Da sempre cerco di occuparmi il meno possibile di artisti italiani. Quando mi acconcio a scrivere di qualcuno è allora in genere perché mi piace. Ma mi piace davvero.
Bello slogan, efficace e memorabile: “la nuova musica italiana cantata in italiano”. Rimarcava le distanze tanto dai cantautori che nei ’70 si erano divisi il pubblico con i gruppi progressivi che dalla generazione che, infiammata dal punk, aveva cominciato a trafficare con quella “cosa” chiamata new wave scegliendo quasi sempre come idioma in cui esprimersi l’inglese. Mentre i fratelli minori già facevano collezione di “Pebbles” e, in reazione ai cascami gotici, iniziavano a girare mercatini in cerca di camicie paisley e stivaletti a punta. Tanti di loro ci regaleranno ottima musica, ma certo non nuova e tantomeno italiana. I Diaframma invece… Nell’antologia “Catalogue Issue” che nel novembre 1984 inaugurò il catalogo di una neonata etichetta fiorentina, la IRA, sono allora come oggi i due brani loro a colpire in special modo: il cuore caldo in ghiacciata glassa Joy Division di Siberia; la melodia lieve che scappa verso il cielo, ancorata al suolo dal funkeggiare alla A Certain Ratio della sezione ritmica, di Delorenzo. E dire che la compagnia è talentuosa e illustre: Moda e Underground Life e soprattutto Litfiba, che con Fiumani e soci percorreranno un bel pezzo di strada insieme in grande amicizia e perfetta armonia – vani i tentativi del boss IRA Alberto Pirelli di creare artatamente una rivalità alla Beatles-Stones buona per promuovere entrambi – prima di venire separati dai differenti riscontri mercantili. A un certo punto negli anni ’90 sembrò che la banda ancora Pelù avesse stravinto il confronto. Riempiva palasport e di ogni nuova uscita vendeva decine, centinaia di migliaia di copie ove i Diaframma seguitavano a suonare al più nei club che ne avevano salutato gli esordi ed erano spariti, dopo averne peraltro fatto parte per un periodo assai breve, dalla mappa della discografia maggiore nostrana. Un culto – pareva – in graduale erosione. Una “next big thing” mancata. Però ove quegli altri confezionavano musica sempre più retorica e formulaica, Federico Fiumani continuava a inanellare un lavoro pregevole via l’altro, definendo sempre meglio il suo personale rimodellamento “in rock” della tradizione della canzone d’autore italiana. Però il tempo è stato galantuomo e, se mai fu guerra, chi sia rimasto padrone del campo è evidente. E i locali si riempiono ancora quando in cartellone c’è il nome Diaframma, anche se magari non come in quello storico 7 novembre 1988 in cui i Nostri stabilirono al torinese Big Club, forse il luogo più “in” all’epoca del rock nostrano, un record di affluenza rimasto insuperato. Quella sera si divideva il nucleo storico – da una parte Miro Sassolini, che lasciava la musica per altri percorsi, artistici e non; dall’altra Fiumani, che dopo aver meditato per qualche tempo di appendere la chitarra al chiodo ci ripenserà, mantenendo in vita la sigla – e nulla sarebbe più stato lo stesso per i Fiorentini. Il Fiorentino, anzi. Sebbene d’adozione, visti natali marchigiani che a non saperlo non indovineresti, spesso com’è l’accento tutto un’aspirata.
