Lo annunciavo lo scorso lunedì: parte una serie di ripescaggi, con cadenza settimanale, di miei articoli pubblicati nel tempo su varie testate e dedicati al rock e alla musica elettronica tedesca degli anni ’70. Il titolo è un parziale prestito da un’analoga serie, in cinque puntate, che vide la luce sui primi cinque numeri della serie ufficiale di un “Blow Up” a quell’altezza ancora nemmeno distribuito in edicola (lo si poteva avere solo in abbonamento). Io firmai le puntate due, tre, quattro e cinque. Della prima, dedicata ai Faust, era autore invece Stefano Isidoro Bianchi. Per ovvie ragioni, non riprendo allora in questa sede quel pezzo bensì uno che pubblicai sul “Mucchio” tre anni dopo.
Nelle prossime settimane potrete leggere articoli su Kraftwerk, Neu!/La Düsseldorf e Can (tutti apparsi in origine su “Blow Up”) e successivamente altri su Tangerine Dream (da “Audio Review”), Ash Ra Tempel (da “Magic Fuzz”), Popol Vuh (di nuovo dal “Mucchio”) e Amon Düül II (inedito).
Per ragioni anagrafiche prima e in seguito per l’ardua reperibilità sia dei loro album che di informazioni riguardo ad essi, ho scoperto i Faust con vent’anni di ritardo. Era l’ottobre del 1992. Dalle pagine di un’ancora leggibile “New Musical Express” nientemeno che Julian Cope indirizzava una dichiarazione d’amore lunga due pagine al gruppo più misterioso uscito dalla Germania dei primi ’70. Da lì il Julian prese presumibilmente lo spunto per compilare Krautrocksampler, la guida alla musica teutonica che pubblicherà tre anni dopo: uno dei più avvincenti libri di argomento musicale in cui possiate imbattervi, acceso nella scrittura e illuminato da una passione che lo redime dalle innumerevoli inesattezze che contiene. Da lì mi venne l’ispirazione, visto che per la prima volta dopo molto tempo il loro intero catalogo era disponibile (anche se i primi due lavori soltanto in costosissime stampe giapponesi), per mettermi finalmente in casa quei dischi ammantati di leggenda. Il primo fu “The Faust Tapes”. Come accadutomi in precedenza con altri due gruppi tedeschi, i Kraftwerk e i Can, e come mi accadrà di nuovo da lì a poco con i Neu!, ascoltarlo fu un’epifania tale da farmi riconsiderare la visione che avevo elaborato fino ad allora della storia del rock. Mi parvero del tutto appropriate le parole lette nella breve prefazione apposta da Stuart Maconie al pezzo dell’ex-Teardrop Explodes: “La musica dei Faust era un radicale, sconcertante miscuglio di musica concreta, Stockhausen, canzone rock convenzionale alla Velvet Underground e momenti di una bellezza quasi pastorale. Furono pionieri di un concetto di collage a proposito del quale un critico francese osservò che, proprio come Bob Dylan aveva scritto il testo di A Hard Rain’s Gonna Fall mettendo insieme i primi versi delle canzoni che l’olocausto atomico non gli avrebbe dato la possibilità di scrivere, così i Faust componevano: ogni frammento si direbbe essere parte di un altro brano che non avevano avuto il tempo di completare”.
Proprio questo è “The Faust Tapes”: ventisei ritagli senza titolo legati in una suite (definizione inesatta, siccome manca un’evoluzione lineare; epperò non me ne viene un’altra) di quasi tre quarti d’ora che disegnano, fra l’altro, anche scenari ancora a venire di rumorismo, ambient, folk apocalittico. New wave prima ancora che si sguinzagliasse il punk. Schizzi free jazz, cabaret, psichedelia, scansioni industriali, scorci e squarci classicheggianti, voli cosmici, planate motoristiche, Frank Zappa, John Cage eccetera. Eccetera. Eccetera. Roba che, dopo, nulla è più lo stesso. E da lì andai a ritroso, salvo trovarmi nel ’95 di nuovo immerso nel presente o per meglio dire proiettato nel futuro.
