Archivi del mese: gennaio 2013

Bruce Springsteen 1973-1995 (2): The Wild, The Innocent & The E Street Shuffle

The Wild, The Innocent & The E Street Shuffle

The E Street Shuffle4th Of July, Asbury Park (Sandy)Kitty’s BackWild Billy’s Circus Story.  Incident On 57th Street.Rosalita (Come Out Tonight)New York City Serenade.

Columbia, novembre 1973 – Registrato presso i 914 Sound Studios di Blauvelt, New York – Tecnico del suono: Louis Lahav – Produttori: Mike Appel e Jim Cretecos.

È inconsueto imbattersi in una discografia in due lavori vicini tanto diversi fra loro come sono “Greetings From Asbury Park N.J.” e “The Wild, The Innocent & The E Street Shuffle”. I primi due, poi, e temporalmente assai prossimi l’uno all’altro. Dieci mesi appena separano le date di pubblicazione, qualcosa più di un anno quelle di registrazione visto che la Columbia, ai cui piani alti evidentemente qualcuno non era del tutto convinto dell’operazione Springsteen, non era stata granché solerte nell’immettere sul mercato l’esordio a 33 giri dell’ultima scoperta di John Hammond. In ogni caso, pur tenendo conto che ogni futuro LP del Nostro si differenzierà in maniera netta dal predecessore (persino “Human Touch” e “Lucky Town”, usciti insieme, sono chiaramente figli di gestazioni diverse), la distanza che separa i due dischi si direbbe ben superiore a un anno e si rimarca sin dalla confezione.

Per gran parte della sua carriera, almeno fino a “Tunnel Of Love” compreso, il nostro uomo ha curato molto le copertine dei suoi album, rendendole parte integrante del concetto di base che sottende ciascuno di essi. Nessuna scelta grafica è casuale. La bella copertina di “Greetings” (in alcune stampe la cartolina di saluti dal New Jersey si solleva rendendola apribile) è tipica di un cantautore. Le uniche foto presenti sono di Springsteen stesso e nei credits il suo nome è separato nettamente da quelli dei musicisti e i musicisti che giravano con lui – il tastierista David Sancious, il sassofonista Clarence Clemons, il bassista Garry Tallent e il batterista Vincent Lopez – sono elencati insieme a due turnisti. Due errori di stampa, uno nella grafia del nome del bassista, l’altro nel cognome del sassofonista, contribuiscono involontariamente a chiarire quanto fosse scarsa la considerazione di cui godeva il gruppo di Springsteen presso la casa discografica. Uno dei suoi componenti, il secondo tastierista Danny Federici, venne addirittura escluso dalle registrazioni. Ora, se il davanti di copertina di “The Wild” è ancora da cantautore, un primo piano del volto di Springsteen, il retro segnala il primo grosso scarto rispetto al predecessore: al centro spicca una foto di gruppo in cui il titolare del disco è soltanto uno di sei musicisti, confuso fra loro, né in posizione centrale (posto occupato da Sancious) né preminente (poiché è in piedi sul gradino davanti alla porta d’ingresso di un locale, è Lopez il primo sul quale cade l’occhio). La seconda grossa differenza fra le confezioni di “Greetings From Asbury Park N.J.” e “The Wild, The Innocent & The E Street Shuffle” è che in questa, per la prima e a tutt’oggi unica volta nella vicenda discografica di Bruce Springsteen, mancano i testi. Non avrebbe potuto rimarcare in modo più esplicito, il Nostro, il suo fastidio per la riduttiva e controproducente etichetta di “nuovo Dylan”.

Se non tutto fila liscio a livello di produzione (si mastica amaro pensando a come un Jimmy Iovine avrebbe potuto lucidare i suoni di Kitty’s Back, o alla coesione che avrebbe potuto dare un Van Zandt al suo complesso arrangiamento), i progressi confronto all’album precedente  sono comunque vistosi. Appel e Cretecos avevano evidentemente imparato qualcosina su come mettere su nastro l’energia di concerti attorno ai quali già si stava creando il mito e anche nella cura del dettaglio non se la cavano male. Il risultato è che “The Wild” risulta essere esattamente quello che Springsteen voleva che fosse: un LP che suona come un lavoro di gruppo e che di tale gruppo esalta le qualità.

Lopez se ne andrà a poco più di tre mesi dalla pubblicazione del disco e dopo altri cinque mesi Sancious lo seguirà. La E Street Band storica e migliore è indubbiamente quella successiva, con Roy Bittan al piano e Max Weinberg alla batteria. Epperò, alla luce in taluni punti abbagliante di quest’album, si può tranquillamente affermare che questa prima formazione è sempre stata sottovalutata, e parecchio, e ci si può interrogare su quale sarebbe stata l’evoluzione artistica di Bruce Springsteen se fosse rimasto al suo fianco David Sancious, pianista dalle radici soul e jazz, mentre quelle di Bittan affondano nel rock’n’roll, e rispetto al suo successore più fantasioso ed eclettico. Un terzo dei musicisti all’opera nei primi due LP del Nostro è di colore. Se la situazione fosse rimasta questa, ne sarebbe stato influenzato? Se sì, quanto?

“The Wild, The Innocent & The E Street Shuffle” è il disco soul di Bruce Springsteen, una novella, sanguigna West Side Story, popolata di neri e chicani, che sarà mandata a memoria da Southside Johnny e da Willy De Ville e sull’altra costa influenzerà il Tom Waits di “Blue Valentine”. Se in “Greetings” Springsteen era il provinciale giunto in visita nella metropoli e colmo di spaesata meraviglia, in “The Wild” si divide fra i luoghi d’origine e la città che lo ha adottato e che in “Born To Run” prenderà il centro della ribalta (momento celebrato in Meeting Across The River). Se vi è una continuità con le cartoline da Asbury Park è data, principalmente sulla prima facciata, unicamente da tematiche testuali che vertono sulla fuga e il sogno di un avvenire in cui ogni possibilità è una promessa, ancora adolescenziali nel loro nucleo. Musicalmente lo stacco è netto da subito ed eccettuato il secondo brano – 4th Of July, Asbury Park (Sandy), una superba ballata a base di chitarra acustica, fisarmonica e voce sussurrata, raffinatissima nella sua semplicità – permane tale sino al congedo.

Si debutta con The E Street Shuffle, inizio programmatico già nel titolo: il ritmo è per l’appunto quello caracollante dello shuffle, i fiati sono saporosi di rhythm’n’blues, l’atmosfera è festaiola e intrisa di latinità, l’assolo di chitarra non molto distante dal primo Santana. Santaneggiante è anche la chitarra che in Kitty’s Back cede il passo a una gioiosa baraonda (ma c’è del metodo, e molto ordine, in questa follia) in cui si mischiano fiati soul, un piano saltellante e un organo travolgente. Il finale di lato è affidato a un brano memorabile, oltre che per la sua bellezza, per l’atipicità nel percorso artistico di Springsteen. È curiosa la scelta degli strumenti in Wild Billy’s Circus Story, con Tallent che suona un basso tuba in luogo del basso elettrico, il leader che si divide fra chitarra, mandolino e armonica e Federici che sfodera di nuovo la fisarmonica, e curiosi i richiami a certo folk europeo (per qualche battuta si va addirittura a tempo di polka). Potrebbe essere una canzone di  Tom Waits, e non a caso Waits l’ama molto, o un omaggio a Nino Rota.

La seconda facciata è il luogo ove il Selvaggio e l’Innocente del titolo si incontrano, nelle due ballate prevalentemente pianistiche Incident On 57th Street e New York City Serenade – che si avviano sulle strade che verranno percorse in “Born To Run” – e in quello sfrenato rock’n’roll latino che è Rosalita – che le separa, come scriverà Dave Marsh in uno dei suoi momenti più ispirati, “come il weekend divide il venerdì dal lunedì”.

