Krautrock Files (2): Kraftwerk

Non ho idea di quanti articoli ho pubblicato in vita mia. Svariate centinaia (le recensioni molte migliaia). So però che in un ideale “Best Of” di almeno trenta (e forse anche in uno di soli venti) questo lo metterei sempre. A oltre quindici anni dacché lo scrissi ne sono ancora molto orgoglioso. Sono ancora molto d’accordo con me stesso e non è che sia sempre così, badate bene.

Kraftwerk 1

Quando questo numero di “Blow Up” vi verrà recapitato, potrebbe essere nei negozi un nuovo album dei Kraftwerk, il decimo in ventisette anni, il primo (non contando “The Mix”) da undici in qua. Potrebbe oppure no. Una data che indiscrezioni indicano come più probabile è Natale. Forse vedrà la luce nei primi mesi dell’anno prossimo o comunque entro fine ’98. Forse. Non uscisse mai nonostante il gran parlare che se ne fa da mesi, soprattutto da quando il gruppo di Düsseldorf ha interrotto una lunghissima assenza dalle scene presenziando in maggio al “Tribal Gathering” (e presentando per l’occasione un brano  inedito), non ci sarebbe da stupirsi. Nel 1983 un LP intitolato “Techno Pop” venne  annunciato con tanto di numeri di catalogo e inserzioni pubblicitarie: ebbene, non è mai stato pubblicato ed è divenuto per i seguaci della chiesa di Ralf Hütter e Florian Schneider, non del tutto persuasi dall’ipotesi che tale lavoro sia in gran parte confluito in “Electric Cafe”, una sorta di Santo Graal. “Faremo uscire qualcosa soltanto quando lo riterremo rilevante per noi o per il pubblico”, diceva Hütter qualche anno fa, ribadendo che il gruppo seguitava a lavorare a nuove composizioni. La possibilità che tale evento non si verifichi mai va considerata. Il dubbio, che è di tutti gli appassionati, che i Kraftwerk non siano più in grado di preconizzare, come hanno sempre fatto, le musiche del futuro deve avere colto anche loro e giustificherebbe un blocco creativo che per durata non ha – credo – precedenti nella storia del pop.

Bisognerebbe forse persino auspicare che dai Kling-Klang Studios giungano solo più silenzio e ricordi, ché sarebbe un ben deprimente spettacolo vedere operare in retroguardia il gruppo più innovativo di sempre. Nessuno ha esercitato sullo sviluppo della moderna musica popolare – volksmusik hanno sempre detto di suonare i düsseldorfiani – un’influenza paragonabile ai Kraftwerk. Non i Velvet Underground, che pure fecero diventare adulto il rock ma la cui influenza non ne ha mai valicato i confini; né i Beatles, che  per primi diedero una dignità culturale al pop e ne saranno sempre la massima icona. Prima di gridare alla lesa maestà (avete forse applaudito, invece?) riflettete su quanto si va a esporre.

Senza la loro influenza, diretta o indiretta per tramite di Bowie, la new wave avrebbe avuto uno sviluppo assai differente. I Devo, gli Ultravox!, i primi Simple Minds, Gary Numan, i Depeche Mode, gli Orchestral Manoeuvres In The Dark, i D.A.F. sono semplicemente inconcepibili se si postula la non-esistenza dei Kraftwerk. La loro lezione plasmò le ali estreme del movimento: da un lato il solare pop degli Human League, dall’altro la cupa avanguardia dei Cabaret Voltaire. Contemporaneamente, mostravano la strada al team Moroder/Belotte, autore di tutti i successi di Donna Summer, e infiltravano dunque l’elettronica nella disco. E anche nella musica da ballo influenzarono nello stesso tempo i settori più commerciali e l’underground: l’electro fu una loro invenzione (omaggio più clamoroso: i Fearless Four che costruiscono Rockin’ It sulle fondamenta di The Man-Machine) e la scena go-go di Washington (omaggio più spudorato: i Trouble Funk che si appropriano indebitamente di Trans-Europe Express) trovò nel gruppo teutonico una fonte di ispirazione occasionale ma importante. I pionieri dell’hip hop consumarono i loro dischi e Afrika Bambaataa scrisse uno dei primi classici del genere, Planet Rock, incrociando Trans-Europe Express (ancora? la usò pure Grandmaster Flash) con Supersperm di Captain Sky: il krautrock e il p-funk si incontravano e generavano il primo di innumerevoli, magnifici bastardi mutanti. E ciò ci porta agli anni ’90, alla celebre definizione della techno data da uno dei suoi maestri, Derrick May: “La techno sono George Clinton e i Kraftwerk chiusi insieme in ascensore”. Senza il gruppo di Düsseldorf la scuola di Detroit – i vari Derrick May, Juan Atkins, Kevin Saunderson, Carl Craig – che ha generato house e techno non è nemmeno immaginabile. Poiché se mancano i padri non vi può essere progenie, spariscono di riflesso Chemical Brothers e Daft Punk. Niente 808 State, L.F.O o Orbital. Versante ambient: bye bye Aphex Twin.