Era successo che l’interesse suscitato dalla ristampa del vecchio catalogo addizionato di preziosi inediti aveva indotto alcuni Faust – tre per la precisione (non sempre tutti presenti però): Jean-Hervé Peron, Werner “Zappi” Diermaier e Hans-Joachim Irmler – a riesumare la vecchia ragione sociale. Trattandosi di uno dei gruppi più avanguardistici espressi dal rock non suscita meraviglia che la rimpatriata, lungi dall’essere propulsa dalla sola nostalgia, abbia fruttato dischi di straordinario spessore (in tutti i sensi), all’altezza degli album classici e di un’alterità tale da fare sembrare reazionario molto del coevo post-rock, di cui il complesso di Amburgo è indubbiamente fra i padri. “Rien” (del 1995, con la fondamentale produzione di Jim O’Rourke) è un capolavoro e i successivi “You Know Faust” (1996), “Edinburgh 1997” e “Faust Wakes Nosferatu” (entrambi del ’97 e dal vivo) e “Ravvivando” (1999) si sono mantenuti su livelli ragguardevoli. Quanto al live act che i Nostri hanno ripreso a portare in giro per il mondo sin dal ’90 fa impallidire per furia sperimentale (musica cui concorrono martelli pneumatici ed esplosivi) il ricordo delle devastazioni causate dai primi Einsturzende Neubauten, altri che ai Faust devono parecchio se non tutto.
Ma sono vicende queste ultime che si collocano fuori dalla cornice temporale di “Classic Rock”, nella quale rientra invece il cofanetto fresco di stampa “The Wümme Years 1970-73”, il pretesto per questa “Panoramica”. Cose che ci trovate dentro: “Faust”, “So Far”, “The Faust Tapes”, “71 Minutes Of” e (per la disperazione di chi già quei dischi li aveva) un CD di registrazioni radiofoniche e rarità. È un acquisto impegnativo, anche economicamente, ma se considerate che i soli primi due album (ammesso li troviate) vi costerebbero non molto meno del box (non parliamo degli originali in vinile!) il prezzo risulta accettabile, persino conveniente. E vale sul serio la pena di fare sacrifici per musica siffatta. L’altra cosa che ci trovate dentro: un libretto che racconta la storia del gruppo. Solo che le versioni elaborate dai vari intervistati presentano tali e tante discordanze che si finisce per restarne confusi piuttosto che illuminati. Sarà dunque alla versione “consolidata”, ricavata negli anni da articoli e enciclopedie, che mi atterrò da qui alla fine. Tanto con i Faust, più che con qualunque altra rock band possa venirvi in mente, ciò che conta è unicamente la musica.
Le incerte cronache, allora. Amburgo, febbraio 1971. Su sollecitazione della Polydor, che ambirebbe ad avere in catalogo un nome capace di competere con Can e Kraftwerk, il produttore Uwe Nettelbeck fonde due complessi in uno. Come accadrà a Malcolm McLaren con i Sex Pistols, ha la fortuna di trovarsi per le mani musicisti in grado di dare spessore a un’operazione nata con intenti sostanzialmente truffaldini, e l’abilità di sfruttarli al meglio. Battezzatisi Faust (quale il patto siglato?), Rudolf Sossna (chitarra e tastiere), Hans-Joachim Irmler (organo), Gunther Wüsthoff (sintetizzatore e sassofono), Jean-Hervé Peron (basso) e Arnulf Meifert (batteria; poi sostituito da Werner “Zappi” Diermaier) in autunno esordiscono dal vivo e poco dopo danno alle stampe un omonimo 33 giri. Oggetto alieno sin dalla confezione, vinile trasparente in busta di plastica trasparente effigiante la mano vista ai raggi X eletta a logo. Primo brano, Why Don’t You Eat Carrots: synth in libera uscita, rumore statico da una radio, citazioni di All You Need Is Love dei Beatles e Satisfaction dei Rolling Stones, una melodia pianistica, fiati di gusto fra il zappiano e il circense. Più che rock, è dadaismo. Raramente un primo brano di un primo disco ha detto tanto sulla musica e soprattutto sull’attitudine di un gruppo. Meadow Meal ripete il gioco collocandolo in una cornice meglio organizzata e Miss Fortune contrappone a una ritmica sostenuta un chitarrismo aulico/acido e divagazioni tastieristiche che vanno dal cameristico all’honky-tonk. Progressive, se mai tale etichetta ha avuto un senso.