Marsh, una delle firme più importanti e brillanti della critica rock statunitense, non era rimasto particolarmente impressionato dai suoi primi contatti con la musica di Springsteen. Il suo innamoramento per colui che presto sarebbe stato universalmente noto come The Boss, al contrario di quello di Jon Landau, quasi un colpo di fulmine, sarà fatto di approcci un po’ incerti, ma quando l’amore sopraggiungerà non sarà un’emozione passeggera. Nessun artista nella storia del rock, nemmeno i Beatles, è paragonabile per numero di esegeti e puntigliosità degli stessi a Bruce Springsteen. Di tale foltissima schiera Dave Marsh è un capostipite ed è colui che ha meglio definito il nucleo dell’arte springsteeniana. Questione di affinità culturali profonde.

Credo che il rock’n’ roll abbia salvato delle vite perché so che è stato determinante nel salvare la mia. Quando Bruce parla del rock che scende in case senza cultura per dire ai ragazzi che c’è un altro modo di vivere, io lo capisco personalmente, perché questo è esattamente quello che è successo in casa mia. Se questo libro avrà successo, è esattamente perché dà la misura della vita del figlio di un autista di autobus (come Bruce Springsteen), o della vita del figlio di un lavoratore delle ferrovie (come me), o forse della vostra stessa vita, e mostra una parte di cosa il rock’n’roll ha dato loro. Non avevamo niente: il rock’n’roll ci ha dato il senso che potevamo avere tutto.

Sono parole tratte da Born To Run, la prima biografia ufficiale di Springsteen, pubblicata da Dave Marsh nel 1979 e ampliata e aggiornata un paio di anni dopo. È un saggio esemplare perché, al contrario del suo successore Glory Days, non scade mai nell’agiografia e dipingendo un ritratto d’artista di straordinaria vivacità e accuratezza narra nel contempo un quarto di secolo di storia, non solo musicale ma anche sociale e politica, degli Stati Uniti, tanto da potere risultare avvincente persino per chi non abbia alcun interesse particolare per il Boss. È un libro che,  a esser franchi, rende tutti gli altri superflui, anche i migliori, riducendoli al massimo a buoni corsi propedeutici (è quello che ci auguriamo sia il volumetto che state tenendo fra le mani) al corso di laurea vero e proprio. Ma poiché a due decenni e mezzo dal suo esordio discografico Springsteen continua a infiammare i cuori (la grandezza della biografia di Dave Marsh è data dal fatto che le ragioni del cuore vi convivono con quelle della mente senza prevaricarle) non è soltanto per ragioni mercantili che si continuano a pubblicare saggi su di lui. Il passatempo preferito di questo esercito di esegeti è passeggiare fra gli inediti dell’artista (che sono un numero impressionante) e spiegare quando furono incisi e il perché e il percome non hanno mai visto la luce ufficialmente e ai fans tocca rincorrerli sui dischi pirata.

A un’occhiata superficiale Springsteen appare un musicista tutt’altro che prolifico: undici LP in studio in venticinque anni di carriera non lo fanno sembrare un novello Stakanov. Ma con il materiale che non ha utilizzato avrebbe potuto pubblicarne altrettanti e di pari valore, visto che i brani in questione di norma sono stati scartati non perché fosse insoddisfatto della loro qualità (e difatti tanti ne ha regalati, soprattutto a Southside Johnny e a Gary U.S. Bonds) ma perché non li riteneva adatti a quello che lui voleva fosse un determinato album. È dunque evidente che  in una dimensione parallela esiste uno Springsteen radicalmente diverso da quello della discografia Columbia e interessante da studiare almeno quanto quello noto. Poiché però lo scopo di questo libro è giustappunto quello di fare una sintetica panoramica sullo Springsteen ufficiale, ridurremo al minimo indispensabile i richiami a quest’altro.

Sono appena delle curiosità i brani di Castiles e Steel Mill emersi su una manciata di bootleg. Trattasi in massima parte di cover e il repertorio è quello di qualunque garage band americana del tempo: soul e blues, Beatles, Hendrix, gli Who. Più intriganti sono i brani scritti fra il 1971 e il 1972 e rimasti esclusi da “Greetings”: uno in particolare, If I Were The Priest, blasfemo western che fu decisivo nel convincere Hammond a scritturare il Nostro. Ma sono del periodo di “The Wild” i primi inediti di Springsteen di tale valore da rendere auspicabile un loro riordino da parte dell’artista e della CBS sulla falsariga del box di Bob Dylan “The Bootleg Series”. Nel quale non dovrebbero proprio mancare You Mean So Much To Me (una grande canzone alla Van Morrison poi data a Southside Johnny, come  anche The Fever, una delle più belle odi all’amore del catalogo springsteeniano), Santa Ana (un funky nel quale gioca un grosso ruolo il flauto), Seaside Bar Song (un’indiavolata celebrazione del ballo e del bere traversata da un organo alla Question Mark & The Mysterians) e Thundercrack (una Rosalita alternativa). Come minimo.

Pubblicato per la prima volta in Bruce Springsteen: strade di fuoco, Giunti, 1998.

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Blaxploitation: un’epopea politicamente scorretta

Fu una rivoluzione: fatta di film costati quattro soldi e capaci di renderne quattrocento. Come spesso le rivoluzioni, fu breve e seguita da una restaurazione, ma gli effetti perdurano. Come spesso le rivoluzioni, portò alla ribalta personaggi tanto affascinanti quanto discutibili. Erano giovani. Erano belli. Ma soprattutto erano abbronzati.

Sweet Sweetback’s Baadasssss Song

Nella Los Angeles dell’immediato secondo dopoguerra un orfanello di colore trova lavoro come addetto alle pulizie in un bordello. Lo prende a benvolere una delle prostitute, che decide di sgravarlo della verginità e viene ricompensata di tanto buon cuore da una prestazione assolutamente inattesa, supportata da, diciamo così, uno strumento fuori dal comune. Qualche anno dopo ritroviamo Sweet Sweetback – così è stato ribattezzato il John Holmes moro – ancora impiegato nella casa chiusa ma con altre mansioni, protagonista di spettacolini che potete bene immaginarvi. Un bel giorno – cioè brutto – due poliziotti si presentano dal proprietario della premiata ditta per chiedergli un favore. Nel ghetto c’è stato un omicidio: non avrebbe un colpevole da prestargli? Giusto per prevenire disordini. Tempo che gli animi si plachino e lo rilasceranno. Fra amici ci si aiuta, no? Peccato che lungo il tragitto che porta al commissariato gli agenti, che sono bianchi, arrestino pure la Pantera Nera Mu-Mu, lo ammanettino a Sweet Sweetback, lo malmenino. Il nostro eroe si incazza belluinamente, si libera e dà a sua volta una manica di botte ai pulotti lasciandoli a terra svenuti. Comincia da questo momento una fuga verso il confine messicano durante la quale gli succederà di tutto ma una cosa in particolare: che una donna dopo l’altra accetterà sì di aiutarlo, ma in cambio di… E se come trama questa di Sweet Sweetback’s Baadasssss Song, che Melvin Van Peebles dirigeva e interpretava nel 1971 (ne scriveva anche le musiche, coinvolgendo degli allora perfetti sconosciuti chiamati Earth, Wind & Fire), vi sembra una delle più grottesche di sempre, ebbene, sappiate che è dinnanzi a un tipico caso di vita che imita l’arte e non il contrario che ci si trova. Dovendo badare al centesimo, Van Peebles non soltanto girava senza controfigura le scene d’azione ma anche quelle di sesso, a tal punto realistiche, benché in senso stretto non si tratti di una pellicola hardcore, che si beccava la gonorrea. Oltre che grazie a un prestito di 50.000 dollari da parte di Bill Cosby, il film veniva completato e portato nelle sale incassando un rimborso dallo stato della California, che – sentite questa! – riconosceva la natura professionale della malattia del Van Peebles e la trattava dunque come un qualsiasi incidente sul lavoro. Ve l’ho raccontata, è vera, stento io stesso a crederci.