Facciamo un passo indietro. Torniamo nella Motor Town. Notiamo che i succitati fondatori della techno, nella visione comune considerata musica bianca, sono tutti di colore. Giungiamo così al nucleo di questa riflessione, già toccato dicendo dell’electro e dell’hip-hop dei primordi: se è innegabile che nella storia della musica di questo secolo, dal primo jazz e dal blues in avanti, sono stati quasi sempre i neri a tracciare le strade poi percorse (e sovente espropriate) dai bianchi è altresì vero che i Kraftwerk costituiscono un’eccezione, l’unica. Sono i soli bianchi ad avere influenzato dei neri che a loro volta hanno influenzato altri bianchi. È questo a rendere la loro presenza così pervasiva nella musica odierna: non fanno dischi da undici anni, eppure sono ovunque, importanti come non mai.

A chi si stupisce del connubio fra una musica calda per eccellenza, quale è la black, e una musica fredda come l’elettronica propugnata dai düsseldorfiani è sfuggito molto di costoro, quasi tutto. Li ha magari sentiti ma non li ha mai ascoltati. Avrebbe dovuto se no percepire l’umanità profonda del cuore che pulsa al centro della macchina Kraftwerk. Vi è in esso un romanticismo tipicamente mitteleuropeo ma anche un sentire che è inconfondibilmente soul. Certo: non è il soul di Otis Redding o di James Brown, ma gli è parente, e questo spiega perché al newyorkese Ritz nel 1981 (il concerto probabilmente più importante della storia dei Kraftwerk) il pubblico era in maggioranza di colore. “Fu funky”, è il ricordo di Bambaataa.

Ecumenici nel loro rivolgersi in musica a un pubblico di ogni razza, i Kraftwerk lo sono sempre stati anche nella stesura dei testi, essenziali come le architetture dei brani e redatti spessissimo in più lingue. Non solamente tedesco e inglese ma anche francese, italiano, giapponese. La specificità tedesca è l’architrave dell’universalità di canzoni dall’ironia sottile, amarognole ma in fondo ottimiste come un romanzo di Asimov.

Ecco, è questo l’ultimo punto sul quale desidero soffermarmi prima di passare alla disamina della produzione del gruppo di Düsseldorf: se la musica dei Kraftwerk è tuttora proiettata in avanti, testi e immaginario hanno sempre saputo più di modernariato che di modernità. La loro è una visione del futuro che viene da un passato in cui era possibile immaginare tempi a venire prosperi e ordinati, fatti di città linde, immensi spazi verdi, autostrade a otto corsie regolate da giganteschi cervelli elettronici. Prima della guerra del petrolio e del microchip. Prima di Blade Runner. Prima del cyberpunk. Prima che ci accorgessimo di essere fottuti. Chi conosce quell’indimenticabile racconto di William Gibson che è “Il continuum di Gernsback” (in La notte che bruciammo Chrome) avrà compreso.

