Archivi del mese: marzo 2013

Velvet Gallery (19)

Dopo averne scritto già diffusamente ai tempi del primo soggiorno al “Mucchio” (per chi se lo fosse perso: qui), anche in epoca “Velvet”  dedicavo un articolo ai Jesus And Mary Chain. Laddove fra le certezze si faceva strada qualche ragionevole dubbio.

The Jesus And Mary Chain - Baci fra il filo spinato 1

The Jesus And Mary Chain - Baci fra il filo spinato 2

The Jesus And Mary Chain - Baci fra il filo spinato 3

The Jesus And Mary Chain - Baci fra il filo spinato 4

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Bruce Springsteen 1973-1995 (12): Greatest Hits

Greatest Hits

Born To Run. Thunder Road. Badlands. The River. Hungry Heart. Atlantic City. Dancing In The Dark. Born In The U.S.A.. My Hometown. Glory Days. Brilliant Disguise. Human Touch. Better Days. Streets Of Philadelphia. Secret Garden. Murder Incorporated. Blood Brothers. This Hard Land.

Columbia, febbraio 1995 (album doppio; la versione su CD è singola) – Tecnici del suono: Bob Clearmountain, Neil Dorfsman, Jimmy Iovine, Louis Lahav, Bob Ludwig, Toby Scott – Produttori: Mike Appel, Roy Bittan, Jon Landau, Chuck Plotkin, Bruce Springsteen, Steve Van Zandt.

C’è di che inquietarsi, e tanto. Detto che sarebbe stato comunque impossibile sintetizzare in maniera soddisfacente la vicenda artistica di Bruce Springsteen in soli diciotto brani, bisogna subito dopo aggiungere, tanto per cominciare, che questa  non è una vera raccolta di successi. Nonostante abbia piazzato sette 45 giri tratti da uno stesso LP (“Born In The U.S.A.”) nei Top 10 delle classifiche americane (un record) Springsteen è artista che si fa valere soprattutto sulla lunga distanza. Con l’eccezione del periodo di “Born In The U.S.A.” i suoi 45 giri non sono mai stati successi travolgenti e a ogni buon conto Thunder Road, The River  e Atlantic City in quel formato negli Stati Uniti non sono mai uscite. Il titolo  dell’antologia in questione è dunque bugiardo. Non è una panoramica completa sulla carriera del Nostro perché i primi due album non vi sono rappresentati. Non è nemmeno un canonico “Best”, se no, per dire, non mancherebbe la title-track di “Darkness On The Edge Of Town” e a rappresentare “Tunnel Of Love” sarebbe stata convocata Tougher Than The Rest piuttosto che Brilliant Disguise (d’accordo, i gusti sono gusti: ma a tutto c’è un limite). E non recupera neppure uno dei tanti lati B altrimenti inediti (e ve n’è di molto belli). C’è di che inquietarsi, e tanto. Ma c’è pure di che esaltarsi, anche se permane il fastidio del dovere pagare per un EP il prezzo di un disco normale. I quattro inediti offerti da questo finto “Greatest Hits” sarebbero stati un mini formidabile, che l’eventuale aggiunta di Streets Of Philadelphia, la struggente elegia per le vittime dell’AIDS scritta dal Nostro per Philadelphia di Jonathan Demme e premiata da un Oscar e da un’infinità di altri riconoscimenti, avrebbe reso ancora più memorabile.

Murder Incorporated e This Hard Land erano in realtà già ben note a ogni springsteeniano degno di tale qualifica. La prima venne registrata nel 1982, nel confuso periodo che partorì “Nebraska” e buona parte di “Born In The U.S.A.” e venne considerata per l’inclusione in quest’ultimo. Esclusane, era divenuta presto una delle outtakes più amate. La ritmica possente e le chitarre epiche rimandano chiaramente a quei primi anni ’80. Agli stessi mesi risale la seconda, una ballata di impianto dylaniano densa di suggestioni folk a dispetto del dispiego di elettricità. Sono dunque due le vere novità, entrambe eccellenti: Secret Garden si muove nei paraggi di quelle strade di Philadelphia responsabili del ritorno in auge presso la critica del Nostro; Blood Brothers sa ancora di Dylan e  del John Mellencamp di “Scarecrow” e dintorni.

Sono canzoni magnifiche che valgono anche per la speranza che due di loro offrirono al momento dell’uscita, quella che fece sì che una raccolta con quattro inediti fosse per i cultori storici di Bruce Springsteen eccitante quanto tre anni prima erano stati due album che di brani nuovi ne avevano offerti ventiquattro. È la speranza di un ritorno al passato coltivata con fervore e certo non soltanto per nostalgia da tutti, anche da coloro che apprezzavano i tempi nuovi: in This Hard Land, risuonata per l’occasione, è la E Street Band ad accompagnare Springsteen, così come in Blood Brothers, il cui testo è un omaggio esplicito del leader ai compagni di tanti anni. La separazione del novembre 1989 è solo uno sgradevole ricordo. L’album successivo sarà acustico e dunque la E Street Band non ne sarà protagonista, ma la presenza negli sparuti ranghi di Federici e Tallent contribuirà a ribadire che, dopo qualche incerto girovagare, Springsteen era tornato a casa.

Pubblicato per la prima volta in Bruce Springsteen: strade di fuoco, Giunti, 1998.

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Billy Bragg – Tooth & Nail (Cooking Vinyl)

Billy Bragg - Tooth & Nail

La prima cosa da dire di “Tooth & Nail” è questa: non ha mai cantato così bene Billy Bragg, voce a un apice di espressività (altro che Barking bard!), “aged and mellow” come l’uomo celebrato da Little Esther in un omonimo blues in cui lo paragonava a un whisky ben stagionato. E la seconda è: mai aveva pubblicato in precedenza un lavoro musicalmente tanto ricco e sofisticato nella sua apparente semplicità. La terza: il disco “americano” del nostro eroe, proprio come lo aveva annunciato, con più punti di contatto con “Mermaid Avenue” che con qualunque altro Billy Bragg precedente possa sovvenirvi. La quarta: la sua opera meno “politica” di sempre. Resta nondimeno lui, uno cui volere bene senza riserve e a maggior ragione nel momento in cui si offre così – indifeso – in quella stagione della vita in cui all’amore tocca rammendare gli strappi senza rimedio delle separazioni – definitive – dalle prime persone che ci hanno amato. Must I paint you a picture?