Poco da stupirsi che il revisionismo corrente a base di “politicamente corretto” tenda a mettere un po’ in secondo piano che questa appena riassunta fu la prima produzione cinematografica indipendente afroamericana dacché il pioniere Oscar Micheaux si era arreso, nel 1948, all’impossibilità di porsi in concorrenza  con la Hollywood maggiore. Alle prese con il fenomeno della cosiddetta “blaxploitation”, filone nel quale probabilmente non si trova un titolo che non sia offensivo almeno in una scena, se non nella totalità dell’impianto, per certi moralisti d’accatto, addirittura si cerca di far passare che il film capostipite fu il meno sconveniente – e premiato dall’industria ufficiale con il massimo dei riconoscimenti per la colonna sonora – Shaft, sempre del 1971. Lì si spara, lì c’è gente che vola dalle finestre, ma almeno non si scopa per metà del tempo.

Da molti, molti anni a questa parte – da quando Spike Lee è uno più celebrati registi al mondo, da quando il firmamento hollywoodiano è affollato (e lo è sempre di più) di stelle nere, da quando l’hip hop e Quentin Tarantino l’hanno resa fica ben oltre i suoi meriti e limiti – una scusa per parlare di blaxploitation la si potrebbe trovare ogni mese, in queste pagine visto che nella storia della settima arte mai le musiche l’avevano fatta così da padrone o, naturalmente, in quelle del cinema. Qualche mese più facilmente che in altri ed ecco: è da alcune settimane fuori una raccolta che sarebbe stato delittuoso (e chi l’avrebbe sentito allora l’ispettore Tibbs?) limitarsi a recensire. Doppia, trentaquattro brani in scaletta per una durata complessiva appena sopra le due ore, pubblicata dalla Soul Jazz Records, “Can You Dig It?” si segnala per quanto attiene la mera conta del chi c’è (e con cosa) e chi non c’è come una delle migliori collezioni mai assemblate nell’ambito. Venti minuti e sei o sette pezzi in più, ben scelti, l’avrebbero fatta inattaccabile. A essere praticamente perfetto, del resto come da consolidata tradizione della casa londinese, è il contorno: un libretto che è un vero e proprio libro, novantasei pagine zeppe di foto di scena e manifesti in cui si storicizza il fenomeno con la massima accuratezza consentita dagli spazi, sistemando a latere ritratti dei principali registi e attori e mettendo poi in fila le schede dei film del cui commento sonoro si porge esempio. Una festa per gli occhi sebbene senza una tetta o un culo in mostra e all’oggi settantaduenne Melvin Van Peebles questo probabilmente non piacerebbe. Restando in argomento, e volendo a ogni costo fare le pulci all’ottimo Stuart Baker, che firma il volumetto, si può lamentare il suo dire e non dire e insomma un tantino svicolare alle prese giusto con Sweet Sweetback’s Baadasssss Song. Quanto più in generale fosse pure sexploitation lo dice, ma lasciando l’impressione che cerchi di circoscrivere. Che dite? Sarà bianco o sarà nero?

Se è dirimente il colore di chi ci mise i soldi, l’ardita operina del Van Peebles ha indubitabilmente diritto di primogenitura in materia di moderno cinema afroamericano. Se no tocca a Cotton Comes To Harlem, che la anticipava di un anno, con a pagare i conti la United Artists ma con un regista nero (Ossie Davis), interpreti neri, un’ambientazione nera e una storia, noir oltre che nera, uscita dalla penna di un grandissimo autore nero quale Chester Himes. Poliziottesco, l’avrebbero chiamato in Italia, e nei film che a decine per un lustro porteranno sullo schermo, come mai successo in precedenza, la vita degli afroamericani di detective se ne incontreranno a iosa. Di puttane, papponi e spacciatori forse di più e chissà se qualcuno (probabile che sì) si è mai preso la briga di fare dei conteggi esatti. Certo: pur senza andare a cascare nel dannato politically correct, con la sensibilità odierna dello sconcerto lo si prova nel vedere sovente figure malavitose elette a personaggi positivi solo in quanto contrapposte al cattivo bianco di turno. Certo: potendo avere un panorama d’assieme lo si nota subito quanto fecero in fretta a farsi stereotipi. Né più né meno che nel cinema hollywoodiano classico la cameriera negra, il maggiordomo, il lustrascarpe e con l’unica differenza che stavolta era la stessa gente di colore a offrire di sé un’immagine caricaturale. Se ne accorgevano comunque, i contemporanei, e se nel 1971 per i militanti delle Pantere Nere la visione della pellicola di Van Peebles addirittura era obbligatoria presto la National Association For The Advancement Of Colored People solleciterà cineasti e attori neri a cambiare registro, spingendosi fino a invitare al boicotaggio. A dire il vero inascoltata. Costato mezzo milione di dollari, il film iniziatore ne incassava quattro di milioni ed era come se si mettesse in moto una valanga. In un periodo di pesante crisi per l’industria cinematografica statunitense lavori di costo modesto fruttavano ricavi straordinari non in assoluto ma in rapporto agli investimenti. Le sale tornavano a riempirsi, di afroamericani come mai prima ma senza che il pubblico bianco si sentisse escluso (tutt’altro!) e improvvisamente pure lì nero diventava bello. Ed ecco western con protagonisti di colore, horror (Blacula l’impagabile capostipite), film di arti marziali. Finiva per naturale esaurimento dei vari filoni, perché il successo stesso generando divi faceva lievitare le spese e perché, forte anche di quella iniezione di denaro fresco, Hollywood poteva riprendere a fare film più grandi della vita e del piccolo schermo. Finiva senza consegnare alla storia del cinema nemmeno un capolavoro autentico.

A quella della black music minimo due, “Shaft” di Isaac Hayes e “Superfly” di Curtis Mayfield, esempi sommi di un funk stradaiolo ma elegantissimo, capace di mettere assieme chitarre con il wah-wah e sezioni d’archi e inserire armoniosamente queste e quelle in trame fatte per il resto di bassi carnali, ottoni qui sornioni e là ribaldi, tastiere dall’incedere travolgente. Non lo si era mai sentito un funk così e per un’ottima ragione: chi li aveva mai avuti i soldi per pagare produzioni discograficamente tanto importanti? Paradossalmente spiccioli in un ambito in cui realizzare qualcosa in francescana economia vuol comunque dire spendere alcune centinaia di migliaia di dollari.

Quella negra dozzina 

Dodici colonne sonore classiche di film del filone blaxploitation scelte non solo in base al valore ma anche alla rappresentatività.