Musica elettronica/Figura ritmica/Arte politica/dall’era atomica” (da Electric Cafe; in italiano)

I dischi, allora. Il primo era fino a pochi mesi fa il più misterioso del lotto, del quale fa e non fa parte. Nel senso che vi figurano sia Hütter che Schneider ma quando vide la luce i Kraftwerk (il cui nome furbescamente campeggia sulla ristampa in CD) ancora non esistevano. Il gruppo si chiamava Organisation e oltre ai due tedeschi (il primo all’organo, il secondo al flauto e al violino) comprendeva un bassista (Butch Hauf) e due percussionisti (Basil Hammoudi e Fred Monicks) inglesi. L’album venne pubblicato nel 1970 dalla RCA britannica, si intitola “Tone Float” ed è stato per un quarto di secolo uno dei pezzi più rari e mitizzati del krautrock. La sua leggenda ha retto la prova della riesumazione. Soprattutto la lunga title-track, un’improvvisazione di gusto orientaleggiante che si dispiega sul tambureggiare delle percussioni, colpisce, ma anche la cosmica Silver Forest e Noitasinagro, cui l’organo dona un sapore chiesastico e il violino tanta malinconia, si fanno ammirare. E tuttavia, benché il disco sia bello, bellissimo, non avessero Hütter e Schneider fatto altro lo si ricorderebbe come un’interessante freakerie d’epoca. Nulla più.

Tornati a Düsseldorf (lì si erano conosciuti al locale conservatorio, dove avevano fra gli altri frequentato i corsi di Stockhausen), i due trovarono nuovi soci in Andreas Hohmann e Klaus Dinger, si ribattezzarono Kraftwerk, aprirono i Kling-Klang Studios, convocarono Conny Plank (che già aveva prodotto il 33 giri degli Organisation e li seguirà fino a “Autobahn”) e posero mano all’omonimo esordio.

Fra i rocker duri e puri (“Il destino delle nuove idee è di cominciare come eresie e finire come superstizioni”, Thomas Huxley) è diffusa la favoletta secondo la quale ci sarebbero dei Kraftwerk buoni e dei Kraftwerk cattivi. I primi facevano avanguardia, i secondi vendettero l’anima al pop sintetico per un po’ di svanziche. A separare il “prima” dal “dopo”, “Autobahn”. Rilevato che è proprio quanto hanno realizzato da quel disco in poi a fare dei Kraftwerk ciò che sono, tocca subito dopo appuntare che nella loro storia non vi sono strappi ma evoluzione nella continuità. La copertina austera del primo 33 giri (vi figura solo un cono stradale di quelli che si usano per delimitare zone dove ci sono stati incidenti o vi sono lavori in corso) potrebbe appartenere ai Kraftwerk dell’ipotetico “dopo”, così come l’attacco di Ruckzuck, con il flauto a tracciare traiettorie geometriche su una serrata pulsione ritmica e le tastiere elettroniche che ora evocano clangori da fabbrica, ora disegnano melodie che potrebbero essere di un quartetto d’archi (le rilettura di alcuni classici dei düsseldorfiani da parte del Balanescu Quartet è distantissima nel tempo, ma nell’anticamera della storia gli strumenti già vengono accordati). Stratovarius oscilla fra il minuetto in moviola e il delirio cacofonico, passando per tristezze gitane. Megaherz è un bordone che ascende sino a liberare un organo e poi un flauto che si libra sul silenzio prima di chiudere il cerchio reinnescando il bordone. Von Himmel Hoch, infine: il rumorismo e la musica industriale dietro l’angolo. Quando si dice un debutto memorabile.

L’album, registrato fra il luglio e il settembre del 1970, viene pubblicato dalla Philips l’anno dopo. Michael Rother ha nel frattempo sostituito Hohmann e con Dinger preme perché la musica del quartetto si compatti e, mantenendo intatte le istanze sperimentali, le innesti su un substrato rock un minimo più canonico. Schneider gli dà ragione. Hütter se ne va. La nuova formazione lavora per sei mesi, mettendo su nastro poco più di mezz’ora di musica a tutt’oggi inedita e partecipando in maggio al programma televisivo “Beat Club”. Il brano eseguito in tale circostanza, Vor dem blauen Bock, è stato aggiunto come bonus alla versione su CD di “Tone Float” ed è l’unica testimonianza pervenutaci dei Kraftwerk del 1971. Per nostra fortuna, che nel cambio oltre a non vedere sconvolto l’ultimo quarto di secolo di musica pop ci guadagniamo un altro grande gruppo, Rother e Dinger fondano i Neu! e Schneider e Hütter rifanno squadra.