L’anno dopo “So Far” privilegia brani più brevi e assai più inclini alla forma canzone, sin dall’indimenticabile attacco di It’s A Rainy Day, Sunshine Girl (gli Stereolab la riprenderanno), mischione sulla carta impossibile e nella realtà felicissimo di Temptations e Velvet Underground. Forse la sola influenza rock, questi ultimi, chiaramente individuabile nella musica dei Faust. Fateci caso: se la confezione del debutto era parawarholiana, questa, tutta nera (dieci stampe all’interno dell’irreperibile originale), richiama quella del secondo LP dei Velvet. Soltanto che “So Far” non è il “White Light White Heat” degli amburghesi ma, al contrario, il loro “The Velvet Underground And Nico” (senza una Nico, però). Da loro, prima un album di esperimenti, poi uno di canzoni. E che canzoni! Una più memorabile dell’altra, da una No Harm che fa funkadelici i Pink Floyd a una Mamie Is Blue che è l’anello mancante fra Soft Machine e Wall Of Voodoo, a una …In The Spirit ipotesi di jazz in un universo parallelo. Una pietra miliare.
In quello stesso 1972 i Faust rafforzano i legami con l’universo Velvet realizzando un 33 giri insieme al minimalista Tony Conrad (sodale di John Cale nel Theatre Of Eternal Music di La Monte Young) e trovano pure il tempo per registrare un LP con gli Slapp Happy. Passati pressoché inosservati in patria, i loro dischi hanno suscitato l’entusiasmo del solito John Peel che li ha diffusi ripetutamente nell’etere dagli studi della BBC. Li mette dunque sotto contratto la Virgin e l’idea che ha per lanciarli è geniale: fatti due conti e scoperto che si potrebbe porre in vendita senza rimetterci un 33 giri al prezzo di un 45, lo fa. Il summenzionato “The Faust Tapes” raggiunge i negozi a 49 pence e totalizza oltre centomila copie (inconveniente del trucco: il prezzo così basso fa sì che non abbia i requisiti per essere inserito nelle classifiche). I Faust vanno in tour davanti a folle cospicue (sul palco anche due flipper: curiosità ricorrente fra i tedeschi, visto che pure i Tangerine Dream ne portarono uno in scena) e il seguente “Faust IV” parte con il vento in poppa. Ma sebbene sia l’album più convenzionale dei Nostri – il meno ispirato, ma ad ogni modo tutt’altro che scadente: basta quella Sister Ray teutonica che è l’iniziale Krautrock a giustificare l’esborso richiesto – vende al di sotto delle attese. Un quinto LP viene messo su nastro ma rifiutato dalla Virgin. È il segnale per il “rompete le righe”. Passeranno sedici anni prima che una formazione chiamata Faust si ritrovi a suonare dal vivo e addirittura ventuno prima che torni in uno studio di registrazione.
Fosse stato un addio “Munic & Elsewhere” – tirato fuori dai cassetti dalla Recommended una prima volta nel 1986 e riedito due anni dopo in CD in “71 Minutes Of”, accompagnato a incisioni del ’71-’72 – sarebbe stato un gran finale. Medesima struttura di “The Faust Tapes”, medesima verve straripante. Ma non è andata così, per fortuna.
Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.419, 21 novembre 2000.
Germania pallida madre.
Per la cronaca, il libro dei “500 album” di Eddy e Guglielmi dedica la
scheda Faust a “So Far”, il libro dei “600 album” di Blow Up la dedica
a “The Faust Tapes” mentre il sito Pitchfork tra i 100 album anni
Settanta sceglie “Faust IV”.Insomma dovunque si pesca…Personal-
mente adoro le frattaglie sperimentali di “The Faust Tapes”.
Incantevole anche la collaborazione con Tony Conrad.
con quei Faust lì, ovunque peschi, peschi bene… e pure con i secondi eh…
Sottoscrivo tutto, gran Maestro.