E allora forse esagera Phil Sutcliffe scrivendo sulle pagine di “Mojo” che siamo davanti al capolavoro dell’artista che ci ha regalato canzoni come A New England e Greetings To The New Brunette, Levi Stubbs’ Tears e She’s Got A New Spell, Between The Wars e Days Like These. “Il” suo album da avere? Prima di “Brewing Up With”, di “Talking With The Taxman About Poetry”, di “Don’t Try This At Home”? Direi di no, per le medesime ragioni per le quali – per intenderci – se uno si accosta a Dylan dovrà esplorarne bene i ’60 prima di potere prendere in considerazione i classici, che pure ci sono, dei decenni successivi. Mutatis mutandis, “Tooth & Nail” è un “Blood On The Tracks”, un “Oh Mercy”, un “Time Out Of Mind”.

Diamo a Joe Henry ciò che è di Joe Henry: quest’album lo ribadisce un produttore eccezionale nella misura in cui è tale chi, dopo avere posto chi produce nella condizione di rendere al meglio, sparisce sullo sfondo. Benedetti i Phil Spector e i Brian Eno e tuttavia si può essere produttori ideali come si è grandi arbitri: lasciando che il gioco scorra, con la consapevolezza che devono essere i giocatori i protagonisti. E subito dopo rendiamo allora merito ai musicisti che suonano in “Tooth & Nail” e senza i quali “Tooth & Nail” non suonerebbe così splendidamente: a Greg Leisz e al suo infinito armamentario di strumenti a corda, a Patrick Warren e alle sue tastiere, a una sezione ritmica – David Piltch al basso, Jay Bellerose alla batteria – che declina country e blues con il calore del country e del blues e l’eleganza del jazz. Stabilisce il tono una felpata, felina January Song, offre una prima variazione una No One Knows Nothing Anymore di passo marziale e una seconda un Handyman Blues di languore squisito. “Tooth & Nail” ha presentato il suo campionario di seduzioni e l’unica cover in programma – I Ain’t Got No Home, dal più desolato dei Woody Guthrie possibili – funge da punto e a capo. Si riparte dall’ineffabile arrendersi agli imperativi di un rapporto di amorosi sensi di Swallow My Pride e sulla strada che conduce a una Tomorrow’s Going To Be A Better Day che piacerebbe al primo idolo di Billy, tal Paul Simon, ci sono tappe in cui il cuore perde battiti e pezzi: la tristissima Goodbye, Goodbye, il mezzo valzer Chasing Rainbows. Su un fronte opposto: il trapestare fra gospel e ragtime di Do Unto Others, una gioiosa e giocosa Over You, una There Will Be A Reckoning dal ritornello sfacciato ed eccolo uno scampolo di innodia Bragg vecchio stile. Lo abbiamo aspettato cinque anni questo disco. Ne è valsa la pena.

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David Bowie – The Next Day (ISO/Columbia)

David Bowie - The Next Day

Vado a memoria ma sono certo di non sbagliarmi: è da “Black Tie White Noise”, che era il suo diciottesimo album in studio, e sembra ieri ma sono trascorsi vent’anni dacché vedeva la luce, che ogni disco di David Bowie è immancabilmente acclamato dalla critica come “il suo migliore da ‘Scary Monsters’ in poi” (o se no, da quei pochi che come me pensano che fosse e resti una gemma di pop squisitamente a perdere, da “Let’s Dance” in avanti). Per “Black Tie White Noise” si poteva capirlo: veniva dopo i due terribili (ter-ri-bi-li) LP con i Tin Machine e il sollievo che il Duca tornasse a offrire qualcosa di minimamente potabile induceva alla sopravvalutazione. Con il senno di poi, non pare francamente granché e la stessa cosa, con scarti stilistici anche marcati ma dislivelli qualitativi modesti, può essere detta di “Outside”, di “Earthling”, di “’Hours”, di “Heathen”, di “Reality”, tutti lavori salutati all’uscita da “oh” e “ah” di meraviglia (wow! Bowie che si dà alla drum’n’bass! figata!), salvo poi venire accantonati con imbarazzo la settimana dopo. Si può capire pure questo: era difficile accettare che l’artista che per uno sfolgorante quasi-decennio mostrò al rock quali strade seguire, puntualmente un passo o due in anticipo (spesso solo apparente? un aspetto della sua genialità) sul resto del mondo, tristemente rincorresse invece di farsi rincorrere. Al di là di tutto: mancavano le canzoni memorabili. Dai! Sfido chiunque non sia un fan terminale a citarmi anche soltanto tre pezzi del Bowie ’84-2003 degni di figurare in una sua ideale raccolta. A me non ne viene in mente uno. Ed ecco perché, quando a inizio gennaio veniva annunciato che il nostro uomo avrebbe presto interrotto un silenzio ormai decennale, non ho cominciato a trattenere il fiato nell’attesa. “The Next Day” è fuori  da una ventina di giorni. Dire che è stato salutato da recensioni entusiastiche (e per i tempi che corrono pure le vendite sono eccellenti) è poco. Sono tutti d’accordo: il migliore album di David Bowie da “Scary Monsters” a oggi. Dopo innumerevoli ascolti, mi accodo. Se però mi chiedete se lo si potrebbe contare fra i suoi dieci migliori di sempre la risposta è: non scherziamo.

