“Ho una grande notizia da dare al mondo: non c’è una cosa chiamata new wave. Non esiste. Non è che una fantasia da froci. Non è mai stata altro che una cosa gentile da dire quando stai cercando di spiegare che non ti piace il noioso, vecchio rock’n’roll ma non osi pronunciare la parola ‘punk’, perché hai paura che ti sbattano fuori dalla fottuta festa, che non ti diano più la coca. C’è musica nuova, c’è un nuovo underground, c’è il noise, c’è il punk, c’è il power pop, c’è lo ska, c’è il rockabilly, ma new wave non vuole dire un cazzo.”
Così Claude Bessy, allora direttore di “Slash”, esprimeva a Penelope Spheris la difficoltà a definire cosa mai fosse questa “new wave” di cui tanto si parlava. Persino il dubbio che esistesse. Era il 1980 e la tirata di Bessy è uno dei tanti momenti memorabili offerti da The Decline Of Western Civilisation, straordinario documentario sulla scena punk californiana. Vent’anni dopo, definire cosa sia stata la new wave è ancora impresa improba. Ci proviamo, partendo come Bessy da cosa non è mai stata: non un genere, bensì un insieme di sottogeneri nati sulla spinta del punk. Una caratteristica condivisa da tutto il movimento: un’ansia sperimentale che spingeva a connubi d’influenze arditi e faceva sì che ogni recupero fosse creativo. Ecco, quel che rese così eccitante la new wave è che era per l’appunto “new” anche quando i suoi elementi costitutivi erano già noti. “Niente Elvis, Beatles o Rolling Stones nel 1977”, avevano cantato i Clash appena due anni prima di convocarli tutti per quella summa di un quarto di secolo di rock’n’roll chiamata “London Calling”. La new wave mise viceversa in pratica quel manifesto, recuperando del rock precedente non la fisicità del rockabilly, del beat, del garage, ma la cerebralità di psichedelici e tedeschi. Nello stesso modo in cui al reggae preferiva la sua variante più ostica, il dub, e al calore del blues e del soul un funky più di testa che di bacino. Il punk era una faccenda di chitarre? La new wave rispose con l’elettronica. Il punk veniva dalle strade? La new wave dalle scuole d’arte. Ma la seconda non fu una reazione al primo, bensì una sua conseguenza, e tutti e due furono una reazione al progressive, ai cantautori, in parte alla disco.
Le rivoluzioni sono destinate a non durare, al massimo a lasciare eredità. Così è stato per la new wave, che giungeva al capolinea intorno al 1983-’84 ma tracce della quale sono individuabili oggi in quella composita scena che si suole definire post-rock e anche in campioni di vendite come i Nine Inch Nails o gli Smashing Pumpkins. Per non dire di chi già c’era allora e ancora c’è, come U2 o Sonic Youth.
Non resta che stabilire i limiti temporali della nostra indagine. Detto di quando morì, uccisa dall’emergere di tendenze passatiste, occorre individuare una data di nascita per la new wave. Si potrebbe fissare il lieto evento al 2 marzo 1974, data in cui i Television esordirono dal vivo. Furono loro a battezzarla anche discograficamente, nell’agosto ’75, con il 45 giri Little Johnny Jewel. Toccò ad altri newyorkesi, i Blondie, tagliare per primi il traguardo del 33 giri, nel dicembre 1976. A meno di non volere riconoscere tale primogenitura ai Residents. Il meglio di sé, ad ogni modo, la new wave lo offrì fra il 1978 e il 1981.
CURE “Three Imaginary Boys” (Fiction, 1979) – Prima di diventare per una breve stagione alfieri del gotico (di cui “Pornography” è uno dei capisaldi), equivoco che ancora oggi li penalizza, i giovanissimi Cure mostrano la loro valenza di artigiani pop in un disco spumeggiante in cui intingono nell’LSD riff alla Jam e fanno suonare Jimi Hendrix con i Devo, sciorinano beat di rara grazia per poi sporcarlo di isteria. Un classico, sebbene la sua versione americana, “Boys Don’t Cry” (PVC, 1980), gli sia preferibile per le preziose aggiunte, fra le altre, della title-track e di Killing An Arab.