James Brown - Black Caesar

JAMES BROWN “Black Caesar” (Polydor, 1973)

Marvin Gaye - Trouble Man

MARVIN GAYE “Trouble Man” (Tamla, 1972)

Isaac Hayes - Shaft

ISAAC HAYES “Shaft” (Enterprise, 1971)

Willie Hutch - Foxy Brown

WILLIE HUTCH “Foxy Brown” (Motown, 1974)

Curtis Mayfield - Superfly

CURTIS MAYFIELD “Superfly” (Curtom, 1972)

Gene Page - Blacula

GENE PAGE “Blacula” (RCA, 1972)

Johnny Pate - Shaft In Africa

JOHNNY PATE “Shaft In Africa” (ABC, 1973)

Bernard Pretty Purdie - Lialeh

BERNARD “PRETTY” PURDIE “Lialeh” (Bayan, 1973)

Staple Singers - Let's Do It Again

STAPLE SINGERS “Let’s Do It Again” (Curtom, 1975)

Edwin Starr - Hell Up In Harlem

EDWIN STARR “Hell Up In Harlem” (Motown, 1974)

Melvin Van Peebles - Sweet Sweetback’s Baadasssss Song

MELVIN VAN PEEBLES “Sweet Sweetback’s Baadasssss Song” (Stax, 1971)

Bobby Womack & J.J. Johnson - Across 110th Street

BOBBY WOMACK & J.J. JOHNSON “Across 110th Street” (United Artists, 1972)

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.666, gennaio 2010.

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Audio Review n.339

Audio Review 339

È in edicola il numero 339 di “Audio Review”. Include mie recensioni degli ultimi album di Balmorhea, Andrew Bird, Blur, Peter Broderick, Coal Porters, Joe Cocker, Robert Cray, Alicia Keys, A.C. Newman, Grant-Lee Phillips, Ken Stringfellow e Patrick Wolf e della raccolta-tributo “Spirit Of Talk Talk”. Ho inoltre scritto di recenti ristampe della Gil Evans Orchestra e degli Interpol. Nella rubrica del vinile mi sono occupato di Phil Spector, Smashing Pumpkins e Motörhead.

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Velvet Gallery (8)

Il mio contributo più importante al numero 7 (aprile 1989) di “Velvet” era un articolo nel quale, guardatomi attorno per vedere se vi fossero da qualche parte dei “nuovi Grateful Dead”, ne individuavo due di assolutamente plausibili negli Always August e nei Black Sun Ensemble. Band fantastiche che all’epoca in pochissimi si filarono e delle quali si è perso pure il ricordo.

The Return Of The Living Dead 1

The Return Of The Living Dead 2

The Return Of The Living Dead 3

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Bruce Springsteen 1973-1995 (1): Greetings From Asbury Park N.J.

Sono passati esattamente quarant’anni (per essere pignoli, quarant’anni e una settimana) da quando la Columbia spediva nei negozi l’album d’esordio dell’ennesimo “nuovo Bob Dylan”. Non un “nuovo Bob Dylan” qualunque, però, siccome a farlo mettere sotto contratto (e dalla stessa casa discografica) era colui che già aveva scoperto l’originale. Non fosse stato per John Hammond, la carriera di Bruce Springsteen non sarebbe forse mai iniziata. Non fosse stato per la sua ostinazione, si sarebbe poi probabilmente interrotta dopo giusto un paio di LP, dalle vendite parecchio deludenti in rapporto alla fama di straordinario performer live di cui già godeva il nostro eroe.

Come fatto per i R.E.M. prendendo a pretesto il trentennale di “Chronic Town”, colgo l’occasione di questo anniversario per ripubblicare a puntate su VMO un librettino che firmai per Giunti, nel 1998. Cronologia esclusa.

Greetings From Asbury Park NJ

Blinded By The Light. Growin’ Up. Mary Queen Of Arkansas. Does This Bus Stop At 82nd Street?. Lost In The Flood. The Angel. For You. Spirit In The Night. It’s Hard To Be A Saint In The City.

Columbia, gennaio 1973 – Registrato presso i 914 Sound Studios di Blauvelt, New York – Tecnici del suono: Louis Lekav, Jack Ashkinazy – Produttori: Mike Appel e Jim Cretecos.

Immaginatevi la scena. Da un lato della scrivania c’è il vice-presidente della Columbia e, quel che più conta, il più leggendario scopritore di talenti nella storia dell’industria discografica: nell’arco di oltre quarant’anni è stato lui a portare per la prima volta in sala d’incisione giganti come Billie Holiday, Benny Goodman, Count Basie, Aretha Franklin e Bob Dylan. Dall’altro c’è un Signor Nessuno che ha da quattro mesi cambiato mestiere, da mediocre autore di canzoni a manager rampante. Il suo protetto gli è a fianco. L’esordio è raggelante. Il Signor Nessuno Mike Appel si rivolge così al Mito John Hammond: “Sei quello che ha scoperto Bob Dylan, vero? Be’, vediamo se è stata fortuna o se hai davvero un buon orecchio”. Siccome gli anni almeno a qualcuno portano saggezza e Hammond è la rarità assoluta che è, un discografico che ama il suo lavoro e sa farlo, anziché indicare la porta ai due ospiti zittisce il manager e invita l’artista a fargli sentire qualcosa. Bruce Springsteen attacca It’s Hard To Be A Saint In The City. Due ore dopo Hammond aggiunge al suo curriculum il nome di colui che si rivelerà per la sua etichetta il più azzeccato investimento di sempre. Poiché non ha mai messo sotto contratto nessuno senza prima vederlo su un palco, telefona a un locale del Village, il Gaslight Club, e fissa un concerto per la sera dopo. In un ambiente che potrebbe essergli ostile o comunque indifferente, dacché è una serata riservata ai comici, il giovanotto conquista il pubblico e, definitivamente, John Hammond. Il Mito scrive un memorandum per la Columbia nel quale definisce Bruce Springsteen il migliore artista da lui ascoltato in dieci anni. Ovviamente gli danno retta. Un mese e quattro giorni dopo, è il 9 giugno del 1972, Springsteen firma con la Columbia un contratto per dieci album. Sono passati poco più di sei anni da quando era entrato per la prima, e fino a quel punto unica, volta in uno studio di registrazione. Allora, nemmeno diciassettenne, aveva inciso due brani per un 45 giri del suo gruppo, i Castiles, autoprodotto e mai uscito. In mezzo, lunghe stagioni di concerti che gli hanno dato sì una certa popolarità nei dintorni di casa sua, nel New Jersey, ma non l’hanno portato in realtà da nessuna parte. A ventitré anni lo spettro del fallimento cominciava a incombere, ma adesso è una priorità per una multinazionale del disco.

Non si potrà mai ringraziare abbastanza John Hammond per l’intuito mostrato, una volta di più, nel capire la grandezza di Springsteen al primo incontro e posto perdipiù di fronte a uno solo dei molteplici aspetti della sua sfaccettata personalità (quello però che, a onor del vero, continuerà sempre a prediligere). E a essere onesti tocca ringraziare pure Mike Appel, personaggio scostante che da lì al 1977 danneggerà parecchio il suo protetto, ma al quale va riconosciuto il merito di avere creduto ciecamente in lui e di averlo fino a un certo punto sostenuto anche sacrificando il proprio tornaconto personale. Dirà anni dopo: “Non ho mai avuto nessun dubbio che fosse uno dei migliori, sul palco con quella giacca di pelle… come Elvis. Vogliamo tutti un pezzo di quella pelle. Bruce Springsteen non era un cantante rock qualsiasi. Era una religione. Io mi sono sempre visto come un novello Giovanni Battista che annunciava al mondo la venuta di Bruce”.