Ciò premesso: un’opera irragionevolmente buona se si tiene conto che a darla alle stampe è un signore di sessantasei anni, che pubblicava il suo primo LP nel ’67, da un decennio era scomparso dalle scene e da quasi tre ha smesso di essere rilevante. E qui qualche canzone da includere in un futuro “Best Of” adeguatamente corposo c’è eccome: se non quella che inaugura – una traccia omonima belloccia e astuta nel suo giocare a fare la nuova Beauty And The Beast – minimo quella che suggella, una Heat foschissima che potrebbe venire da “Heroes” se “Heroes” lo avesse firmato uno Scott Walker già proiettato verso “Tilt”. Laddove il funk in moviola, fra il felino e il robotico, di Dirty Boys potrebbe arrivare da “Lodger” (idem una If You Can See Me tesa e spigolosa), la declamatoria Love Is Lost rimanda proprio a “Scary Monsters” e Valentine’s Day (bel riffettino disteso) e la megaballad You Feel So Lonely You Could Die risalgono molto più indietro: fino all’epopea di Ziggy Stardust. Disco furbo nel suo farsi bignamino (Boss Of Me e Dancing Out In Space, per dire, scorie di “Young Americans”) di un’era aurea con pochi eguali? Indubbiamente. Però a me sembra che sia qualcosa più di una mera collezione di anche brillanti esercizi stilistici. Ci colgo un umanissimo sentore di tempo che passa ed è quasi scaduto. Ci colgo – rarità assoluta per il Nostro – emozioni autentiche piuttosto che una rappresentazione delle stesse. Ecco: un Bowie commovente. Ma non chiedetemi di dire una parola buona una sulla copertina.

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Blow Up n.179

Blow Up

È in edicola il numero 179 di “Blow Up”. Ho contribuito con un breve articolo sugli House Of Love e con recensioni degli ultimi album di Terry Allen, Charles Bradley, Mark Kozelek, Sananda Maitreya, Mudhoney, Elliott Murphy, Christine Owman, Radar Brothers, Son Volt, Richard Thompson e Nicole Willis e di una raccolta di inediti di Townes Van Zandt.

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Krautrock Files (7): Popol Vuh

Fra i gruppi del rock tedesco dei ’70 ho un affetto particolare per la creatura che fu di Florian Fricke: da un certo punto in poi negletta al di là degli oggettivi demeriti di una discografia anni ’80 e ’90 debole, manieristica. Concentrata nella prima metà del decennio precedente e forte di una sequela di album enormi, fortemente caratterizzati e caratterizzanti, la produzione maggiore dei Popol Vuh resta nondimeno inattaccabile.

Popol Vuh

Voglio dirti ancora una cosa riguardo a quella che sento essere l’essenza della mia arte. Popol Vuh è una messa per il cuore. È amore che si fa musica e questo è tutto”: così Florian Fricke in una conversazione con Gerhard Augustin del febbraio 1996 e che poteva saperne l’intervistato che da lì a cinque anni e dieci mesi sarebbe stato, senza preavviso,  strappato a questa terra? Spedito forse – mi piace pensare e perdonate la retorica, buona però per parlare di un vecchio hippie cui non si poteva non volere bene (lo diceva pure David Crosby che “music is love”) – a diversamente esplorare quelle dimensioni ultramondane in cui la sua arte ha dimorato per tre decenni. Né poteva immaginare l’intervistatore che da lì a ulteriori tre anni si sarebbe trovato, con Johannes e Anna Fricke, nella prestigiosa quanto dolorosa e scomoda posizione di curatore testamentario di un’eredità la cui rilevanza è sembrata crescere smisuratamente nell’istante preciso in cui la morte del nostro uomo ha costretto a tirare delle somme. Fatto è che almeno nei ’90, immergendosi nei tempi da un lato con carinerie new age di scarsa sostanza, dall’altro con più ardite ma non felicissime incursioni nella techno, Popol Vuh ha rinunciato a un’inclassificabilità da sempre caratterizzante: musica insieme “medioevale e moderna, sacrale e terrena”, nelle parole di un ammiratore quale Gary Lucas. E così facendo un po’ ha sminuito quanto c’era stato prima. Fricke e soci sono stati ridotti, nel comune sentire, ad artefici di suggestive colonne sonore per Werner Herzog, e non che questo non fosse abbastanza per ricavare loro un posticino nella storia della musica del Novecento (siccome pochi altri spartiti per il cinema possono vantare pari funzionalità e la rara capacità di camminare con le proprie gambe), ma si è dimenticato che nella prima metà dei ’70 percorsero strade lungo le quali nessuno si era inoltrato. Le tracciarono, anzi. Il riascolto consecutivo, indotto dalla fresca riedizione su SPV, di quelli che furono i loro primi cinque LP conferma invece nell’idea, rifattasi strada dopo il fatale 29 dicembre 2001, che per quell’epopea chiamata krautrock furono rilevanti quanto Kraftwerk e Can, Faust e Neu!, Cluster e Ash Ra Tempel. Altrettanto unici e innovativi.

La storia dei Popol Vuh non ha alcuno dei tratti mitologici di tanto rock d’antan, vicenda sviluppatasi senza scossoni e riassumibile in poche frasi. Traggono il nome, dichiarando da subito afflato mistico, dal libro sacro dei Maya e nascono a Monaco di Baviera nel 1969, per iniziativa del venticinquenne Florian Fricke, pianista di formazione classica e critico musicale e cinematografico per testate prestigiose quali “Süddeutsche Zeitung” e “Der Spiegel”. Sono con lui nella prima formazione Frank Fiedler, alle prese come il leader con assortiti marchingegni elettronici, e il percussionista Holger Trülzsch, ma è un “essere con lui” relativo, dacché l’esordio “Affenstunde” è assemblato in massima parte dal solo Fricke. Più rilevante l’apporto dei due al successivo “In den Gärten Pharaohs”, che è pure l’addio (Fiedler a un certo punto tornerà). Nel girotondo di collaborazioni che segnerà la vita di una sigla talvolta più pseudonimo che gruppo “aperto”, merita in questa sede segnalare giusto la venticinquennale presenza del chitarrista e percussionista Daniel Fichelscher.