DEVO “Q: Are We Not Men? A: We Are Devo!” (Warner Bros, 1978) – Si dovesse scegliere una sola canzone per spiegare cosa fu la new wave, la più autorevole candidata sarebbe la versione di Satisfaction dei Rolling Stones elaborata dal quintetto di Akron: cibernetica proiezione nel futuro di uno dei topoi del rock’n’roll. Umanissimi (umanistici) cantori dell’alienazione indotta dal trionfo della tecnologia, i Devo dipinsero un mondo paranoico riscattandolo con un’ironia mordace. Perché ciò che distingue l’uomo dai robot è che costoro non impareranno mai a ridere.
JOY DIVISION “Closer” (Factory, 1980) – Quando il secondo (e ultimo vero) album dei mancuniani venne pubblicato, Ian Curtis era già materia organica in decomposizione. Il Jim Morrison della sua generazione (ma in lui non vi era nulla dell’orgiastico vitalismo del leader dei Doors) aveva posto fine alla sua esistenza impiccandosi e quella tragedia è stata determinante per cristallizzare l’immagine dei Joy Division, giovani ammaliati da invincibili malinconie che si concedono un empito di ribellione prima di arrendersi, inani, alla tragedia della vita.
PERE UBU “The Modern Dance” (Blank, 1978) – Altri paesaggi industriali americani oppressi da un cielo plumbeo di smog. Dalla Akron dei Devo alla Cleveland di David Thomas e soci cambia l’approccio allo spartito: qui più tribale, convulso, meno Kraftwerk e più Captain Beefheart, una parte di acido solforico e una di acido lisergico in un intossicante cocktail. Protagonisti di una delle poche rimpatriate con un senso nella storia del rock, i Pere Ubu da conoscere assolutamente sono tuttavia questi. La danza moderna muove su un filo di esuberanza, su abissi d’angoscia.
PUBLIC IMAGE LTD. “The Metal Box” (Virgin, 1978) – Pagati i debiti residui con il punk con il debutto “First Issue”, Johnny “non più Rotten” Lydon, Keith Levene e Jah Wobble stilano un capolavoro di sintesi in cui il krautrock collide con il dub e si stempera in una malevola ambient che anticipa l’isolazionismo. Originale sin dalla confezione (una scatola di metallo del tipo di quelle usate per conservare le bobine dei film; le stampe successive, ribattezzate “Second Edition”, avranno una normale copertina di cartone), il secondo P.I.L. mette in musica Rimbaud come nessun’altro disco mai.
SIOUXSIE AND THE BANSHEES “The Scream” (Polydor, 1978) – Come in quello di Munch, nell’urlo di Siouxsie ci sono orrore e disperazione autentici ma anche un che di beffardamente teatrale. È il quesito di sempre: l’arte imita la vita o è il contrario? Fatto sta che aggirandosi nelle tenebre fra queste dieci canzoni bellissime, archetipi senza colpa degli esangui stereotipi dark, si avverte che più che a una tragedia (come fu il caso dei Joy Division) si sta assistendo alla compiaciuta rappresentazione di essa. Nondimeno magistrale.
SUICIDE “Suicide” (Red Star, 1977) – Fra i primi gruppi “rock” a rigettare la formula chitarra-basso-batteria per l’accoppiata marchingegni elettronici-voce (prima di loro i Silver Apples e qualche tedesco), i newyorkesi Suicide di tale stirpe sono tuttora i “più”: geniali, influenti, estremisti. A ventitré anni dall’uscita Frankie Teardrop, disturbante cronaca di follia domestica urlata da Alan Vega sui fondali da fabbrica creati dal synth di Martin Rev, è ancora un’esperienza d’ascolto radicale. E il resto è rockabilly da ventunesimo secolo, cantilene futuriste, perversione, dolcezza.
TALKING HEADS “More Songs About Buildings And Food” (Sire, 1978) – Dalle canzoncine nevrasteniche del precedente “77” all’ossessivo funky di “More Songs” il passo sembrerebbe lungo. Lo è in effetti, ma con l’aiuto di Brian Eno i Talking Heads lo compiono senza inciampi. È l’inizio di quel flirt con la musica nera che porterà in due anni, per tramite di “Fear Of Music”, alle sinfonie poliritmiche africaneggianti di “Remain In Light”.
