The E Street Shuffle. 4th Of July, Asbury Park (Sandy). Kitty’s Back. Wild Billy’s Circus Story. Incident On 57th Street.Rosalita (Come Out Tonight). New York City Serenade.
Columbia, novembre 1973 – Registrato presso i 914 Sound Studios di Blauvelt, New York – Tecnico del suono: Louis Lahav – Produttori: Mike Appel e Jim Cretecos.
È inconsueto imbattersi in una discografia in due lavori vicini tanto diversi fra loro come sono “Greetings From Asbury Park N.J.” e “The Wild, The Innocent & The E Street Shuffle”. I primi due, poi, e temporalmente assai prossimi l’uno all’altro. Dieci mesi appena separano le date di pubblicazione, qualcosa più di un anno quelle di registrazione visto che la Columbia, ai cui piani alti evidentemente qualcuno non era del tutto convinto dell’operazione Springsteen, non era stata granché solerte nell’immettere sul mercato l’esordio a 33 giri dell’ultima scoperta di John Hammond. In ogni caso, pur tenendo conto che ogni futuro LP del Nostro si differenzierà in maniera netta dal predecessore (persino “Human Touch” e “Lucky Town”, usciti insieme, sono chiaramente figli di gestazioni diverse), la distanza che separa i due dischi si direbbe ben superiore a un anno e si rimarca sin dalla confezione.
Per gran parte della sua carriera, almeno fino a “Tunnel Of Love” compreso, il nostro uomo ha curato molto le copertine dei suoi album, rendendole parte integrante del concetto di base che sottende ciascuno di essi. Nessuna scelta grafica è casuale. La bella copertina di “Greetings” (in alcune stampe la cartolina di saluti dal New Jersey si solleva rendendola apribile) è tipica di un cantautore. Le uniche foto presenti sono di Springsteen stesso e nei credits il suo nome è separato nettamente da quelli dei musicisti e i musicisti che giravano con lui – il tastierista David Sancious, il sassofonista Clarence Clemons, il bassista Garry Tallent e il batterista Vincent Lopez – sono elencati insieme a due turnisti. Due errori di stampa, uno nella grafia del nome del bassista, l’altro nel cognome del sassofonista, contribuiscono involontariamente a chiarire quanto fosse scarsa la considerazione di cui godeva il gruppo di Springsteen presso la casa discografica. Uno dei suoi componenti, il secondo tastierista Danny Federici, venne addirittura escluso dalle registrazioni. Ora, se il davanti di copertina di “The Wild” è ancora da cantautore, un primo piano del volto di Springsteen, il retro segnala il primo grosso scarto rispetto al predecessore: al centro spicca una foto di gruppo in cui il titolare del disco è soltanto uno di sei musicisti, confuso fra loro, né in posizione centrale (posto occupato da Sancious) né preminente (poiché è in piedi sul gradino davanti alla porta d’ingresso di un locale, è Lopez il primo sul quale cade l’occhio). La seconda grossa differenza fra le confezioni di “Greetings From Asbury Park N.J.” e “The Wild, The Innocent & The E Street Shuffle” è che in questa, per la prima e a tutt’oggi unica volta nella vicenda discografica di Bruce Springsteen, mancano i testi. Non avrebbe potuto rimarcare in modo più esplicito, il Nostro, il suo fastidio per la riduttiva e controproducente etichetta di “nuovo Dylan”.
Se non tutto fila liscio a livello di produzione (si mastica amaro pensando a come un Jimmy Iovine avrebbe potuto lucidare i suoni di Kitty’s Back, o alla coesione che avrebbe potuto dare un Van Zandt al suo complesso arrangiamento), i progressi confronto all’album precedente sono comunque vistosi. Appel e Cretecos avevano evidentemente imparato qualcosina su come mettere su nastro l’energia di concerti attorno ai quali già si stava creando il mito e anche nella cura del dettaglio non se la cavano male. Il risultato è che “The Wild” risulta essere esattamente quello che Springsteen voleva che fosse: un LP che suona come un lavoro di gruppo e che di tale gruppo esalta le qualità.