I Diaframma che, su pressante invito di Gianni Maroccolo dei Litfiba, firmano nell’autunno ’84 per Pirelli sono giovani ma già navigati e navigando hanno superato indenni, fortificandosene, più di una tempesta. Il debutto dal vivo con tale ragione sociale – “Eravamo tutti appassionati di fotografia e il diaframma è il congegno della macchina con il quale è possibile aumentare o diminuire l’intensità della luce. La nostra idea era fare lo stesso in musica, giocare sui chiaroscuri” – risale al novembre 1981. Prima si chiamavano C.F.S., acronimo per Cicchi-Fiumani-Susini, complessino letteralmente scolastico con il primo alla batteria, il secondo alla chitarra e alla voce, il terzo al basso. La sigla è stata mandata in pensione dopo un paio di anni quando l’organico ha subito un rimescolamento allargandosi da trio a quartetto, con un altro Cicchi, Leandro, a sostituire Susini e l’arrivo del cantante Nicola Vannini. Fiumani è già il leader indiscusso, autore di parole e musica di canzoni che un po’ ingenuamente mettono assieme i suoi amori più recenti, Television, soprattutto Joy Division e forse qualcosa dei Gaznevada, stelle di una scena minuscola, con il beat adorato da bambino e il De Andrè e il Bowie che ne hanno illuminato l’adolescenza. È alla bolognese Italian Records di Oderso Rubini che i quattro fanno avere da lì a qualche mese il loro primo demo, contenente quattro brani, ed è per quel pionieristico marchio che registrano nel dicembre ’81 i due pezzi, Pioggia e Illusione ottica, che vanno a comporre il primo 45 giri. Fosco e visionario e alloggiato in una sepolcrale copertina sulla quale campeggia una foto giovanile del poeta decadente francese Arthur Rimbaud. Nel suo piccolo il singoletto fa il botto, con recensioni entusiastiche su “Rockerilla” e “Il Mucchio” che si tirano dietro come ricaduta i primi inviti a suonare fuori da Firenze e il fatto che le millecinquecento copie stampate vadano velocemente esaurite. Pensando che, come reciterà assai più in là il titolo di un album, “il futuro sorride a quelli come noi”, i ragazzi optano per assolvere subito gli obblighi di leva e bisognerà dunque attendere fino al maggio 1983 (nel frattempo tengono desta l’attenzione con una canzone regalata alla fanzine “Free” e una sulla raccolta “Body Section”) per avere da loro un altro disco. Valorizzato da una splendida veste grafica, il 12” Altrove battezza il catalogo della Contempo, etichetta che fa capo all’omonimo negozio cittadino e suscita altre ovazioni. Oggi, come il 45 giri precedente, passa di mano a cifre ragguardevoli e che peccato che, oltre ai vinili originali, nemmeno si trovi il CD (sempre Contempo, 1989) “Diaframma 8183” che li recuperò. All’appassionato che si accosti oggi all’opera di Federico Fiumani non resta che partire dalla sua prima uscita in tutti i sensi maggiore.
Copertina di nuovo magnifica, “Siberia” resta uno dei reperti maggiori di un rock italiano che si stava rinnovando e qui, come negli esordi adulti di Litfiba (il coevo “Desaparecido”) e CCCP (“Affinità-divergenze tra il compagno Togliatti e noi”, di un anno successivo), vanno rintracciati i principali semi di quanto fiorirà nel decennio seguente. Album impervio e lo stesso seducente, come la già citata e colossale traccia omonima algido in superficie e caloroso appena sotto, con momenti altissimi in una mesmerica Amsterdam, nelle evocative sospensioni di Memoria, in una martellante Specchi d’acqua. Produce magistralmente Ernesto De Pascale e ancora più magistrali sono le interpretazioni che offre il nuovo cantante, Miro Sassolini, di testi che se possibile superano in bellezza le musiche, con un intimismo che, molto più che Rimbaud, echeggia un altro francese, il sommo Paul Verlaine. Però andrò controcorrente e vi dirò che il 33 giri dopo, “3 volte lacrime”, ottobre 1986, se anche non ebbe lo stesso impatto (per “Siberia” si parla di oltre diecimila copie, cifra da capogiro per un’uscita rock indipendente del tempo) e non gode della medesima considerazione fra i critici, resta il reperto migliore di un catalogo che viaggia ormai verso i trenta articoli. È qui che le promesse profferite da “Siberia” vengono mantenute, le intuizioni a tratti acerbe sviluppate appieno. È qui, fra i romanticismi profumati di Mediterraneo di Falso amore e i vortici punk-beat di Libra, fra gli squisiti struggimenti del brano che intitola il tutto e le sincopi serrate di Madre, che prende definitivamente forma il progetto di una novella canzone d’autore. Sul serio: la nuova musica italiana cantata in italiano. Rock ma peculiare, debitrice al versante dark della new wave ma da esso affrancata.