Da questo momento saranno solo loro i Kraftwerk. Quanti saranno chiamati a collaborare verranno tenuti nella condizione di gregari, compresi Wolfgang Flur (presente da “Autobahn”) e Karl Bartos (arrivato con “Radioactivity” e da “The Man-Machine” spesso indicato come coautore).

Kraftwerk

“2” viene approntato a fine settembre ’71 ed esce qualche mese dopo. La copertina è pressoché identica a quella del predecessore. Cambiano i colori, bianco e verde anziché bianco e rosso. La mossa, tesa a evidenziare continuità e serialità nella produzione del gruppo, si rivela controproducente a livello di marketing (tanti non si accorgono che è un LP nuovo) ma è concettualmente geniale. Come geniale è Klingklang, che monopolizza la prima facciata e divide con Family Affair di Sly & The Family Stone il record di essere la prima composizione pop in cui compare una batteria elettronica. La distesa sezione centrale annuncia Autobahn. Di già.

Di un anno successivo, “Ralf & Florian” smussa gli angoli. La musica dei Kraftwerk è ora, oltre che sorprendente e non di rado inaudita, piacevole. Gli echi di Estremo Oriente che si odono in Elektrisches Roulette e in Ananas Symphonie suonano, paradossalmente, più autentici del Giappone da cartolina che sarà disegnato da lì a qualche anno dalla Yellow Magic Orchestra (me n’ero dimenticato: altri, come gli Yello, che ai Kraftwerk devono poco meno che tutto). In quest’ultima, una vera rarità nel catalogo del gruppo di Düsseldorf: una chitarra. Slide addirittura.

Il suono dei Kraftwerk è un insieme di ritmi funky, musica concreta e pop.” (Florian Schneider)

La Sinfonia dell’Ananas è l’ultima prova d’orchestra prima della sinfonia di motori di “Autobahn”, suite, canzone e LP. Ridotta su sette pollici dai 22’42” dell’album all’usuale durata di un singolo, la title-track nel 1974 fa furore ovunque nel mondo, Stati Uniti in testa. Prima la popolarità dei düsseldorfiani era limitata alla Germania e relativa: 60.000 copie vendute del primo 33 giri, 50.000 del secondo, 100.000 del terzo. Quanto bastava a pagare i conti di casa dei musicisti e ad aggiornare l’hardware dei Kling-Klang Studios. Hütter e Schneider non dovranno più fare acrobazie per comprare un registratore o uno strumento elettronico.

Autobahn rende pop il minimalismo di Steve Reich, Philip Glass, La Monte Young. È orecchiabile e sperimentale, glaciale e sensuale. Romantica. Come Morgenspaziergang, mentre Kometenmelodie ha l’afflato cosmico che il titolo esige e l’inquietante Mitternacht, che le separa, lancia un ponte verso i primi lavori.

Tanto “Autobahn” è compatto tanto “Radioactivity”, che gli viene dietro a distanza di un anno e battezza il rapporto con la EMI, è frammentario. Disco di passaggio come lo era stato “Ralf & Florian”. Cinque brani su dodici non superano il minuto e mezzo. Quello che lo intitola è quasi una nuova Set The Controls For The Heart Of The Sun (Pink Floyd, quando avevano qualcosa da dire) ed è mediazione esemplare fra gli estremi rappresentati dal suono di sinusoidali di Radio Sterne e dalla melodia sognante e dolcissima di Ohm Sweet Ohm. Mi auguro non vi sia sfuggita l’ironia del titolo.

