A volere essere cattivi si potrebbe lasciare che sia Thom Yorke stesso a farsi giudice, giuria e boia – Judge, Jury And Executioner, come recita il titolo della settima di nove tracce che sfilano in tre interminabili quarti d’ora – di questo primo album dei soprattutto suoi Atoms For Peace. “You got me in this mess”, canta a un certo punto. E poi: “I couldn’t care less”. E starà certamente parlando d’altro, per quanto sia assai arduo dire lungo l’arco dell’intero disco esattamente di cosa, ma davvero viene da rispondergli, per cominciare, che chi è causa del suo male dovrebbe piangere se stesso. E poi che si sente in ogni secondo di “Amok” che un dopolavoro che aveva forse l’ambizione di farsi qualcosa di più a un certo punto – chissà se nei tre anni passati a fantasticare cosa avrebbe potuto essere o nei tre giorni trascorsi in studio a jammare come da manuale del perfetto supergruppo di una volta – è divenuto qualcosa di meno e di peggio. Tipo una macchia su una vicenda artistica sino a ieri pressoché immacolata. Tipo un’indicazione di una tale nettezza che sarà difficilissimo smentirla che il nostro uomo, dopo anni trascorsi con i Radiohead se non proprio a immaginare il futuro quantomeno a reinventare il presente, ora si guarda dietro ma credendo ancora sia davanti. Che sia l’elettronica a delineare scenari di retroguardia, quando il rock aveva avuto il coraggio di reinventarsi “post-” avendo già conosciuto gli stadi, è paradosso solo apparente.
Sarà che “Amok” ti inganna sistemando in apertura il solo brano in una pur minima misura memorabile, e guarda casa l’unico in cui il pur statico basso di Flea è sexy come lo abbiamo sempre conosciuto, un disossamento di Talking Heads girati glitch e sparati a mille all’ora chiamato Before Your Very Eyes…. Sarà che era legittimo attendersi tanto dal sodalizio fra i due di cui sopra, Nigel Godrich, Joey Waronker e Mauro Refosco. Sarà che continuavo a leggerne in giro un gran bene. Fatto è che non mi sono lasciato smontare dall’impressione iniziale negativa e ho continuato a frequentare quest’album, con passaggi quasi giornalieri per due buone settimane, nell’attesa che una scintilla scoccasse. E vabbé, almeno adesso posso dirlo a ragion veduta: ho sprecato il mio tempo. La triste verità è che nulla avvince in “Amok”, nulla rimane anche dopo lunga consuetudine di questa congerie di melodie irrisolte e ritmiche spezzate e serrate, di suoni dai tratti decisi che mai si decidono a dare un disegno al proprio ordito. E poi quella voce! Un corpo estraneo e la finisco qui. La triste verità è che questo disco a un certo punto ti annoia talmente che anche la fantasia di dedicargli una stroncatura da antologia viene meno. Lo togli per quella che sai l’ultima volta dal lettore ed è come una sensazione di vuoto e smemoratezza che ti coglie un istante dopo. Cosa è già che stavo facendo?
Assolutamente d’accordo, una palla…
Putroppo e con un certo rammarico, ci aggiungiamo al coro…