La parola chiave in questa citazione di Appel è “rock”. Negli uffici della Columbia il giovane artista si presentò con un aspetto da classico cantautore folk anni ‘60/primi ’70: barba incolta, abbigliamento trasandato da studente e/o artista senza un soldo in tasca, chitarra acustica sotto braccio. E cantò le più verbose e visionarie fra le canzoni che aveva scritto sino a quel momento. Non vi è da stupirsi se fu scambiato da Hammond, che non lo aveva mai visto nella sua usuale dimensione concertistica e che già aveva posto sotto contratto l’originale, per “il nuovo Dylan”, seppure un nuovo Dylan potenzialmente in grado, finalmente dopo tanti falsi allarmi, di non uscire distrutto da un confronto con il Maestro. Il manager ebbe il torto di assecondare la visione di Hammond, di arrogarsi un lavoro, quello del produttore, che non era il suo e, forse, di economizzare eccessivamente sui costi di registrazione del primo LP: “L’intero album venne a costare in tutto 11.000 dollari. La differenza fra i 40.000 preventivamente messi in bilancio e gli 11.000 che spendemmo fu il nostro unico guadagno all’epoca. Cosa ne facemmo? Lo reinvestimmo subito per tirare avanti. Tutti i membri del gruppo. È una pratica comune nel business, nota come ‘differential’, viene fatta da tutti, grandi e piccoli. Risparmiammo parecchio registrando ai 914 Studios, fuori dal grande giro della città. Nonostante questo, se avessimo lasciato Bruce a incidere ai Power Station, secondo me non avrebbe fatto differenza. Non c’era niente di quello che stavamo facendo che necessitasse della qualità di uno studio di registrazione di alto livello. E a ogni modo i 914 Sound Studios erano eccellenti. Il fatto che fossero fuori mano era l’unico motivo per cui le loro tariffe erano scontate”.

Appel ha ragione, però ha torto. È innegabile che il tipo di LP che è “Greetings From Asbury Park N.J.” non abbisogna di studi particolarmente sofisticati. Nondimeno è pure vero che a un album d’esordio si domanda di rappresentare compiutamente quella che è stata, sino a quel momento, l’evoluzione della personalità dell’artista e di indicare, almeno fra le righe, i possibili sviluppi futuri e “Greetings” da questo punto di vista è un fallimento non solo perché punta tutto sullo Springsteen folksinger, ignorando lo Springsteen rocker, ma anche perché la produzione è disastrosa. Il gruppo, quando c’è, oltre a essere posto sullo sfondo rispetto a una voce prevaricatrice è pure ripreso pessimamente. La batteria pare di cartone, il basso manca di qualsiasi profondità, il piano è poco brillante e innaturale, il sassofono uno starnazzare abulico. In generale, la dinamica sarebbe inaccettabile per un demo, figurarsi per un album di una major. Se si prendono per buone le dichiarazioni di Appel riguardo al livello dei 914 Sound Studios (si può farlo non soltanto sulla fiducia visto che il disco successivo, inciso nella stessa sala, ha suoni decisamente migliori), non resta che imputare per intero a lui e a Jim Cretecos la piattezza del risultato finale.

Non vi è da stupirsi se i critici, naturalmente la stragrande maggioranza, che non avevano mai assistito a un concerto di Springsteen e dunque non potevano sapere che il debutto a 33 giri non rendeva più del 10% del suo potenziale, resi oltretutto diffidenti da una massiccia campagna pubblicitaria della Columbia tutta incentrata sulla faccenda de “il nuovo Dylan”, lo scambiarono per un bluff. Ancora all’altezza dell’uscita di “Born To Run” saranno in molti a considerarlo un personaggio costruito a tavolino dalla casa discografica, con una superficialità che non può essere imputata a quanti furono tiepidi con “Greetings From Asbury Park N.J.”. Un mezzo disastro, nonostante regali alcuni fra i brani migliori del repertorio del Nostro.

A uno dei più memorabili è affidato il compito di inaugurarlo. Appel aveva portato in CBS un nastro con le prime tre o quattro canzoni completate e il lavoro era piaciuto, ma gli era stato chiesto qualcosa di più immediato per il mercato dei 45 giri. Girò la richiesta a Springsteen, che immediatamente scrisse Blinded By The Light e Spirit In The Night. Uscirono entrambe in quel formato, senza peraltro riscuotere alcun successo (riprese tre anni dopo dalla Manfred Mann’s Earth Band saranno invece due grossi hit, la prima addirittura un numero uno), e sono, con Growin’ Up, For You e la già citata It’s Hard To Be A Saint In The City, la metà di “Greetings” degno prologo a una vicenda artistica unica nel rock americano dell’ultimo quarto di secolo. Nonostante la produzione ignobile e un testo fluviale dalla dizione confusa (man mano che i testi si faranno più lineari, anche la pronuncia di Springsteen diventerà più intelleggibile) tentino di annegarne il drive funky, Blinded By The Light ha l’agile vigoria tipica già allora dei gruppi del nostro eroe. È gioiosa e guascona. Se gli allucinati flash che la aprono sono dylaniani fino alla parodia, i cinque fulminanti versi conclusivi (“Accecato dalla luce/Mamma mi ha sempre detto di non/fissare il sole/ma mamma è lì che sta/il divertimento”), sono difficili da immaginare cantati dal menestrello di Duluth. Così come quelli a proposito dell’alzarsi quando è richiesto di stare seduti e del trovare la chiave dell’universo nel motore di una vecchia macchina parcheggiata di Growin’ Up, euforico inno di passaggio fra adolescenza e giovinezza scandito da un piano che ha accenti boogie.

In Mary Queen Of Arkansas il gruppo, scalpitante nei primi due brani nonostante la briglia sia tenuta da Appel cortissima (il sospetto è che più che del nuovo Bob Dylan si fosse a un certo punto in cerca del nuovo James Taylor), abbandona il proscenio. Restano una chitarra acustica in 3/4 e una voce dolente. L’atmosfera si rischiara con il vivace folk-rock  di Does This Bus Stop At 82nd Street? e torna claustrofobica con il piano melodrammatico di Lost In The Flood, raggiunto solamente intorno a metà brano dal resto del gruppo. È una canzone notevole più che altro per il testo, sensazionale susseguirsi di istantanee dei bassifondi multietnici della Grande Mela degne di un film di gangster di Scorsese o di De Palma. L’immagine del deliquentello ispanico ferito a morte da un poliziotto e il cui corpo “ha colpito la strada con un tonfo così bello” resta nella memoria assai più a lungo della melodia fragile che l’accompagna.

Fragile fino all’inconsistenza è anche l’apertura della seconda facciata, The Angel, una ballata per piano e voce con un tocco di violino finale non redentore, troppo “qualunque” anche per lo Springsteen incerto dell’esordio. Da lì alla fine è però un crescendo. In For You, una Like A Rolling Stone depurata dall’acredine, il folk-rock si sposa al suono che farà della E Street Band la macchina più perfetta che abbia mai corso sulle autostrade del rock’n’roll. Spirit In The Night, esaltata ed esaltante celebrazione di amori e vagabondaggi adolescenziali, è uno dei brani più black mai pubblicati dal Nostro e sarà per anni un punto fermo nelle variabilissime scalette dei concerti. It’s Hard To Be A Saint In The City, infine: sfrutta schemi blues ma non è blues, sa di giovane Dylan ma non è una volgare imitazione, è scarna ma arrangiata con una raffinatezza (quel piano rock’n’roll che si colora improvvisamente di jazz!) che preconizza gli album a venire. John Hammond la ascoltò solo chitarra e voce e se ne invaghì lo stesso perdutamente.

Pubblicato per la prima volta in Bruce Springsteen: strade di fuoco, Giunti, 1998.