Il suono di un treno in corsa è musica. Vogliamo rendere la gente consapevole della realtà che la circonda inserendo nelle nostre composizioni i suoni di automobili e treni. Trovo che ci sia in essi una grande bellezza.” (Ralf Hütter)

Dopo “Radioactivity” i Kraftwerk tacciono per due anni (a ben più poderosi silenzi ci abitueranno). Emergono dalla clausura dei Kling-Klang con sotto braccio l’album in prospettiva più rilevante di un anno, il 1977, che commercialmente fu quello della disco e artisticamente quello del punk. “Trans-Europe Express” è il loro capolavoro; il brano che gli dà il titolo, al tempo un hit di dimensioni planetarie, il più bell’esempio di musica mimetica mai concepito. Ma tutto il disco è straordinario: Europe Endless insegnerà molto agli Ultravox!; The Hall Of Mirrors ai Japan; Showroom Dummies ai Devo.

Il nostro obiettivo è scrivere la canzone pop perfetta per tutte le tribù del villaggio globale.” (Florian Schneider)

Obiettivo centrato nel 1978 con The Model, primo brano della seconda facciata di “The Man-Machine”: una melodia di tale stupefacente flessibilità da prestarsi a essere riletta da Snakefinger come dai Big Black e dal Balanescu Quartet. Canzone da villaggio globale, davvero: si sa dell’esistenza di versioni giapponesi e thailandesi.

Il resto del disco, che vanta una copertina, ispirata al costruttivista russo El Lissitzky, degna di figurare in qualunque museo di arte moderna,  vale quasi il suo apice. Si presenta con The Robots, ipnotica e (va da sé) robotica, e si congeda con le suggestioni paragregoriane della canzone omonima; in mezzo, l’irresistibile drive disco di Spacelab e di Metropolis e i toni crepuscolari di Neon Lights.

Si potrebbe anche dire che con “The Man-Machine” la spinta propulsiva dei Kraftwerk si esaurisce. I tempi fra un’uscita e l’altra si dilatano a dismisura – bisogna attendere tre anni per “Computer World”, cinque per “Electric Cafe” e altri cinque per la pletorica raccolta “The Mix” –  e le tredici canzoni partorite da Hütter e Schneider in diciannove anni (a separare le sei di “Computer World” dalle sei di “Electric Cafe” il 45 giri Tour de France) niente aggiungono al loro canone. Il modello di “The Man-Machine” (anche in esso sei canzoni) è fedelmente replicato. Epperò di “Computer World” e di “Electric Cafe” proprio non si vorrebbe fare a meno: regalano brani immensi (Computer Love vale a momenti The Model) e si fanno ammirare per un’economia di forme che ha raggiunto la classicità. Non si può ragionevolmente aspettarsi di più dal prossimo LP. A contentarsi, in rari casi, si gode assai.

P.S. – Il lettore attento avrà notato che, contrariamente a quanto si era fatto con i Faust due mesi or sono, questa volta non sono stati dati voti ai dischi. È che mi pare che sarebbe come assegnare una pagella alla produzione dei Beatles o dei Velvet. Sicuro: “Let It Be” non vale “Rubber Soul” e “Loaded” non è all’altezza di “The Velvet Underground And Nico”, ma si potrebbe negare loro, guardandosi attorno, il massimo dei voti? Penso si sia capito che “Trans-Europe Express” e “Autobahn” sono da portare a casa prima di “Electric Cafe”, ma che avere pure quello male non fa.

Lo stesso lettore avrà notato qualche incongruenza rispetto a certe cose scritte partendo dai Faust. Il fatto è che di quell’articolo, apparso con firma doppia per errore, fu unico autore il Bianchi. Io avevo collaborato solo all’introduzione e se molto condivido di quanto ha scritto il direttore su alcuni punti dissento. Per essere specifici, trovo che il krautrock sia stato caratterizzato da buone dosi, oltre che di intelligenza, di ironia. Credo che l’ironia sia una delle chiavi di lettura dei Kraftwerk. Di fronte a certi testi o agli scatti di copertina di “Trans-Europe Express” o di “Ralf & Florian” io non riesco a rimanere serio. I K-Files di”Blow Up” saranno di nuovo con voi in novembre. Non ci si sposterà da Düsseldorf: è tempo che si dia ai Neu! ciò che è dei Neu!.

Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.2, settembre/ottobre 1997 come “Kraftwerk: l’esperanto del villaggio globale”.

26 commenti

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26 risposte a “Krautrock Files (2): Kraftwerk

  1. Marco Tagliabue

    Leggo Blow Up dal numero Zero e su questi KrautRock Files ho costruito e affinato una passione che in quegli anni, specie per chi come me caccia quasi esclusivamente vinile, non era poi così facile da coltivare: ristampe poche, pochissime (ad eccezione giusto dei Kraftwerk e dei Can, che erano comunque già fuori catalogo), e originali più o meno alle stelle. Con pazienza, e anche grazie allo sdoganamento del genere negli anni successivi, mi sono riempito uno scaffale di cui vado fiero e che, musicalmente, tanto mi ha dato. Mi è rimasto un unico cruccio, che si chiama “Tarot”… nessuno, salvo errori, ha ancora pensato ad una bella ristampa in vinile, magari con tutti i tarocchi, come nel costosissimo originale.
    Direi che buona parte del merito di tutto ciò sia tuo Eddy, quindi Grazie! L’altro 50% va a Julian Cope, quindi sei in ottima compagnia!

  2. posilliposonica

    Germania pallida madre.
    Oh Düsseldorf so much to answer for…
    Quelli che vanno in pellegrinaggio a Manchester,quelli che vanno
    nel New Jersey, quelli che vanno a Seattle…e quelli che vanno a
    Düsseldorf.

  3. “Aberdeen’s an old place, Dusseldorf’s a cold place – Cold as spice, Slide your way through Zurich Walk on eggs in Munich, Run salt in its knee
    I’m not one for surgery – Premature senility White car in Germany”

    Superbo, Maestro. as usual.

  4. Orgio

    Articolo molto bello, in effetti. Sull’influenza senza pari dei Kraftwerk nella musica popolare, però, non sono d’accordo, anche dopo riflessione: la loro è ampia quanto quella di Beatles, Velvet Underground e…Led Zeppelin e Black Sabbath. Non basta fare musica innovativa per essere influenti su chi viene dopo.

    • Giancarlo Turra

      Eh, ma trova tu degli altri visi pallidi che hanno influenzato dei neri e non viceversa….

    • A me sembra che ti sia sfuggito completamente il punto alla base dell’intero articolo: Kraftwerk gruppo più influente di sempre perché la loro influenza ha permeato settori amplissimi e diversissimi della moderna popular music. Non “soltanto” del rock, come nel caso di Velvet Underground, Led Zeppelin, Black Sabbath. Per i Beatles bisognerebbe fare altri discorsi ma, sostanzialmente, vale pure per loro.

      • Orgio

        A Giancarlo: probabilmente non ci sono, ma questo perché i neri hanno raramente prestato ascolto alla musica dei bianchi, pure influenzata dalla loro. Col risultato che, per l’appunto, si sono create musiche precipuamente “nere” (che i bianchi frequentano, con risultati artistici non infrequentemente maldestri) e musiche “bianche” (che i neri non si sognano neanche lontanamente di suonare, per scelta loro però). Ma che importanza ha per dei bianchi influenzare dei neri? Peraltro, stiamo parlando di un gruppo europeo, e quindi la contrapposizione neri-bianchi perde ulteriormente di senso.
        A Eddy: vero, nella popular music moderna; che, però, deriva dal rock e del rock è una inevitabile filiazione. Col che, se vogliamo mantenere in piedi la tesi dell’imprescindibilità dei padri per l’innovazione dei figli, mi sembra che la mia posizione possa essere ancora fondata (anche perché, diciamocelo, CHIUNQUE si sieda dietro una batteria è influenzato da John Bonham, tanto per dirne una).

      • La tesi che il rock sia musica “bianca” mi sembra francamente ardita. Magari è anche bianca. Chiedilo a Elvis. O, visto che Elvis non può più risponderti, chiedilo a Robert Plant. Sostenere poi che la moderna popular music discenda sic et simpliciter dal rock mi pare voglia dire dimenticarsi per strada folk, jazz, soul, funk, rhythm’n’blues, reggae, hip hop, disco, techno, house, ambient, drum’n’bass, dubstep, un tot di musiche di origine colta e una valanga di pop di differenti epoche e latitudini. Ad esempio.