TELEVISION “Marquee Moon” (Elektra, 1977) – John Coltrane che incontra i Moby Grape: così si potrebbero riassumere – Tom Verlaine benedicente, avendo egli sempre dichiarato tali influenze – i programmi della migliore TV che abbia mai trasmesso dalla Grande Mela. Free jazz e psichedelia insieme in visionari paesaggi urbani quali non se ne ammiravano dai tempi dei Velvet Underground. Altri numi tutelari esposti sin dal nome d’arte scelto dal giovane Tom Miller: i poeti decadenti francesi. Amore condiviso con l’amico ripudiato Richard Hell e la musa di sempre Patti Smith.
ULTRAVOX “Systems Of Romance” (Island, 1978) – Senza più il punto esclamativo nella ragione sociale, gli Ultravox del terzo LP, ma per fortuna ancora con John Foxx, senza il quale produranno techno-pop la cui enfasi (smisurata) sarà direttamente proporzionale tanto alle vendite che alla pochezza delle idee. Altra storia i primi Ultravox!, versione aggiornata al dopo punk dei Roxy Music e di certo krautrock. Non a caso si scomodarono per produrli Eno e Conny Plank.
Ne voglio ancora!
BAUHAUS “The Sky’s Gone Out” (Beggars Banquet, 1982) – È il loro disco meno lugubre il capolavoro dei vessilliferi del gotico.
B-52’S “B-52’s” (Warner Bros, 1979) – Hanna & Barbera + Phil Spector + Devo =…
CLOCK DVA “Thirst” (Fetish, 1982) – Glaciale avanguardia.
ECHO AND THE BUNNYMEN “Heaven Up Here” (Korova, 1981) -Surreale e niente affatto revivalistica psichedelia.
GANG OF FOUR “Entertainment” (EMI, 1979) – Funky marxista. Irruento, algido e sghembo.
KILLING JOKE “Killing Joke” (EG, 1980) – Una danza di guerra mozzafiato.
POP GROUP “Y” (Radar, 1979) – Free jazz, funk, dub, punk, rumorismo e politica. Magmatico.
WALL OF VOODOO “Call Of The West” (IRS, 1981) – Morricone wave.
WIRE “154” (Harvest, 1979) – Electro-pop stralunato, fra estasi e fisicità.
XTC “Drums And Wires” (Virgin, 1979) – Se sono stati “i Beatles della new wave”, questo è il loro “Rubber Soul”.
Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.389, 21 marzo 2000. Ristampato in forma lievemente rimaneggiata sempre su “Il Mucchio”, n.697, agosto 2012.
Bello questo articolo.
Riguardo al “non genere” della new wave ci sono sempre state discussioni a proposito delle sue correlazioni con il punk e il post-punk.
Ad esempio se allargarne i confini temporali includendo al suo interno il punk o se considerare la new wave come la prosecuzione “razionale” da un lato e “musicale” dall’altro, del punk. Io, nel costruire un mio punto di vista storico del rock, ho sempre “preferito” la seconda interpretazione, così come ho sempre ritenuto un po’ forzato individuare il 1983 come limite massimo. Un altro paio di anni ci possono stare, non foss’altro per includere il periodo d’oro della New Wave nostrana.
A proposito; custodisco con piacere una “Guida pratica” di Rumore (progenitore degli articoli ricordati), dedicata alla New Wave, a firma Guglielmi-Cilìa.
La sai la cosa strana? non mi definirei e poi mai un appassionato di new wave, ma questi dischi li ho tutti (tranne siouxsie che proprio non ho mai, mai digerito) e tre/quattro li ho tra i favoriti di sempre (talking, television, pere ubu e cure sicuramente, e pure i suicide). Proprio un non genere sotto il cui cappello sta veramente tanta (e differente) roba.
Come fai a restare insensibile anche solo a “Hong Kong Garden” 🙂
‘gna faccio proprio, è una questione di pelle e poi sono sempre stato più colorato, a me tutto sto nero è sempre garbato poco
Interessante questa ripresa di articoli 10+10. Mi chiedo se non possa diventare un appuntamento fisso, anche oltre i ripescaggi.
Domanda incidentale: il “rockabilly revival” ricade nella new wave in senso lato? Se da un lato è certo che riesuma stilemi passati, dall’altro è incontrovertibile che dal punk qualcosa – e in certi casi, come lo psychobilly, ben più di qualcosa – mutua.