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Arbouretum – Coming Out Of The Fog (Thrill Jockey)

Arbouretum - Coming Out Of The Fog

Un amore a primo ascolto per me quello per gli Arbouretum, per non dire a prima vista per quanto trovai bella nel 2007 la copertina di “Rites Of Uncovering”, che per il gruppo di Baltimora era già il secondo album ma io il debutto “Long Live The Well-Doer” non lo recuperai che successivamente. Del seguito mi colpiva innanzitutto quanto fosse variegato e coeso nel contempo, con dentro blues e folk, psichedelia e stoner. Qui Hendrix e lì Grateful Dead, ma con anche qualche evidente eco di certo post-rock post-Fahey oltre che post-Slint e di certo cantautorato… be’… post-rock. Papa M e Will Oldham giusto per fare due nomi e guarda caso David Heumann, che oltre che leader, cantante e chitarrista degli Arbouretum è l’unico componente che ne ha traversato per intero la storia ormai decennale, ha in curriculum collaborazioni con entrambi. Mi piaceva forse anche di più nel 2009 l’analogo “Song Of The Pearl”, con dentro di tutto un acido po’, dall’Incredible String Band ai Queens Of The Stone Age passando per americanizzazioni dei Traffic e una bella cover di Tomorrow Is A Long Time di Dylan, mentre nel 2011 almeno di primo acchito “The Gathering” mi convinceva meno. Nettamente l’articolo più heavy nel catalogo della band, con giusto la ballata The Highwayman (da Jimmy Webb) a dare requie in un altrimenti inesausto riffarama, guadagnava in ogni caso parecchio un passaggio via l’altro. Tranne un pezzo, Song Of The Nile, in transito dal bradipico al pomposo e con sconfinamenti in un prog discretamente bieco. Preoccupava che fosse collocato a suggello. Annuncio di un’ulteriore – e negativa – evoluzione stilistica? Ci avessi scommesso su avrei perso, lietissimo di perdere.

Annunciato in uscita per il prossimo 22 gennaio, “Coming Out Of The Fog” resta all’incirca lì, con qualche chitarra acustica e qualche reminiscenza di folk in più e stavolta senza scivolare mai, calando subito l’asso di una The Long Night dal sospeso allo slanciato e prendendosi tutto il piatto già con il riffeggiare pigro, a sostegno di una melodia sinuosa, della Renouncer che le va a ruota. Lo sto mandando a memoria e non gli ho trovato finora che un difetto: quello che è comunque il primo grande album del 2013 avrebbe potuto aspirare a uno status di capolavoro assoluto semplicemente sistemando altrimenti la scaletta. Ad esempio piazzando in apertura non la pur stupenda The Long Night (un apice in un disco in cui è difficile sceglierne) bensì una World Split Open dritta con la sua marzialità sferzante dall’epoca maggiore degli Hawkwind e collocando al centro, ad affiancare il felpato incantesimo di Oceans Don’t Sing, l’altra traccia – l’omonima – elettroacustica e con scorie di certo Neil Young. Per poi cercare un crescendo wagneriano, più che rossiniano, mettendo in fila la potenza trattenuta e l’eleganza cattiva di All At Once, The Turning Weather, una squillante Easter Island e infine, a congedo, una The Promise che si potrebbe raccontare sinteticamente così: un Valhalla in versione acid hard di cui gli Amon Düül II avrebbero potuto menar vanto. In quest’epoca di mediocri gli Arbouretum possono legittimamente aspirare al ruolo, se non di dei, di superuomini.

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Graham Parker & The Rumour – Three Chords Good (Primary Wave)

Graham Parker & The Rumour - Three Chords Good

Trent’anni fa all’incirca di questi tempi pubblicavo il primo articolo. Mi avessero detto che da lì a tre decenni quello del critico sarebbe stato ancora il mio mestiere non avrei battuto ciglio: era il destino che mi prefiguravo, per quanto sfortunatamente ignorando quanto avrebbe saputo di sale e fiele. Ma mai e poi mai ci avrei creduto mi avessero raccontato che la mia playlist del 2012 sarebbe stata composta ancora per il 60% da dischi fatti da gente più anziana di me e per quasi tutto il resto da coetanei, o poco più giovani. Con in mezzo giusto un album di ventenni che però ascoltarlo e datarlo 1972 è una cosa sola. E il problema (che sarebbe un bel problema) è che a essere monopolizzata da grandi vecchi non è giusto la mia classifica (non potrei allora non chiedermi se non sia io a non sapere più cogliere le novità) quanto quelle di più o meno chiunque. Troppo giovane per potere scrivere di Graham Parker nella sua età aurea, ed essendomene poi occupato un’unica volta, nel 1991, e al tempo mi sentivo vecchio io e a maggior ragione mi pareva vecchio (per quanto in ottima forma) lui, mi sono ritrovato sul finire dello scorso anno a entusiasmarmi a tal punto per un suo album – questo – da rimpiangere di avere dovuto inviare i miei elenchi di dieci barra quindici titoli ai giornali prima di avere avuto occasione di ascoltarlo. Almeno qui su VMO avrei potuto recuperarlo, ma ha prevalso la scelta di restare fedele a quanto già uscito altrove. Però sappiatelo: uno dei miei sedici dischi preferiti del 2012, “Three Chords Good”.

Sulla copertina bruttarella di quella che è la loro prima collaborazione dal 1980, Graham Parker e rumorosi accoliti paiono una simpatica masnada di pensionati da circolo delle bocce o da partita a carte al bar. Il capobanda ha d’altronde quei sessantadue anni e tre su cinque dei fiancheggiatori vantavano già carriere importanti, esperienze da veterani – il tastierista Bob Andrews e il chitarrista solista Brinsley Schwarz nel gruppo che prendeva il nome da quest’ultimo, il chitarrista ritmico Martin Belmont nei Ducks Deluxe – quando il manager Dave Robinson ebbe nel 1975 la felice pensata di provare a metterli insieme. Salvo suonare comunque per quasi tutti gli anni ’80 con Schwarz e avere Andrew Bodnar come bassista nel decennio seguente, nelle interviste promozionali datate ’82 per il primo lavoro formalmente da solista, “Another Grey Area”, Graham Parker provava a raccontare il divorzio dai Rumour (che avevano nel frattempo smesso di funzionare anche come unità autonoma) come una liberazione. Pur senza eccessi polemici (detto di uno che spesso ha intinto nel veleno la penna), li descriveva come una collezione di ego eccessivamente pronunciati, come bravissimi musicisti talvolta però troppo compiaciuti della propria bravura, a scapito della canzone. Bene essersi messo a lavorare con altri disposti invece a esserne sempre al servizio, argomentava. Avrà cambiato idea da allora e forse nemmeno allora ne era sul serio convinto e cercava solo una scusa per giustificare quella che parve una follia: come dividere Tom Petty dagli Heartbreakers o Bruce Springsteen dalla E Street Band e sapete bene che, quando è successo, l’uno e l’altro hanno quasi sempre pagato dazio. Più di tutto, io credo, pesava che cinque LP in studio uno più splendido dell’altro – “Howlin’ Wind”, “Heat Treatment”, “Stick To Me”, “Squeezing Out Sparks” e “The Up Escalator” – e un live – “The Parkerilla” – ai limiti dell’epocale nonostante certi evidenti difetti, avessero collezionato recensioni ditirambiche ma vendite modeste. Quantomeno per uno che aveva anticipato Costello e Joe Jackson ed era stato salutato al suo apparire come lo Springsteen inglese. Il gioco non valeva più la candela. Parker i Rumour poteva forse ancora permetterseli, ma li avvertiva ormai come un lusso. Che peccato però. Per quanto non manchino prove di buon livello e almeno un mezzo capolavoro (“Struck By Lightning”, proprio 1991) nella discretamente fitta discografia 1982-2010, basta il formidabile attacco in levare di Snake Oil Capital Of The World, primo di dodici brani che sfilano in poco più di cinquanta minuti, a rispolverare una delle più grandi verità della storia del rock: che “Graham Parker + Rumour” è uno di quei casi in cui uno più uno fa tre. E non è meno evidente oggi che le carte di identità sono quelle che sono.