Più di un’aneddotica che quasi non c’è contano i dischi: e che dischi! I già nominati primi due, usciti rispettivamente su Liberty e Pilz nel 1970 e ’71, viaggiano in coppia in qualsiasi resoconto critico per l’identica strumentazione adoperata, coacervo di ipertecnologico per l’epoca e tribale, Moog, tastiere e percussioni. “Affenstunde” si snoda per la prima facciata lungo i tre movimenti di Ich mache einen Spiegel, sogno variamente numerato (4, 5 e 49) di campane e tamburi, rumori acquatici e soffiare di venti, ambient etno-psichedelica se mai ve n’è stata una e da qui l’etichetta di musica drogata (sornione, Fiedler ammetterà anni dopo che i primi Popol Vuh volutamente producevano sotto effetto di sostanze musica destinata a essere fruita sotto effetto di sostanze) subito appiccicata a un album che tocca apici inenarrabili nell’omonima traccia che in origine occupava l’intero secondo lato: nei suoi 18’30” gorgoglianti e levitanti, e in lento raddensamento fino al planare conclusivo, già tutta l’evocatività visionaria che benedirà i capisaldi della cinematografia di Herzog, amico di vecchia data di Fricke. Nondimeno questo non è un film suo ma di Kubrick e per la precisione 2001: Odissea nello spazio: è l’ora della scimmia, dichiara il titolo, quella in cui il primate si leva e si fa uomo. Pare allora consequenziale che nel successivo viaggio i Nostri si addentrino nel giardino dei faraoni. Ha però ragione Julian Cope quando, in Krautrocksampler, annota che il brano che battezza il disco monopolizzandone il lato uno più che l’antico Egitto fa venire in mente immagini da ancestrale saga nordica, fra un organo enfatico e un suono di risacca,  un rutilare di conga e un tremolare di piano elettrico. Ma il capolavoro è il lato due, Vuh: cercate di immaginare, se ci riuscite, una via di mezzo fra una fuga bachiana e il velvetiano, bene organizzato delirio di Sister Ray ed ecco. Registrato dal vivo con Fricke all’organo medioevale della cattedrale di Baumberg!

Addirittura ovvio che dopo non possa esservi che un cambio di direzione e difatti “Hosianna Mantra” (Pilz, 1972) svolta decisamente, barattando la strumentazione elettronica con cembali e violini, chitarre e oboe. Se è rock è “da camera”,  impregnato di fragranze di India e di Irlanda, raccolta e delicatissima liturgia di una forza trascendentale al cui confronto tutta, assolutamente tutta quella che verrà chiamata new age e che qui pretenderebbe di affondare le radici impallidisce, svelandosi per il ciarpame che in grandissima parte è. Su Kosmische Musik e uno del ’73 e l’altro del ’74, “Seligpreisung” e “Einsjäger & Siebenjäger” completeranno evoluzione e canone Popol Vuh abbracciando fra un raga e un mantra un acid rock di gusto californiano (in gran spolvero soprattutto nel primo l’elettrica di Fichelscher), non negandosi al jazz o a Terry Riley. Il variegato assieme troverà da qui in poi adeguata sintesi più che altro nelle colonne sonore (più deboli gli album concepiti autonomamente) per i film di Herzog, sei in tutto e due, o magari tre, imprescindibili. Giusto quelle appena ristampate, “Aguirre” e “Nosferatu”, essendo eventualmente la terza “Fitzcarraldo”. L’aggettivo “indimenticabile” deve essere stato inventato per il tema conduttore di Aguirre, Lacrime di re, pinkfloydianamente in transito dal cristallino al gregoriano, o per il piano che rintocca sui titoli di testa di Nosferatu, con la camera che carrella su una fila di sepolcri aperti a esporre mummie ghignanti.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.608, marzo 2005.

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Velvet Gallery (18)

In questi recuperi cartacei di anni ’80 mi ero sempre astenuto sinora dal riprendere rubriche. Faccio un’eccezione per Jim Carroll, che allora non solo era vivo (ci ha lasciati nel settembre 2009, sessantenne) ma anche ancora un argomento di relativa attualità. Credo e temo che per il lettore odierno questo grande artista non sia nemmeno un nome. Spero che per qualcuno che mi legge oggi diventi una bellissima scoperta.

Jim Carroll

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Phil Spector (Be my, be my producer)

Esce domani negli Stati Uniti l’attesissimo “Phil Spector”, film dedicato alla vita del leggendario – e, dopo la tragica morte di Lana Clarkson, famigerato – produttore discografico, con Al Pacino nel ruolo di protagonista. Quando Spector era ancora a piede libero, non essendosi macchiato che di qualche relativamente innocente eccentricità, gli dedicavo questo articolo sulle pagine di un ancora giovane – e, guarda caso, natalizio – “Blow Up”.

Phil Spector

Il 26 dicembre (megalomane com’è, probabile che si sia spesso rammaricato di non essere nato lo stesso giorno di Gesù Cristo) Phil Spector compie cinquantanove anni. Ne sono trascorsi quaranta da quando diede alle stampe il suo unico LP da musicista, trenta da quando si ripresentò alla ribalta dopo uno sdegnato aventino triennale, venticinque da quando mise mano alla sua ultima grande produzione (“Rock’n’Roll” di John Lennon), dieci da quando rimasterizzò in digitale la sua leggendaria antologia di carole e venne introdotto nella “Rock’n’Roll Hall Of Fame”. Brutta faccenda. Quando ti celebrano da quelle parti vuol dire che sei morto anche se sei vivo. Il decennio che va a spegnersi ci ha regalato, proprio all’inizio, il monumentale riordino del suo lavoro (meglio forse sarebbe dire: il riordino del suo lavoro monumentale) che va sotto il nome di “Back To Mono (1958-1969)” (box quadruplo del quale nessuna casa dovrebbe esser priva), senza però offrirci neppure una canzone nuova con la sua firma. Sono un po’ di anni, vedete, che il nostro uomo è – come dire? – alquanto out there.

