici dirigenziali avevano determinato un disinteresse totale da parte della Columbia riguardo alle sorti del secondo LP, disinteresse che si era naturalmente ripercosso su vendite di nuovo fallimentari. Sembrò a un certo punto che l’etichetta fosse intenzionata a rescindere il contratto e probabilmente ciò sarebbe avvenuto senza una recensione di Jon Landau, uno dei più prestigiosi critici musicali americani, nella quale dichiarava nientemeno che di avere visto il futuro del rock’n’roll, un futuro chiamato Bruce Springsteen.

L’articolo di Jon arrivò in un momento in cui molte persone, incluse quelle della casa discografica, si domandavano se io valessi davvero qualcosa. Mi diede molte speranze… I ragazzi della band e io guadagnavamo cinquanta dollari a testa alla settimana. L’articolo mi aiutò ad andare avanti. Mi resi conto che stavo colpendo qualcuno.” (Bruce Springsteen)

Con quella frase, ‘ho visto il futuro del rock’n’roll e il suo nome è Bruce Springsteen’, volevo dire che in lui avevo trovato una nuova forma di purezza e di energia, di sincerità che in quel momento mi sembravano assenti nel mondo del rock’n’roll, che tendeva piuttosto a confezionare prodotti di mercato, superficiali. Ecco invece un cantante che aveva una spiccata umanità, una persona onesta che cantava di cose importanti per tutti. Era una frase retorica, ma mi era venuta spontanea dopo avere assistito a un concerto di Bruce.” (Jon Landau)

Il 1974 aveva visto avvicendamenti importanti nel gruppo. In febbraio se n’era andato Lopez, rimpiazzato da Ernest “Boom” Carter, che a sua volta se ne sarebbe andato in luglio insieme, defezione ben più grave, a David Sancious. Li sostituirono in agosto, rispettivamente, Max Weinberg e Roy Bittan, i primi due musicisti non di Asbury Park a entrare in formazione. Per rimarcare  l’importanza dell’evento e il ruolo svolto dal gruppo Springsteen da questo momento al 1988 girerà come Bruce Springsteen & The E Street Band (è interessante però rimarcare che l’unico disco così intestato è il quintuplo dal vivo, a chiarire che il Nostro considera i lavori in studio esclusivamente suoi mentre, nella dimensione live, riconosce una certa rilevanza al contributo dei musicisti che lo accompagnano). Già in primavera, nei ritagli di tempo concessi da un’attività concertistica intensa (anche perché rappresentava per la E Street Band l’unica fonte di reddito), si era cominciato a lavorare al terzo LP, nei soliti 914 Sound Studios di Blauvelt e con Appel in cabina di regia. Le registrazioni procedevano tuttavia assai lentamente, mentre  lo scoramento si impossessava di leader e gregari. Come già visto, prima Lopez, quindi Carter e Sancious alzeranno bandiera bianca. L’articolo di Landau, uscito in maggio, risollevò il morale e persuase la Columbia a puntare di nuovo sul pupillo di Hammond. Proprio sulla famosa frase sul futuro del rock’n’roll venne impostata una campagna pubblicitaria che aveva ora bisogno di qualcosa da pubblicizzare. Consapevole che il nuovo LP sarebbe stato decisivo per il suo avvenire, Springsteen al peso di questa consapevolezza quasi soccombette nel corso di una lavorazione travagliatissima – Landau affiancò Appel come produttore nel marzo 1975 e in aprile ci si trasferì ai Record Plant e si ripartì pressoché da zero – che lo lasciò stremato e a tal punto incerto sul valore dell’album da proporre alla CBS di fare uscire un live con la stessa scaletta. Richiesta per fortuna rigettata. Ascoltando il disco riesce difficile credere che l’artefice di questa pietra miliare abbia potuto dubitare anche per un istante della sua creazione.

Le due facciate di “Born To Run” sono strutturate in maniera simile e hanno un’articolazione quasi da suite. In entrambe il brano chiave è il primo (significativamente, le due canzoni sono da allora immancabilmente presenti nelle scalette live) ed entrambe si congedano toccando un climax drammatico. Thunder Road e Born To Run sono le due facce di una medesima medaglia: il loro tema sono i sogni dell’adolescenza che svaniscono, la dolorosa consapevolezza del “forse non siamo più così giovani” condivisa dai protagonisti della prima che porta quelli della seconda a continuare a fuggire a se stessi, all’epifania di Backstreets, lo “scoprire che siamo solo come tutti gli altri”. L’una e l’altra canzone hanno un finale apparentemente ottimista. Thunder Road, la più memorabile delle ballate pianistiche del Nostro, si chiude con un’esplosione vitalistica: “è una città piena di perdenti/ed io me ne sto andando per vincere” canta Springsteen, e Clemons lo fiancheggia con un assolo di sax gioiosamente furente. L’epica cavalcata elettrica, scandita da un muro di Fender cui Phil Spector avrebbe forse potuto rendere giustizia (Mike Appel, purtroppo, no) di Born To Run, si acquieta nella parte centrale per tornare a impennarsi su una promessa: “Un giorno ragazza, non so quando,/raggiungeremo quel luogo/dove davvero vogliamo andare/e cammineremo nel sole/ma fino ad allora vagabondi come noi/sono nati per correre”. Vi è ben poco di ottimistico in realtà: l’adolescenza è finita, le sue infinite promesse sconfitte dalle assunzioni di responsabilità dell’età adulta. Resta giusto il tempo per un’ultima corsa senza meta.

È l’ultimo LP  di Springsteen, “Born To Run”, in cui a prevalere sono i toni romantici, ma è un romanticismo amarognolo che contiene in nuce il duro neorealismo a venire. I protagonisti delle struggenti Backstreets e Jungleland possono ancora “camminare come eroi” ma devono nascondersi nei vicoli o bruciarsi in un valzer di morte, quello di Night  può ancora riscattare lo squallore della schiavitù di un lavoro senza redenzione correndo nella notte “triste e libero”, sulle ali di un rock’n’roll che anticipa “The River”, ma presto non gli resterà nemmeno tale patetica illusione e sarà l’uomo abbrutito e disperato di Factory.

I brani di raccordo fra due dischi tanto diversi come “The Wild, The Innocent & The E Street Shuffle” e “Born To Run” sono strategicamente piazzati in seconda posizione sull’uno e sull’altro lato: Tenth Avenue Freeze-Out è un po’ una nuova E Street Shuffle; She’s The One caracolla su un ritmo sferragliante che deve molto a Bo Diddley (e difatti la E Street Band era solita eseguirla in medley con Mona). Resta da dire di Meeting Across The River: la tromba rabbrividente che si libra sul piano e una ritmica affidata al solo basso (Richard Davis, non Garry Tallent; la tromba è quella di Randy Brecker) la fanno crepuscolare e waitsiana e la rendono, come Wild Billy’s Circus Story, unica nel canone springsteeniano.

Pubblicato per la prima volta in Bruce Springsteen: strade di fuoco, Giunti, 1998.

1 Commento

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Una risposta a “Bruce Springsteen 1973-1995 (3): Born To Run

  1. Tutto molto bello come sempre, ma su Springsteen devo sempre romperti un po’ le palle. Stavolta non mi va giu’ che Tenth avenue… sia un po’ una nuova E street shuffle. Semmai E street shuffle era il primo tentativo di arrivare a Tenth avenue

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