Va da sé: a parte qualche sorriso in più (a sopravvivere alla vita può persino capitare che ci si addolcisca) in luogo dei ghigni sardonici di un tempo che i nostri eroi divisero con il punk, nulla di nuovo in una rimpatriata all’insegna di un suono che è quello di sempre, soul bianco sovente all’anfetamina in debito con Dylan come con il giovane Van Morrison. “Three Chords Good” spiattella l’intero catalogo, da una traccia omonima di raro languore all’errebì a rotta di collo di A Lie Gets Halfway ’Round The World o viceversa pigro di Long Emotional Ride, dal country trottante di She Rocks Me al quasi jazz confidenziale di Old Soul, da un blues esuberante come Live In Shadows a un ballabile rock’n’roll come Coathangers passando per un valzer da urlo quale Arlington’s Busy. A un certo punto parte una ballata, Stop Cryin’ About The Rain, che io se fossi dio sarebbe numero uno ovunque. Ma chissà se lo prenderebbero come un premio o piuttosto l’ultimo sberleffo di un fato cinico e baro.

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Sacri Cuori – Rosario (Decor/Interbang)

Sacri Cuori - Rosario

Lo hanno inteso i Calibro 35 per primi. Vuoi avere qualche possibilità di venire notato, e apprezzato, oltre i confini di questa provincia d’Impero sempre più povera e rassegnata? Per cominciare, c’è un modo molto semplice di bypassare il problema dell’esprimersi efficacemente in una lingua che, per quanto tu possa padroneggiarla bene, non è la tua: fai musica solo strumentale. Punto secondo: tanto meno ti appiattirai su modelli esteri, tanto più riuscirai a metterci qualcosa di universalmente riconosciuto come specificamente italiano, tanto più facile ti risulterà emergere. Dell’ennesimo gruppo americano, che oltretutto non è manco americano, gli Americani non hanno giustamente mai saputo che farsene. Punto terzo: ovviamente, essere musicisti con i – scusate il francesismo – controcazzi aiuta. Recuperando insieme le colonne sonore del filone blaxploitation e quelle – simili ma diverse – dei poliziotteschi nostrani, i Calibro 35 hanno scoperto l’uovo di Colombo e, nel loro piccolo (ma sempre meno piccolo), fatto saltare il banco. Tocca ai Sacri Cuori adesso. Provenienti non da una metropoli ma da quella stessa provincia che regalava al mondo Federico Fellini, già forti di una dimensione internazionale nelle vesti di gregari di un Hugo Race come di un Dan Stuart, già titolari nel 2010 di un album (“Douglas & Dawn”) che restavi a bocca aperta prima ancora di metterlo su leggendo i nomi degli ospiti (e poi la bocca rimaneva ben spalancata), chiamati alla prova del “difficile secondo album” dovevano dimostrare di essere in grado di compiere un ulteriore, definitivo salto di qualità. Ecco qui! Fatto.

Perché oltre Atlantico ebbero tanto successo i cosiddetti spaghetti western? Perché proponevano una frontiera che risultava perfettamente riconoscibile ma nel contempo “altra”, come se nel quadro fosse stata introdotta una sorta di distorsione tanto facile a cogliersi quanto ardua a enuclearsi. Sergio Leone affascinava per questo. Ennio Morricone lo stesso e quale musicista rock italiano ha mai avuto un centesimo, un millesimo dell’influenza esercitata sul rock dal Maestro? I Sacri Cuori danno l’impressione di esserselo studiato bene quel Morricone lì, ma pure Nino Rota. Per un attimo potresti scambiarli per i Black Heart Procession, i Giant Sand o i Calexico (del resto tutta gente che, per certo, minimo con Morricone ha dimestichezza), ma se appena cominci ad ascoltarli con attenzione l’equivoco non è più possibile. Diciassette brani in scaletta non contando un paio di versioni alternative, tre soli cantati di cui due in inglese (e a prevenire qualunque problema provvede che Isobel Campbell non solo li interpreti ma ne abbia scritto i testi), “Rosario” potrebbe essere sì la colonna sonora di un western ma solamente di un post-western, o di un meta-western, regia di Jarmusch o meglio di Tarantino. Intreccio inestricabile di suggestioni tanto numerose da renderne la catalogazione impresa impegnativa, gioca in scioltezza fra Lee Hazlewood e Angelo Badalamenti (le due tracce affidate alla Campbell, Silver Dollar e Garrett.East), mischia il tango al surf (Fortuna), evoca ora Santo & Johnny (Where We Left) e subito dopo Buscaglione (Teresita), Rota a più riprese (Quattro passi, Lido) e in mezzo dei Mysterians in fregola psych-exotica (Lee-Show), azzarda la lounge (Non tornerò) a ruota di una Sei che – esatto! – avrebbero potuto farla i Calibro 35. Disco tanto maturo, peculiare e bastante a sé stesso che a citare chi si presta a un cameo o di più – Stephen McCarthy, Woody Jackson, Jim Keltner, John Convertino, Marc Ribot, David Hidalgo… – quasi ti pare di sminuirlo, distogliendo l’attenzione da quello che è lo spettacolo vero.

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Velvet Gallery (7)

Un gruppo che ho amato tantissimo e che ebbi la fortuna di vedere dal vivo tre volte. Ma già ve lo raccontai qualche mese fa: qui.

Green On Red 1

Green On Red 2

Green On Red 3

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Delle musiche magnifiche e progressive dei Van Der Graaf Generator

Da sempre piuttosto problematico, per usare un eufemismo e per quanto con il tempo con un tot di cose abbia maturato una certa sintonia, il mio rapporto con il progressive. Fatti salvi da subito tre grandi amori: la scena di Canterbury più o meno intera, i King Crimson, i Van Der Graaf Generator. Erano appena tornati insieme quando dedicavo un articolo a questi ultimi.

Van Der Graaf Generator

Era l’inverno 2002. Intervistato da “Mojo” senza nessuna ragione particolare (risalendo il quadruplo antologico “The Box” a un anno e mezzo prima), Peter Hammill dichiarava che non c’era alcuna possibilità che il suo vecchio gruppo tornasse assieme. Il naso gli è cresciuto molto da allora. “Present”, dichiara il titolo del nuovo album dei Van Der Graaf Generator, il primo in studio da ventotto anni e una delle rimpatriate più sorprendenti – e meno imbarazzanti – mai concretizzatesi. Vero che tante volte nei dischi del leader avevano fatto capolino gli antichi sodali, a conferma che “siamo rimasti ottimi amici”. Vero che fra il 1991 e il 2001 la formazione storica aveva incrociato in tre occasioni (due però privatissime) gli strumenti e che accadesse di nuovo ci stava: ma una reunion con tutti i crismi e su EMI! Rimandato il lettore alla recensione di John Vignola sul numero di giugno, qui si annota come chiamare un album “Present” sia per la banda Hammill una contraddizione in termini: i Van Der Graaf Generator non sono mai stati, nemmeno nei primi ’70, un gruppo “attuale”. Se furono avanguardia definirli innovatori del verbo rock pare nondimeno improprio, siccome nessuno ne ha seguito la lezione. D’accordo: in dischi distanti anni luce come il primo Pavlov’s Dog o il secondo P.I.L. qualche eco se ne coglie, ma finita lì. Non solo senza eredi, i Nostri non ebbero predecessori, né contemporanei a parte forse quegli High Tide il cui cammino incrociarono all’inizio. Nessuna prossimità autentica con il progressive. Se furono intruppati lì fu giusto per una contingenza temporale, a meno di non volere affermare che furono gli unici progressivi davvero e il resto (Crimson eccettuati) pomposa fuffa. Insomma: la musica di Hammill e soci ha sempre abitato un posto suo, né riflettendo il presente né anticipando futuri. Estranea al mondo, immune allo scorrere del tempo: per questo non è invecchiata.

