Il 18 marzo prossimo i Low pubblicheranno il loro decimo album e lo si può ben dire atteso. Non nel senso che lo si sia aspettato chissà quanto – “C’mon” è dell’aprile 2011 e ce lo avevano fatto sospirare ben di più, quattro anni (ed è poi di pochi mesi or sono il mini per cultori di stretta osservanza “Plays Nice Places”) – ma perché il pronostico generale è che potrebbe essere, a venti tondi anni dacché Alan Sparhawk e Mimi Parker resero il loro sodalizio da sentimentale anche artistico, il lavoro capace di farli passare – commercialmente – di categoria. Sempre ammesso, naturalmente, che ciò significhi ancora qualcosa in un tempo in cui il divario di vendite negli USA fra un numero uno e un numero venti è abissale come mai prima e a oggi i Low sono stati al massimo un numero 73. Sempre che il disco non deluda, che con i Low non è mai accaduto ma chi può dire. Sempre che, indipendentemente dalla sua qualità, il costantemente (prevedibilmente) ondivago pubblico indie non decreti che, insomma, due decenni di ovazioni sono abbastanza e la band di Duluth ha fatto il suo tempo. Potrebbe paradossalmente beneficiarne, se è di credibilità (o di una malintesa nozione di credibilità) che si parla, quello che era nato come una sorta di mini-supergruppo – l’altra icona underground coinvolta l’ex-Red House Painters, e poi Sun Kil Moon, Mark Kozelek – ma già all’altezza del primo e omonimo album del 2008 si era trasformato nel dopolavoro privilegiato del solo Alan Sparhawk. Per certo ai Retribution Gospel Choir, altro trio e coincidente per due terzi con i Low visto che manca solo Mimi, nessuno potrà mai rimproverare tendenze compromissorie. In cinque anni e due album dalle canzoni di tre minuti sono passati alle jam di venti. Qui sopra ce ne stanno due, una per facciata se “3” ve lo procurate sul supporto per il quale è stato evidentemente pensato.
Soprattutto a questo giro potrebbe parere che dei Low i Retribution Gospel Choir siano l’esatto opposto, fragorosi quanto quegli altri sono quieti, Rock con la “r” maiuscola quando gli altri tendono alla narcolessia. In realtà più a lungo le si ascolta e più le due band evidenziano contiguità indiscutibili, in primis un approccio minimalista alle rispettive materie sonore. Mai spinto tanto oltre come in queste due lunghe cavalcate registrate in presa diretta (trattasi insomma di un live in studio) e che possono esaltare o sfiancare a seconda della disposizione d’animo con cui le si approccia. In particolare Can’t Walk Out, che sono un po’ gli MC5 avessero portato il loro amore per Sun Ra alle conseguenze estreme, un po’ gli Stooges di We Will Fall in versione stoner. Un freak out di proporzioni epiche al di là dei suoi 19’55” e non per tutti i palati, non per tutti i momenti. Paiono al confronto quasi pop i ventuno minuti abbondanti di Seven, che vedono i Nostri allargarsi a quartetto con il cruciale apporto della chitarra di Nels Cline degli Wilco: pensateli come quella sesta facciata che il Neil Young di “Psychedelic Pill” ha occupato con un disegno avendo in precedenza fuso menti, amplificatori, altoparlanti.
mi piace, peccato che non posso suonarlo in radio per ovvi motivi
Dopo ripetuti, frenetici ascolti, posso pacatamente dire – in estrema, grossolana sintesi – che il nuovo Low è a mio avviso decisamente inferiore alle zuccherose, malinconiche praline di C’mon. Non brutto, per carità… inferiore alle attese, ecco.
Perdonate lo spoiler.