  5. Orgio

    Non dico che il rock è musica bianca, infatti. Sarebbe falso.
    A questo punto dovremmo intenderci sul significato di “moderna popular music”: per me è quella prodotta dagli anni Cinquanta del Novecento. Ad ogni modo, capisco la tua tesi, ha senso, ma mi pare che ridurre le influenze “ubique” a Beatles, Velvet e Kraftwerk sia riduttivo, troppo. Tutto qua.

    • Giancarlo Turra

      pregasi ascoltare – per dire il primo che mi viene in mente – Model 500 dopo “Autobahn” o “Trans-Europe Express”. E poi fare il giro “al contrario” con i Primal Scream di fine ’90 primi 2000. E poi riflettere sulla famosa (?) massima “la techno sono George Clinton e i Kraftwerk chiusi insieme in ascensore.” Io non lo faccio mai abbastanza, e mi capita almeno una volta la settimana 🙂

  6. CliffSteele

    Grande articolo che ti nomina Venerato Maestro senza oppure.
    Per tante ragioni ma sopratutto perchè finalmente qualcuno capisce che l’elettronica non è necessariamente fredda. Mi ricordo quando sul Mucchio si diceva che gli strumenti elettronici non sono “naturali” !
    Forse qualcuno ha visto le chitarre acustiche crescere sugli alberi o nei campo ?
    Capisco quando parli di modernariato. La musica dei Kraftwerk mi ricorda la definizione che qualcuno più intelligente di me ha dato della fantascienza: Nostalgia del futuro.
    Non ricordo chi.
    Ma credevo che nel 2000 tutti avremmo avuto il Jet Pack (e nemmeno questa è mia…)

  7. Orgio

    Eddy, io ti stimo, e dunque ci ho provato: ho ascoltato ripetutamente “Autobahn” e “Trans-Europe Express”, ma proprio non riesco a digerirli. Mi chiedo, ma a te piace tutta la variegata materia musicale di cui scrivi (e per “piacere” intendo che ti sovviene nei momenti più improbabili della giornata e della quale, ripetutamente, un desiderio irrefrenabile di ascoltarla ti assale)? Se si, la mia ammirazione cresce, perché, onestamente, confesso che, nonostante i molti dischi posseduti e ancor più quelli ascoltati, alla fine mi trovo a tornare ai soliti dieci, venti album? Cos’ho che non va?
    E soprattutto, per piacere, provaci ancora: cosa mi manca per apprezzare i Kraftwerk? Perché ascoltandoli, e rapportando i suoni alle date di uscita dei dischi, mi accorgo delle stimmate della genialità, ma la proposta continua a lasciarmi diffidente sulla bontà e l’utilità dell’opera, come normalmente accade con l’avanguardia.
    E soprattutto, sappi che se fallisci, Lloyd Kaufman avrà il possesso sempiterno della mia anima!

    • Non vedo perché tu DEBBA farti piacere i Kraftwerk. Essendo un ascoltatore dotato di intelligenza e buona cultura musicale generale ne cogli la genialità, come hai detto, e tanto basta. Allo stesso modo, per dire, io sono più che conscio della statura di un Giuseppe Verdi ma, come tutta l’opera, posso reggerlo solo in piccole dosi di massimo mezz’ora per volta. E in ogni caso non lo cambierei mai non ti dico nemmeno con i Velvet Underground ma anche solo con gli Human Switchboard. E credo che anche i più onnivori fra gli appassionati tendano a tornare a quei dieci, o venti, o cento album che siano, che hanno dato loro l’imprinting.
      Va da sé che a me non piaccia davvero che una parte assolutamente minoritaria di tutto quello che mi tocca ascoltare per lavoro. Dopo di che, essendo uno eclettico sia per necessità che per filosofia di vita, riesco comunque ancora a trovare tanto che mi soddisfa persino fra le novità. Figurati in mezzo secolo o più di popular music.