Lopez se ne andrà a poco più di tre mesi dalla pubblicazione del disco e dopo altri cinque mesi Sancious lo seguirà. La E Street Band storica e migliore è indubbiamente quella successiva, con Roy Bittan al piano e Max Weinberg alla batteria. Epperò, alla luce in taluni punti abbagliante di quest’album, si può tranquillamente affermare che questa prima formazione è sempre stata sottovalutata, e parecchio, e ci si può interrogare su quale sarebbe stata l’evoluzione artistica di Bruce Springsteen se fosse rimasto al suo fianco David Sancious, pianista dalle radici soul e jazz, mentre quelle di Bittan affondano nel rock’n’roll, e rispetto al suo successore più fantasioso ed eclettico. Un terzo dei musicisti all’opera nei primi due LP del Nostro è di colore. Se la situazione fosse rimasta questa, ne sarebbe stato influenzato? Se sì, quanto?
“The Wild, The Innocent & The E Street Shuffle” è il disco soul di Bruce Springsteen, una novella, sanguigna West Side Story, popolata di neri e chicani, che sarà mandata a memoria da Southside Johnny e da Willy De Ville e sull’altra costa influenzerà il Tom Waits di “Blue Valentine”. Se in “Greetings” Springsteen era il provinciale giunto in visita nella metropoli e colmo di spaesata meraviglia, in “The Wild” si divide fra i luoghi d’origine e la città che lo ha adottato e che in “Born To Run” prenderà il centro della ribalta (momento celebrato in Meeting Across The River). Se vi è una continuità con le cartoline da Asbury Park è data, principalmente sulla prima facciata, unicamente da tematiche testuali che vertono sulla fuga e il sogno di un avvenire in cui ogni possibilità è una promessa, ancora adolescenziali nel loro nucleo. Musicalmente lo stacco è netto da subito ed eccettuato il secondo brano – 4th Of July, Asbury Park (Sandy), una superba ballata a base di chitarra acustica, fisarmonica e voce sussurrata, raffinatissima nella sua semplicità – permane tale sino al congedo.
Si debutta con The E Street Shuffle, inizio programmatico già nel titolo: il ritmo è per l’appunto quello caracollante dello shuffle, i fiati sono saporosi di rhythm’n’blues, l’atmosfera è festaiola e intrisa di latinità, l’assolo di chitarra non molto distante dal primo Santana. Santaneggiante è anche la chitarra che in Kitty’s Back cede il passo a una gioiosa baraonda (ma c’è del metodo, e molto ordine, in questa follia) in cui si mischiano fiati soul, un piano saltellante e un organo travolgente. Il finale di lato è affidato a un brano memorabile, oltre che per la sua bellezza, per l’atipicità nel percorso artistico di Springsteen. È curiosa la scelta degli strumenti in Wild Billy’s Circus Story, con Tallent che suona un basso tuba in luogo del basso elettrico, il leader che si divide fra chitarra, mandolino e armonica e Federici che sfodera di nuovo la fisarmonica, e curiosi i richiami a certo folk europeo (per qualche battuta si va addirittura a tempo di polka). Potrebbe essere una canzone di Tom Waits, e non a caso Waits l’ama molto, o un omaggio a Nino Rota.
La seconda facciata è il luogo ove il Selvaggio e l’Innocente del titolo si incontrano, nelle due ballate prevalentemente pianistiche Incident On 57th Street e New York City Serenade – che si avviano sulle strade che verranno percorse in “Born To Run” – e in quello sfrenato rock’n’roll latino che è Rosalita – che le separa, come scriverà Dave Marsh in uno dei suoi momenti più ispirati, “come il weekend divide il venerdì dal lunedì”.
Marsh, una delle firme più importanti e brillanti della critica rock statunitense, non era rimasto particolarmente impressionato dai suoi primi contatti con la musica di Springsteen. Il suo innamoramento per colui che presto sarebbe stato universalmente noto come The Boss, al contrario di quello di Jon Landau, quasi un colpo di fulmine, sarà fatto di approcci un po’ incerti, ma quando l’amore sopraggiungerà non sarà un’emozione passeggera. Nessun artista nella storia del rock, nemmeno i Beatles, è paragonabile per numero di esegeti e puntigliosità degli stessi a Bruce Springsteen. Di tale foltissima schiera Dave Marsh è un capostipite ed è colui che ha meglio definito il nucleo dell’arte springsteeniana. Questione di affinità culturali profonde.