Per quanto ricordo io, nemmeno in un tempo un po’ confuso in cui Tom Petty o gli XTC potevano ritrovarsi nella casellina del punk ed Elvis Costello in quella della new wave nessuno pensò mai di catalogare sotto quest’ultima voce gli Stray Cats o Robert Gordon. Rispetto alla tradizione del rock’n’roll più classico la new wave era (ed era vista) comunque come una cesura. Rispetto allo stesso punk segnava uno stacco.
Sono d’accordo con te, infatti, ma volevo un “sigillo d’autore” in tal senso, visto che ho letto anche voci nel senso di cui sopra (la premiata ditta Assante-Castaldo).
Ottimo pezzo.
Eddy volevo chiederti: la new wave e il post punk sono la stessa cosa? Qual’è, se esiste, la differenza?
qui ci vuole il gesuita più fine…
Indubbiamente… Ad maiorem dei gloriam.
Hanno finito per diventare sinonimi. Volendo essere pignoli, cronologicamente molta new wave del punk è coeva e quindi chiamarla post-, a meno di non dare al prefisso un’accezione squisitamente stilistica, sarebbe scorretto.
Curioso che In the flat field non appaia neanche nei +10… Oibò, consideri The sky’s gone out superiore?
Ovviamente la regola era: un gruppo, un disco. E sì, in una discografia senza grossi dislivelli qualitativi ci sta la scelta che feci. Dopodiché, nel libro dei 1000 fra i due litiganti ha goduto un terzo. 🙂
Eddy parlava degli esordi dei Television, più o meno nello stesso periodo operavano anche i Rocket From The Tombs di Peter Laughner.
Il ponte tra la Detroit degli Stooges e i Dead Boys; difficile qualificarli come new wave, a mio parere.
C’è già molto anche dei Pere Ubu secondo me, i loro pezzi in fase embrionale hanno già la visionarietà delle versioni che incideranno poco dopo.
Questo articolo è una perla!
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Il “non genere” che ha prodotto i miei dischi preferiti in assoluto. Posso definirmi un “non fan”
Ciao Eddy!
Io “sbarellavo” di brutto per i SOUND. Penso che i loro primi due lp siano inferiori solo a quelli dei joy division,almeno per quanto riguarda il panorama inglese. Opinione personale per carità, però noto con dispiacere che ogni volta che si parla di new wave post punk ecc, vengono regolarmente ignorati.
Cavolo….piacevano solo a me?
Piuttosto di recente li ho straelogiati sempre sulle pagine del “Mucchio”, i Sound. Ma, oggettivamente, in una lista globale (quindi non solo britannica) di venti titoli non mi pare ci possano stare.
Inappuntabili e ineccepibili i nomi indicati da Eddy. Per sottolineare
la ricchezza e la varieta’ di quella stagione indico altri dieci nomi che
hanno fatto “sbarellare” tanti di noi.Alla rinfusa, usciti tra ’78 e ’81:
– Glenn Branca (The Ascension)
– The Feelies (Crazy Rhythms)
– Tuxedomoon ( Half Mute)
– Wipers (Youth of America)
– Chrome (Alien Soundtracks)
– The Fall (Dragnet)
– Slits (Cut)
– This Heat (idem)
– Swell Maps ( Jane From…)
– Half Japanese ( 1/2 Gentlemen…)
There was a season…
Intendiamoci, sono d’accordissimo sui titoli scelti da Eddy!
Non ho mai amato molto Killing Joke e Echo and the Bunnymen, ma nessun dubbio sulla loro importanza.
Concordo anche con i titoli da te elencati (Crazy Rhythms poi è uno dei miei preferiti in assoluto) ai quali aggiungerei sicuramente To Each…. di A Certain Ratio, e qualcosa di Psychedelic Furs e Monochrome Set
solid gold dei gang of four meglio di entertainment, non dimentichiamo poi i doctors of madness che pochi ricordano poi molto interessante anche l’omonimo di tom verlaine
Altri da ricordare: Blank Generation di Richard Hell And Voidoids, Patti Smith con Radio Ethiopia, Wave, Easter, Horses i Residents con lo stralunato Duck Stab i Clash con Sandinista i Modern Lovers con il primo fantastico omonimo e nel mazzo ci sta bene anche l’omonimo dei Metro molto anticipatore e davvero bellissimo.