      • Orgio

        “E vince sempre lui, e vince sempre lui, e vince sempre lui Eddy Cilìa”.
        Grazie
        P.S. ho lo stesso problema con l’opera; dev’essere endemico.
        P.P.S. Lloyd Kaufman non avrai le mie sinapsi!

  8. giuliano

    Orgio, se ci dici quali sono quei 10/20 album ai quali torni costantemente, possiamo avviare un riflessione più approfondita sul tuo scottante problema.
    Ma essendo cha da tale lista mancano “Trans-Europe Express”, il disco bananuto e, presumo, anche “Highway 61 revisited”, già marchi male. 🙂
    (Ah, il “sì”, l’avverbio, va con l’accento…)

    • Orgio

      Non mi pare di avere sollecitato il tuo parere.

    • Orgio

      Già, gelida come i Kraftwerk. Comunque, nessun problema per l’emorragia: ho giusto qui con me Dr. Feelgood (non quello di Aretha, come intendi bene).
      Pensa che, sotto le tue insostenibili pressioni, domani mi accaparro “The River” in vinile e gli do una chance: me devi na porchettata, a gggiulia’!

      • Orgio

        BONUS TRACK:
        Quanto a “sì”, touché.

      • giuliano

        Lascia perdere The river. Che è pure doppio. Ho paura che me stramazzi.

        Mai provato con Neil Young? Lui può essere il ponte per un altro mondo… o magari Graham Parker, Tom Petty, Mark Lanegan, l’Elvis Costello degli inizi… E i Suicide? Patti Smith? I Televison? I Pere Ubu??
        Hai mai visto “No direction home” di Scorsese? Ti convertirai a Dylan.

        Giulianello par servirve siòr

  9. Orgio

    Si, ma hai letto come lo descrive Eddy? Imperdibile. E dunque immoliamo sti dieci euri alla causa.
    In ordine: no, no, si, si. no, si, si, no, si. No, non l’ho visto (d’altra parte, tu hai visto “Tromeo And Juliet”? Avrai indovinato la trama, ma ti dico solo che c’è Lemmy che fa il narratore recitando Shakespeare). Ma, come forse è trasparito già in precedenza, la mia Weltanschauung passa necessariamente per l’oltraggio e la demenza musicati con chitarre rumorose, sicché taluni di quelli che mi hai citato difficilmente mi si potranno confare. Per esempio, di Patti Smith ho i primi tre LP: li ho ascoltati un paio di volte, poi, però, mi sopravviene la sensazione che potrei star spendendo il mio tempo in compagnia dei Saints o dei Maiden (a proposito, hai visto che è morto Clive Burr? Di’ quello che vuoi, ma uno che si inventa un intro di batteria come quello di “Run To The Hills” merita imperitura memoria) e allora una triste realtà si profila: la resistenza è futile. E quindi torno ai soliti venti- trenta dischi/musicisti di cui sopra.

    • giuliano

      Già, il povero Clive Burr: mi è dispiaciuto molto. Mi ricorda i tempi della prima adolescenza, quando avevo alcuni amici metallari. Per loro anche i Led Zeppelin erano roba da signorine. Andavamo per negozietti underground: loro si accattavano i bootleg con Paul Di Anno, le prime cose dei Metallica, i Possessed, se non sbaglio… io copie usate di Crosby Sills & Nash, Simon and garfunkel, Joni Mitchell. Robbba da museo, mi dicevano… Erano i tempi del vinile: un disco usato costava 3 o 4mila lire.
      Peraltro gli Iron li ho visti qui a Roma, nel 2007, all’Olimpico, insieme ai Motorhead. Accompagnai un amico. Mi divertii molto a dire il vero. I Motorhead mi sfondarono letteralmente i timpani: mi ronzarono le orecchie per alcuni giorni.

      • Orgio

        Pare che i Motorhead detengano il record di band più rumorosa del mondo, qualunque cosa ciò significhi, quindi non mi stupisco. Lemmy non si discute per nessuno, comunque. Come CSN&Y, ma per ragioni diverse.

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