Come potete leggere in ogni enciclopedia dabbene, i Van Der Graaf Generator nascono a fine 1967 dall’incontro, alla Manchester University, del cantante e chitarrista Peter Hammill con il percussionista Chris Judge Smith, fresco reduce da un soggiorno californiano durante il quale ha conosciuto Country Joe & The Fish e visto quanto valeva la pena vedere a Haight Ashbury e al Fillmore West. È anzi proprio di Smith l’iniziativa di dare vita a un gruppo ed è lui (dopo essersi baloccato con ragioni sociali improponibili come Zeiss Manifold e Shrieking Plasma Exudation) a battezzarlo come sapete, sottraendo una “f” al nome dell’inventore dell’acceleratore elettrostatico di particelle. Sistemato in una formazione a tre con all’organo Nick Pearne, il complesso coglie l’occasione di un happening in un parco cittadino per esordire dal vivo nel febbraio 1968 ed è spettacolino sfortunato e indecoroso, a sentire lo stesso Hammill, pesantemente influenzato dalle esibizioni circensi dei Crazy World Of Arthur Brown e mandato in vacca da un amplificatore che fonde. Nei mesi seguenti Hammill e Smith aprono un concerto dei Tyrannosaurus Rex e mettono su nastro alcune decine di canzoni che chissà che fine hanno fatto. Poi Smith torna negli Stati Uniti e la sua parte in questa storia l’ha già fatta, fine. È il nuovo tastierista Hugh Banton a trovare con un annuncio il bassista Keith Ellis, già con i Koobas, e il batterista Guy Evans. Un demo è piaciuto sia alla Mercury che a John Peel ed è così che prima ancora di pubblicare un singolo VDGG si trovano a registrare quattro brani per la BBC. Molto ma troppo poco (fra il resto un’uscita come supporto a Hendrix alla Royal Albert Hall) accade nei primi sei mesi del 1969 e così il gruppo si scioglie. Evans si unisce ai Misunderstood appena in tempo per incrociare Tony Hill prima che costui fondi gli High Tide. Quando in due giorni a cavallo fra luglio e agosto Hammill pone mano a quello che in teoria sarebbe il suo debutto da solista è in ogni caso della partita e così Banton, Ellis e un flautista, tal Jeff Peach. Il disco vede la luce in autunno, su Mercury, nei soli Stati Uniti e attribuito, per i maneggi di Tony Stratton Smith che dei ragazzi è il primo dei fans, ai Van Der Graaf Generator. Che prontamente si riformano, senza Ellis che è andato con i Juicy Lucy e viene sostituito da Nic Potter, che Evans porta con sé dagli ormai disciolti Misunderstood. Entra in scena il sassofonista David Jackson ed ecco che la formazione classica di VDGG ha preso corpo. Uno in più dei quattro che saranno da quando Potter se ne andrà quasi esattamente un anno dopo, nel mezzo delle registrazioni diH To He Who Am The Only One”.

Pur netto lo stacco con i dischi seguenti, qualitativo e nella prima metà pure stilistico, “The Aerosol Grey Machine” è in ogni caso operina graziosissima (aggettivo che mai più potrà essere accostato ai Van Der Graaf) e meritevole di rivalutazione. Per i barocchismi folk di Afterwards, per la psichedelia a spasso in stanze d’eco di Running Back, soprattutto per i due brani conclusivi, fra i cui risvolti si scorge in nuce il complesso che sarà: un’araba e fosca Necromancer, una Octopus che fa suonare Graham Bond con (rieccoli) gli High Tide e per certo sarebbe piaciuta a H.P. Lovecraft, che avrebbe poi addirittura delirato per “The Least We Can Do Is Wave To Each Other”, inciso già in dicembre (in tre giorni) e che sarà pubblicato nel febbraio 1970 dalla neonata Charisma, fondata dal summenzionato Stratton Smith con lo scopo di dare uno sbocco discografico al Generatore (Hammill e soci non gli faranno guadagnare un centesimo e ci penseranno i Genesis a renderlo un uomo ricco: cavate da ciò la morale che credete). Album in cui i brani cominciano ad allungarsi – sei per quasi quarantaquattro minuti, fate voi la media – e soprattutto a raddensarsi e indurirsi, sempre più visionari e cupi per quanto Refugees abbia gusto di fiaba e così l’attacco di Out Of My Book. Ma il tono generale tende al gotico, all’orroroso, fra passaggi che evocano liturgie empie, schizzi di frenesie, quiete e però inquiete estasi. Inclassificabile l’assieme: se è rimasto qualcosa della psichedelia sono decisamente cattivi viaggi quelli che vengono inscenati, il sax ribolle di free jazz raffreddato d’ogni negritudine, le tastiere hanno descrittività borodiniana, la batteria è un vortice in cui obnubilarsi. Sono sassofono e organo a macinare riff, spesso assente la chitarra ed entro breve mancherà pure il basso e sarà il power-trio (più voce) più inconsueto di sempre nel rock.

Corrono veloci VDGG, dicembre 1970 e già un terzo LP è nei negozi e sono le prove tecniche di capolavoro di “H To He Who Am The Only One”, Killer subito un assalto che annichilisce e ci pensa una ballata immensa come House With No Door a cauterizzare le ferite psichiche: senza concedere redenzione, soltanto una malinconia dolcissima e forse mai il rock ha distillato spleen come in questi 6’03”. The Emperor In His War Room a ben sentirla inventa in effetti Pavlov’s Dog, Lost è pandemonio che agghiaccia, Pioneers Over è Tim Buckley che incontra Wagner da qualche parte alle porte del cosmo. Brillanti gli esiti commerciali: “H To He” manco entra nelle graduatorie di vendita ove “The Least” era salito, salito, salito fino alla posizione numero… 47. Migliore performance di sempre di un gruppo che non fu profeta in patria, patrimonio giusto di iniziatici circoli studenteschi, e in Italia invece sì e un po’ possiamo vantarcene. Enorme lo stupore dei Van Der Graaf quando nel gennaio 1972 vengono a sapere che “Pawn Hearts”, pubblicato nell’ottobre precedente, è primo in classifica nel Bel Paese. Da “Extra” numero 3 (uno dei magnifici cento del decennio): “Qui le forme si squadernano completamente, centrifugando psichedelia, prog, jazz, soul, sperimentazione in una sola cavalcata al di là delle coordinate di spazio e tempo, ben raffigurata dalla lunga suite di A Plague Of Lighthouse Keepers e dai risvolti ritmici di Lemmings”. Il successo non porterà però bene, perché dischi se ne vendono ma – pare – soldi al gruppo non ne arrivano e tre tour, uno in febbraio, un altro fra maggio e giugno e l’ultimo fra luglio e agosto sono sì trionfali ma pure fatali, segnati da problemi di ordine pubblico e tensioni interne.

I Van Der Graaf Generator si sciolgono una seconda volta proprio nell’agosto ’72. Hammill avvia una carriera in proprio per riferire della quale servirebbe almeno un altro paio di pagine. Si riuniscono nel 1975. Da lì al ’78 e a un “rompete le righe” che fino a poche settimane fa si pensava definitivo daranno alle stampe altri quattro album in studio e un live. Prima di tornare nell’ombra avranno la soddisfazione di sentirsi incensare, in un programma della BBC, da un ragazzo che molto si è dato da fare per buttare il progressive nella pattumiera del rock: tal Johnny Lydon, in arte Rotten.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.612/613, luglio/agosto 2005.

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