L’aneddotica su Phil Spector, non solo il Mozart e il Wagner della musica pop ma anche il suo Howard Hughes, è vastissima. Si racconta di una sua fobia per i viaggi in aereo che una volta gli fece bloccare otto decolli perché sicuro che il volo su cui era salito non sarebbe arrivato a destinazione (poteva permetterselo, aveva appena guadagnato il suo secondo milione di dollari). Si racconta che – un po’ per gelosia, un po’ per timore che venisse seguita da qualche maniaco – costringeva la moglie Ronnie, quando usciva in auto da sola, a sistemare sul sedile del passeggero un manichino riproducente le fattezze del consorte. Si racconta che, quando i due scoprirono che non potevano avere figli e decisero di adottare una bambina, la obbligò a sistemare sotto i vestiti cuscini di dimensioni crescenti via via che passavano i mesi per simulare una gravidanza. Si racconta che giri sempre armato con una pistola di grosso calibro e che non esiti a estrarla. In sala con lui, un giorno Leonard Cohen ebbe a eccepire sugli arrangiamenti orchestrali che gli stava imponendo. Spector tirò fuori il revolver e glielo puntò alla testa. Cohen disse che gli arrangiamenti gli piacevano molto. “Death Of A Ladies Man” è il suo album peggiore, ma gli è sopravvissuto e ha potuto farne altri.

Si racconta però anche di un perfezionista capace di passare tredici ore, durante le sedute di registrazione di “End Of The Century” dei Ramones, a rifinire un unico accordo. Tredici ore su un accordo! Suonato dai Ramones! Se non è stato naturalmente solo il duro lavoro a fare di lui il gigante che è – c’entra più che altro quell’ineffabile quid che chiamiamo Genio – è certo che Phil Spector si è guadagnato ogni singolo centesimo poi speso, una volta spentisi i riflettori, in alcool e psicanalisti.

(Scena: uno studio televisivo americano, 1962. Si chiama “The Open End”, lo presentano David Susskind e Williams B. Williams ed è uno dei programmi più popolari del momento. Questa sera è ospite uno degli uomini più popolari del momento. È poco più che un ragazzino, si chiama Philip Harvey Spector, fa il produttore discografico e ogni 45 giri che reca il suo marchio entra puntualmente nei Top 10. Susskind lamenta che questo rock’n’roll di cui tanto si parla è sciatto, che non ci sono più le belle canzoni di una volta, tipo quelle di Cole Porter. L’invitato replica che  non ci sono nemmeno più i presidenti di una volta, tipo Abraham Lincoln. Susskind comincia a recitare il testo di uno dei successi di Spector, con il palese intento di ridicolizzarlo. Spector tiene il tempo battendo su un tavolino e dice: “Quello che ti manca è il ritmo”. Dopo qualche minuto si scoccia e si rivolge a Williams chiedendogli, visto che sostengono di amare la buona musica, come mai nel loro programma non fanno mai ascoltare Verdi ma solo canzonette. Williams, imbarazzato, non risponde. Si gira verso Susskind: “Non sono venuto qui per sentirmi dire che sto corrompendo la gioventù d’America. A quest’ora potevo essere a casa a lavorare e a far soldi”. Cala il gelo sullo studio.)

Fra le tante leggende che circolano su Spector ce ne sono due davvero prive di qualsiasi fondamento: che il suono dei suoi dischi – il cosiddetto Wall Of Sound spectoriano – sia monolitico e che i testi delle sue canzoni siano banali. Entrambe si sgretolano miseramente a un ascolto appena più approfondito. Lascia stupefatti la ricchezza degli arrangiamenti, finissima trama di voci, archi e ottoni poggiata sulle fondamenta di ritmi di eleganza e funzionalità somme. E quanto ai testi sono capolavori di poesia adolescenziale di un’intensità e un lirismo quali il pop non aveva mai conosciuto né mai più, a questi livelli, conoscerà. In tutto figli del loro tempo, come Shakespeare, ma allo stesso modo capaci di trascenderlo. Perché da che mondo è mondo i primi palpiti d’amore, dolcissimi e dolorosi, si somigliano. Storie lineari e raccolte che con un’economia di parole esemplare svelano grande attenzione al dettaglio psicologico.

A mettere in un dato ordine certune fra queste canzoni si possono costruire miniature di romanzi. In I Wonder, delle Ronettes, una ragazza si interroga su come sarà l’uomo della sua vita. In Then He Kissed Me, delle Crystals, scopre di averlo trovato e si fa baciare “come nessuno mi aveva baciato mai”. E dopo un verso di impagabile allusività – “sapevo che era mio, così gli diedi tutto l’amore che avevo” – eccola presentarsi ai genitori di lui. Segue proposta di matrimonio: “Ero così felice che quasi piansi/e poi mi baciò”. Perché l’Estate dell’Amore è ancora lontana e si può magari consumare, ma dopo bisogna mettersi in regola. Sempre che sia possibile farlo. “Non siamo troppo giovani per sposarci”, protestano disperati Bob B. Sox & The Blue Jeans in Not Too Young To Get Married. Sempre che gli amanti riescano “a finire quello che hanno iniziato” e non si spezzino il cuore a vicenda, come in Why Do Lovers Break Each Others’ Hearts, interpretata ancora dalla banda di Bob B. Sox. Sempre che, lui lontano, lei  resista ai corteggiatori che incalzano, come la  Darlene Love di Wait ’Til My Bobby Gets Home. Saranno guai se non ce la fa. In un mondo che sembra il ritratto dell’innocenza (e per molti versi lo è) appare perfettamente normale che l’uomo che è stato tradito schiaffeggi la donna e poi la stupri e che lei percepisca il tutto come una dimostrazione d’amore. Che è né più né meno quanto viene raccontato, e non fra le righe, nella disturbante He Hit Me (It Felt Like A Kiss). Colossale successo per le Crystals nell’anno 1962. E qualcuno oggi si scandalizza per Marilyn Manson…

Si dice che gli anni ’60, e non solo in musica, siano cominciati nel 1964, con il dilagare della beatlemania negli Stati Uniti. È senz’altro vero. Si dice pure che il quadriennio che va dal ’60 – morti Buddy Holly e Eddie Cochran, ormai normalizzato Elvis, fuori gioco Jerry Lee Lewis, Chuck Berry, Gene Vincent – al ’64 sia stato il più buio della storia del rock’n’roll. È vero soltanto se si ignora che fu l’Età dell’Oro di Phil Spector. Al quale comunque la parola “rock’n’roll” non è mai piaciuta. Preferisce definire il suo stile “pop-blues”.