È cambiata la sezione ritmica e per “Boxe”, maggio 1988, cambierà in parte di nuovo evidenziando come i Diaframma siano divenuti di fatto il duo Fiumani/Sassolini. Cambia pure la casa discografica, che non è più un’IRA colpevole di avere dedicato ogni sua risorsa a dei Litfiba in crescita commerciale esponenziale trascurando scioccamente l’altro suo gruppo di spicco. Anzi, una casa discografica nemmeno c’è, “Boxe” è autoprodotto e della distribuzione si incarica Materiali Sonori. Ottimo LP con l’unico torto di essere sostanzialmente un “3 volte lacrime” parte seconda. Eccetto una Adoro guardarti che a momenti punkeggia alla Ramones e una Marta che persino reggaeggia. La canzone più bella è l’ultima, Caldo, un’intensa ballata pianistica. Inopinatamente, la canta Federico. Non sa che presto gli toccherà cantare sempre.
Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.627, ottobre 2006. La foto è di Guido Harari.
A dire il vero a parte i Blind Alley non ricordo tuoi articoli su artisti italiani. Siccome tengo in grande considerazione i tuoi pareri vorrei qualche articolo in più.
Per esempio mi piacerebbe sapere cosa pensi dell’ultimo Baustelle.
Per limitarmi a questo blog e andando a memoria ho scritto anche di Sick Rose, Calibro 35 e Sacri Cuori.
Con i Baustelle mi sono fermato al primo album. E non ho mai avvertito come impellente il bisogno di approfondire.
Oh oh… adesso ricordo. Ecco perché sei il Venerato…
Sui Baustelle era tanto per sapere, l’ultimo disco non mi piace per vari motivi, volevo sapere cosa ne pensavi ma penso di averlo intuito.
Diamante grezzo, questa mia mano e’ nuda,
diamante grezzo, io sono niente o meno..
si, ma dentro a ogni anfratto ero sicuro di averti
lungo strade e sentieri, nel mio respiro
che sapeva di un bacio ero sicuro di averti.
“3 volte lacrime” è stato sempre il mio Diaframma prefrito.
Uno dei tre album italiani degli anni ’80; gli altri due: “17 re” e “Affinità-Divergenze”.
E non diciamo nulla del contemporaneo “Trasfigurazione” del Carillon del Dolore ?
Uh… Sei serio o ironico? Perché ricordo bene cosa si pensava all’epoca di quel gruppo e come lo si era soprannominato fra gli addetti ai lavori.
Ovvero? 🙂
Sono curiosissimo
Ehm… i Petali dei miei C******i.
Ma dai!!! Pensa che quando li ho ascoltati laprima volta,nel 93, avevo 18 anni e me ne innamorai follemente!
Riascoltati qualche anno fa, grazie a una ristampa, mi sono parsi decisamente meglio di quanto non ricordassi. Certo leggeri non erano e pare (ma erano voci che non ho mai avuto occasione di verificare di persona e quindi da prendere con beneficio di inventario) che se la tirassero assai…
I primi due lp sono tra le cose più care che ricordo di allora.
Poi una lunga carriera fatta di alti e bassi, ma è soprattutto in concerto che Federico dà il meglio di sè! Una bestia posseduta dal punk rock sostenuta da una coppia ritmica ormai consolidata da tempo. E poi i fan affezionati che lo seguono in lungo e in largo e cantano tutte le canzoni a memoria.
Belin….uno spettacolo!
Che bell’articolo, rende giustizia ai Diaframma/Fiumani che ancora oggi .. ..insomma l’album del 2012 è un signor disco..magari non da strapparsi i capelli ma è come un caro vecchio amico che quando viene a trovarti non ti delude mai .. oltre alla sua freschezza on stage, il suo essere anti-divo per definizione.. esemplare per tutti i gggiovani hipsters di oggi che si ritrovano in quel concetto vago e spesso vacuo di indie italiano