“Credo che il rock’n’ roll abbia salvato delle vite perché so che è stato determinante nel salvare la mia. Quando Bruce parla del rock che scende in case senza cultura per dire ai ragazzi che c’è un altro modo di vivere, io lo capisco personalmente, perché questo è esattamente quello che è successo in casa mia. Se questo libro avrà successo, è esattamente perché dà la misura della vita del figlio di un autista di autobus (come Bruce Springsteen), o della vita del figlio di un lavoratore delle ferrovie (come me), o forse della vostra stessa vita, e mostra una parte di cosa il rock’n’roll ha dato loro. Non avevamo niente: il rock’n’roll ci ha dato il senso che potevamo avere tutto.”
Sono parole tratte da Born To Run, la prima biografia ufficiale di Springsteen, pubblicata da Dave Marsh nel 1979 e ampliata e aggiornata un paio di anni dopo. È un saggio esemplare perché, al contrario del suo successore Glory Days, non scade mai nell’agiografia e dipingendo un ritratto d’artista di straordinaria vivacità e accuratezza narra nel contempo un quarto di secolo di storia, non solo musicale ma anche sociale e politica, degli Stati Uniti, tanto da potere risultare avvincente persino per chi non abbia alcun interesse particolare per il Boss. È un libro che, a esser franchi, rende tutti gli altri superflui, anche i migliori, riducendoli al massimo a buoni corsi propedeutici (è quello che ci auguriamo sia il volumetto che state tenendo fra le mani) al corso di laurea vero e proprio. Ma poiché a due decenni e mezzo dal suo esordio discografico Springsteen continua a infiammare i cuori (la grandezza della biografia di Dave Marsh è data dal fatto che le ragioni del cuore vi convivono con quelle della mente senza prevaricarle) non è soltanto per ragioni mercantili che si continuano a pubblicare saggi su di lui. Il passatempo preferito di questo esercito di esegeti è passeggiare fra gli inediti dell’artista (che sono un numero impressionante) e spiegare quando furono incisi e il perché e il percome non hanno mai visto la luce ufficialmente e ai fans tocca rincorrerli sui dischi pirata.
A un’occhiata superficiale Springsteen appare un musicista tutt’altro che prolifico: undici LP in studio in venticinque anni di carriera non lo fanno sembrare un novello Stakanov. Ma con il materiale che non ha utilizzato avrebbe potuto pubblicarne altrettanti e di pari valore, visto che i brani in questione di norma sono stati scartati non perché fosse insoddisfatto della loro qualità (e difatti tanti ne ha regalati, soprattutto a Southside Johnny e a Gary U.S. Bonds) ma perché non li riteneva adatti a quello che lui voleva fosse un determinato album. È dunque evidente che in una dimensione parallela esiste uno Springsteen radicalmente diverso da quello della discografia Columbia e interessante da studiare almeno quanto quello noto. Poiché però lo scopo di questo libro è giustappunto quello di fare una sintetica panoramica sullo Springsteen ufficiale, ridurremo al minimo indispensabile i richiami a quest’altro.
Sono appena delle curiosità i brani di Castiles e Steel Mill emersi su una manciata di bootleg. Trattasi in massima parte di cover e il repertorio è quello di qualunque garage band americana del tempo: soul e blues, Beatles, Hendrix, gli Who. Più intriganti sono i brani scritti fra il 1971 e il 1972 e rimasti esclusi da “Greetings”: uno in particolare, If I Were The Priest, blasfemo western che fu decisivo nel convincere Hammond a scritturare il Nostro. Ma sono del periodo di “The Wild” i primi inediti di Springsteen di tale valore da rendere auspicabile un loro riordino da parte dell’artista e della CBS sulla falsariga del box di Bob Dylan “The Bootleg Series”. Nel quale non dovrebbero proprio mancare You Mean So Much To Me (una grande canzone alla Van Morrison poi data a Southside Johnny, come anche The Fever, una delle più belle odi all’amore del catalogo springsteeniano), Santa Ana (un funky nel quale gioca un grosso ruolo il flauto), Seaside Bar Song (un’indiavolata celebrazione del ballo e del bere traversata da un organo alla Question Mark & The Mysterians) e Thundercrack (una Rosalita alternativa). Come minimo.
Pubblicato per la prima volta in Bruce Springsteen: strade di fuoco, Giunti, 1998.