Originario del Bronx, cresciuto orfano di padre e trasferitosi tredicenne con madre e sorella a Hollywood, Philip Harvey Spector si innamora presto della musica. Se con piano e chitarra se la cava (fra i suoi compagni in una trafila di complessini quell’altro bell’eccentrico di Kim Fowley), il suo forte sono presto il lavoro in sala d’incisione (fa pratica con Lee Hazlewood; in quest’articolo se non sono matti non li vogliamo) e la composizione. La prima canzone che pubblica fa subito il botto. Asciutto doo wop per i cui controcanti si è fatto dare una mano da due compagni di scuola, facendo per il resto tutto da solo tranne le parti di batteria, To Know Him Is To Love Him (titolo ispirato dall’epitaffio sulla tomba del padre) scala nel 1958  le classifiche statunitensi fino alla vetta. L’anno dopo i fantomatici Teddy Bears pubblicano un 33 giri per la Imperial, “Sing!”, che resterà unico per il Nostro, che da qui in avanti preferirà lavorare dietro le quinte. L’esperienza con i Teddy Bears lo scaltrirà parecchio per quanto attiene gli aspetti economici del fare musica: defraudato di larga parte dei diritti d’autore, dopo essersi guadagnato da vivere per qualche tempo facendo il cronista giudiziario, si ritroverà a New York senza un soldo e con la prospettiva di fare l’interprete dal francese all’ONU. Per fortuna, non entrerà mai nel palazzo delle Nazioni Unite. D’ora in avanti sarà un amministratore molto oculato di sé stesso. Discografico (fonda la Philles) e scopritore di talenti oltre che autore di canzoni e arrangiatore, con presto una schiera di altri compositori, cantanti e musicisti alle sue dipendenze.

Dal 1960 al 1965 successo va dietro a successo. Ogni canzone simile alla precedente, eppure  diversa, tant’è che mettendole in fila la raffinatezza (che non necessariamente vuol dire complessità) sempre maggiore dell’impianto strumentale e il lento traghettamento (percorso tuttavia niente affatto lineare) dal doo wop a un pop maturo al soul appaiono evidenti. Ogni canzone inconfondibilmente “di Phil Spector” pure quando non l’ha scritta lui, tant’è che diventa irrilevante che a cantare siano le Ronettes anziché le Crystals, Veronica piuttosto che Darlene Love. Caso unico nella storia della canzone pop di produttore che conta più degli artisti che produce. Non che non sappia distinguere, con quelli che mostrano caratteristiche peculiari, le differenti sensibilità: quando produce e/o scrive per Gene Pitney, ad esempio, usa accenti diversi da quando lavora con i Righteous Brothers. È di una logica assoluta che affidi al primo il melò Every Breath I Take e ai secondi l’assai più sobria crepuscolarità di Unchained Melody. Epitome suprema quest’ultima (benché non l’abbia scritta lui) dello Spector più riflessivo, ove i suoi vertici in fatto di esuberanza adolescenziale sono Da Doo Ron Ron e Be My Baby, date rispettivamente alle Crystals e alle Ronettes.

Per un lustro quello della fabbrica di hit di Phil Spector è il suono per eccellenza dell’America giovane. Ancora ingenua: il protagonista di He’s A Rebel, gemma donata da Pitney alle Crystals, è tanto poco teppista da fare tenerezza. Ma già pronta a sfrenarsi in liberatori amplessi: This Could Be The Night, questa potrebbe essere la notte, canta il Modern Folk Quartet facendo bye bye alla verginità. Dai desideri via via più torbidi: il testo di Strange Love potrebbe appartenere ai Velvet Underground più decadenti. E con una tragedia chiamata Vietnam che si va facendo ineludibile: Soldier Baby Of Mine è la canzone più triste che abbiano mai cantato le Ronettes.

E poi tutto finisce. Spector vede ancora lontani all’orizzonte i trent’anni, ma i coetanei che lo stanno sostituendo ai vertici delle classifiche vengono percepiti come di un’altra generazione. Quando il pubblico boccia una serie di produzioni, fra le sue più ambiziose e  riuscite, per Ike & Tina Turner (River Deep Mountain High si ferma al numero 88) il nostro uomo decide che chi non lo ama non lo merita e si rifugia nella lussuosa fortezza di El Dorado, incombente sul losangeleno Sunset Strip. Vive da recluso per tre anni, frequentando soltanto l’amico Lenny Bruce e uno psicanalista. Quando torna, è un altro mondo quello che trova. Dopo avere prodotto ancora qualche manufatto di insoddisfacente qualità, la fabbrica chiude definitivamente.

Il marchio, tanto inconfondibile da rendere una raccolta di brani natalizi (l’imperdibile “A Christmas Gift For You”, datata 1963) quintessenzialmente spectoriana, è ancora spendibile, ma verrà malamente dilapidato. Paul McCartney non perdonerà mai a Spector le sovrastrutture imposte a “Let It Be” e ben di peggio il Nostro combinerà, parecchi anni dopo, con Leonard Cohen e Ramones. Solamente con John Lennon, che aveva al contrario apprezzato “Let It Be”, Spector lavorerà al meglio, nel già citato “Rock’n’Roll” e in altri due album, e anche nei classicissimi 45 giri Instant Karma e Imagine.

E il resto sono pettegolezzi, storie apocrife e una drammatica intervista-confessione al “Los Angeles Times”, nel 1992, che sembrava preludere a un ritorno che non c’è stato.

Rimangono alcune decine (alcune decine) di canzoni straordinarie e un’influenza che si è fatta sentire su artisti distantissimi fra loro: non vi siete mai accorti che Bruce Springsteen, i Ramones e Marc Almond hanno qualcosa in comune?

Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.19, dicembre 1999.

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Bruce Springsteen 1973-1995 (11): In Concert/(Un)Plugged

In Concert (Un)Plugged

Red Headed Woman. Better Days. Atlantic City. Darkness on The Edge Of Town. Man’s Job. Human Touch. Lucky Town. I Wish I Were Blind. Thunder Road. Light Of Day. If I Should Fall Behind. Living Proof. My Beautiful Reward.

Columbia, aprile 1993 – Registrato presso gli studi della MTV di New York – Tecnici del suono: Bob Clearmountain, Toby Scott – Produttori: Bruce Springsteen e Jon Landau.

Le idee semplici sono spesso vincenti. A qualcuno dalle parti di MTV venne in mente anni fa che sarebbe stato interessante convocare in uno studio televisivo, dinnanzi a un pubblico, pezzi di storia del rock o gruppi o solisti particolarmente popolari in quel dato momento e chiedere loro di suonare dal vivo con una limitazione: niente elettricità, solo strumenti acustici. Un modo per misurare la bontà di un repertorio scarnificandolo ai suoi elementi essenziali. In tanti hanno accettato la sfida, con risultati a volte imbarazzanti (taluni gruppi heavy metal), a volte illuminanti di immenso (stupefacente, e finora non pubblicato ufficialmente, è per esempio l’“Unplugged” di Björk). Va da sé che, visto che l’idea funzionava, molti “Unplugged” sono diventati anche dei CD. Qualcuno ha potuto così rivitalizzare una carriera artisticamente prossima al rigor mortis (tanto per non fare nomi: Eric Clapton), altri hanno affidato al programma il proprio testamento (10,000 Maniacs e Nirvana). Springsteen lo utilizzò per mostrare al grande pubblico la bontà del gruppo erede della E Street Band eludendone l’assioma principale: che il concerto debba essere acustico. Quello di “(Un)Plugged” altro non è che un riassunto di una normale data del tour che fra il giugno del 1992 e il giugno dell’anno successivo ha attraversato Europa (due volte) e Stati Uniti.

A meno che non si ritenga che il Nostro, sapendo che non avrebbe più suonato con quella formazione, abbia voluto dare alle stampe una testimonianza della sua valenza (ma avrebbe allora potuto pubblicare una delle serate del tour), “(Un)Plugged” – registrato il 22 settembre 1992, mandato in onda per la prima volta il 12 novembre, pubblicato ufficialmente dopo che già diversi CD illegali lo avevano documentato anche meglio (mancano all’appello sei titoli nell’edizione ufficiale) – va considerato un’occasione mancata per un artista che da quasi tre lustri era solito inserire nei suoi concerti siparietti acustici di straordinaria suggestione e che da lì a tre anni avrebbe pubblicato un classico assoluto del folk rock.

Non c’è granché da appuntare riguardo a quest’album. Il gruppo gira bene, ci sono in scaletta due discreti inediti, Red Headed Woman e Light Of Day (un brano in repertorio sin dal tour di “Tunnel Of Love”), e si può finalmente ascoltare Atlantic City elettrica. Non è affatto un brutto disco, insomma. Però è inutile.

Pubblicato per la prima volta in Bruce Springsteen: strade di fuoco, Giunti, 1998.

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Diaframma: quando la nuova musica italiana cantata in italiano era ancora nuova

Da sempre cerco di occuparmi il meno possibile di artisti italiani. Quando mi acconcio a scrivere di qualcuno è allora in genere perché mi piace. Ma mi piace davvero.

Federico Fiumani

Bello slogan, efficace e memorabile: “la nuova musica italiana cantata in italiano”. Rimarcava le distanze tanto dai cantautori che nei ’70 si erano divisi il pubblico con i gruppi progressivi che dalla generazione che, infiammata dal punk, aveva cominciato a trafficare con quella “cosa” chiamata new wave scegliendo quasi sempre come idioma in cui esprimersi l’inglese. Mentre i fratelli minori già facevano collezione di “Pebbles” e, in reazione ai cascami gotici, iniziavano a girare mercatini in cerca di camicie paisley e stivaletti a punta. Tanti di loro ci regaleranno ottima musica, ma certo non nuova e tantomeno italiana. I Diaframma invece… Nell’antologia “Catalogue Issue” che nel novembre 1984 inaugurò il catalogo di una neonata etichetta fiorentina, la IRA, sono allora come oggi i due brani loro a colpire in special modo: il cuore caldo in ghiacciata glassa Joy Division di Siberia; la melodia lieve che scappa verso il cielo, ancorata al suolo dal funkeggiare alla A Certain Ratio della sezione ritmica, di Delorenzo. E dire che la compagnia è talentuosa e illustre: Moda e Underground Life e soprattutto Litfiba, che con Fiumani e soci percorreranno un bel pezzo di strada insieme in grande amicizia e perfetta armonia – vani i tentativi del boss IRA Alberto Pirelli di creare artatamente una rivalità alla Beatles-Stones buona per promuovere entrambi – prima di venire separati dai differenti riscontri mercantili. A un certo punto negli anni ’90 sembrò che la banda ancora Pelù avesse stravinto il confronto. Riempiva palasport e di ogni nuova uscita vendeva decine, centinaia di migliaia di copie ove i Diaframma seguitavano a suonare al più nei club che ne avevano salutato gli esordi ed erano spariti, dopo averne peraltro fatto parte per un periodo assai breve, dalla mappa della discografia maggiore nostrana. Un culto – pareva – in graduale erosione. Una “next big thing” mancata. Però ove quegli altri confezionavano musica sempre più retorica e formulaica, Federico Fiumani continuava a inanellare un lavoro pregevole via l’altro, definendo sempre meglio il suo personale rimodellamento “in rock” della tradizione della canzone d’autore italiana. Però il tempo è stato galantuomo e, se mai fu guerra, chi sia rimasto padrone del campo è evidente. E i locali si riempiono ancora quando in cartellone c’è il nome Diaframma, anche se magari non come in quello storico 7 novembre 1988 in cui i Nostri stabilirono al torinese Big Club, forse il luogo più “in” all’epoca del rock nostrano, un record di affluenza rimasto insuperato. Quella sera si divideva il nucleo storico – da una parte Miro Sassolini, che lasciava la musica per altri percorsi, artistici e non; dall’altra Fiumani, che dopo aver meditato per qualche tempo di appendere la chitarra al chiodo ci ripenserà, mantenendo in vita la sigla – e nulla sarebbe più stato lo stesso per i Fiorentini. Il Fiorentino, anzi. Sebbene d’adozione, visti natali marchigiani che a non saperlo non indovineresti, spesso com’è l’accento tutto un’aspirata.

I Diaframma che, su pressante invito di Gianni Maroccolo dei Litfiba, firmano nell’autunno ’84 per Pirelli sono giovani ma già navigati e navigando hanno superato indenni, fortificandosene, più di una tempesta. Il debutto dal vivo con tale ragione sociale – “Eravamo tutti appassionati di fotografia e il diaframma è il congegno della macchina con il quale è possibile aumentare o diminuire l’intensità della luce. La nostra idea era fare lo stesso in musica, giocare sui chiaroscuri” – risale al novembre 1981. Prima si chiamavano C.F.S., acronimo per Cicchi-Fiumani-Susini, complessino letteralmente scolastico con il primo alla batteria, il secondo alla chitarra e alla voce, il terzo al basso. La sigla è stata mandata in pensione dopo un paio di anni quando l’organico ha subito un rimescolamento allargandosi da trio a quartetto, con un altro Cicchi, Leandro, a sostituire Susini e l’arrivo del cantante Nicola Vannini. Fiumani è già il leader indiscusso, autore di parole e musica di canzoni che un po’ ingenuamente mettono assieme i suoi amori più recenti, Television, soprattutto Joy Division e forse qualcosa dei Gaznevada, stelle di una scena minuscola, con il beat adorato da bambino e il De Andrè e il Bowie che ne hanno illuminato l’adolescenza. È alla bolognese Italian Records di Oderso Rubini che i quattro fanno avere da lì a qualche mese il loro primo demo, contenente quattro brani, ed è per quel pionieristico marchio che registrano nel dicembre ’81 i due pezzi, Pioggia e Illusione ottica, che vanno a comporre il primo 45 giri. Fosco e visionario e alloggiato in una sepolcrale copertina sulla quale campeggia una foto giovanile del poeta decadente francese Arthur Rimbaud. Nel suo piccolo il singoletto fa il botto, con recensioni entusiastiche su “Rockerilla” e “Il Mucchio” che si tirano dietro come ricaduta i primi inviti a suonare fuori da Firenze e il fatto che le millecinquecento copie stampate vadano velocemente esaurite. Pensando che, come reciterà assai più in là il titolo di un album, “il futuro sorride a quelli come noi”, i ragazzi optano per assolvere subito gli obblighi di leva e bisognerà dunque attendere fino al maggio 1983 (nel frattempo tengono desta l’attenzione con una canzone regalata alla fanzine “Free” e una sulla raccolta “Body Section”) per avere da loro un altro disco. Valorizzato da una splendida veste grafica, il 12” Altrove battezza il catalogo della Contempo, etichetta che fa capo all’omonimo negozio cittadino e suscita altre ovazioni. Oggi, come il 45 giri precedente, passa di mano a cifre ragguardevoli e che peccato che, oltre ai vinili originali, nemmeno si trovi il CD (sempre Contempo, 1989) “Diaframma 8183” che li recuperò. All’appassionato che si accosti oggi all’opera di Federico Fiumani non resta che partire dalla sua prima uscita in tutti i sensi maggiore.

Copertina di nuovo magnifica, “Siberia” resta uno dei reperti maggiori di un rock italiano che si stava rinnovando e qui, come negli esordi adulti di Litfiba (il coevo “Desaparecido”) e CCCP (“Affinità-divergenze tra il compagno Togliatti e noi”, di un anno successivo), vanno rintracciati i principali semi di quanto fiorirà nel decennio seguente. Album impervio e lo stesso seducente, come la già citata e colossale traccia omonima algido in superficie e caloroso appena sotto, con momenti altissimi in una mesmerica Amsterdam, nelle evocative sospensioni di Memoria, in una martellante Specchi d’acqua. Produce magistralmente Ernesto De Pascale e ancora più magistrali sono le interpretazioni che offre il nuovo cantante, Miro Sassolini, di testi che se possibile superano in bellezza le musiche, con un intimismo che, molto più che Rimbaud, echeggia un altro francese, il sommo Paul Verlaine. Però andrò controcorrente e vi dirò che il 33 giri dopo, “3 volte lacrime”, ottobre 1986, se anche non ebbe lo stesso impatto (per “Siberia” si parla di oltre diecimila copie, cifra da capogiro per un’uscita rock indipendente del tempo) e non gode della medesima considerazione fra i critici, resta il reperto migliore di un catalogo che viaggia ormai verso i trenta articoli. È qui che le promesse profferite da “Siberia” vengono mantenute, le intuizioni a tratti acerbe sviluppate appieno. È qui, fra i romanticismi profumati di Mediterraneo di Falso amore e i vortici punk-beat di Libra, fra gli squisiti struggimenti del brano che intitola il tutto e le sincopi serrate di Madre, che prende definitivamente forma il progetto di una novella canzone d’autore. Sul serio: la nuova musica italiana cantata in italiano. Rock ma peculiare, debitrice al versante dark della new wave ma da esso affrancata.

È cambiata la sezione ritmica e per “Boxe”, maggio 1988, cambierà in parte di nuovo evidenziando come i Diaframma siano divenuti di fatto il duo Fiumani/Sassolini. Cambia pure la casa discografica, che non è più un’IRA colpevole di avere dedicato ogni sua risorsa a dei Litfiba in crescita commerciale esponenziale trascurando scioccamente l’altro suo gruppo di spicco. Anzi, una casa discografica nemmeno c’è, “Boxe” è autoprodotto e della distribuzione si incarica Materiali Sonori. Ottimo LP con l’unico torto di essere sostanzialmente un “3 volte lacrime” parte seconda. Eccetto una Adoro guardarti che a momenti punkeggia alla Ramones e una Marta che persino reggaeggia. La canzone più bella è l’ultima, Caldo, un’intensa ballata pianistica. Inopinatamente, la canta Federico. Non sa che presto gli toccherà cantare sempre.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.627, ottobre 2006. La foto è di Guido Harari.

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