Lo scorso venerdì Sylvester Stewart, in arte Sly Stone, ha compiuto settant’anni e pare incredibile dirlo, pare pazzesco che ci sia arrivato uno che ha avuto la vita che ha avuto lui. Anche se un po’ in ritardo, tanti auguri Sly. E pazienza se l’album di cui ancora favoleggiavo in questo articolo di sette anni or sono ha poi effettivamente visto la luce solo nel 2011 e si è rivelato terribile, pazienza se dell’artefice ha seppellito e non celebrato il genio. Tutto ciò che fu in precedenza, nessuno fortunatamente potrà mai cancellarlo.
Contrordine, compagni: nessuna traccia di un nuovo LP di Sly Stone, che si attende da ventiquattro anni e di cui si fantastica dall’87 e, con insistenza maggiore, dal ’99. Ciò che è fuori è una raccolta di suoi classici “reimmaginati” da una schiera di odierne star. Ottima scusa in ogni caso “Different Strokes By Different Folks”, originale nell’idea di partenza – una via di mezzo fra la raccolta di remix e quella “tributo” – e brillante negli esiti, per tornare a parlare di una delle personalità più innovative della musica popolare del Novecento: un genio caduto sulla strada di un sogno, lo stesso che indimenticabilmente annunciò di avere fatto Martin Luther King, tramutatosi in un personale incubo. Come dire: dall’utopia svelatasi letteralmente tale del dissolvimento delle barriere razziali a un delirio di egocentrismo alimentato dalla tossicodipendenza. Probabilmente dal nostro eroe – la sua sì che sarebbe una resurrezione clamorosa: altro che quelle di un Solomon Burke o di un Al Green, oltretutto mai usciti davvero di scena, solo variamente defilatisi – non ascolteremo mai un disco nuovo e potrebbe essere meglio così. Giacché le ormai remote ultime uscite furono imbarazzanti. Ma anche se per pazza ipotesi quest’uomo – che, non dimentichiamolo, ha da poco compiuto sessantatré anni – avesse ancora in serbo qualcosa di simile a un capolavoro non ne risulterebbe a motivo di ciò ulteriormente ingigantita una vicenda artistica già enorme. Sarebbe giusto un benvenuto post scriptum. Come “happy ending” per niente minore, ci si accontenterebbe di saperlo infine pacificato, orgoglioso di un’eredità rispetto alla quale l’antologia di cui sopra non svela che la proverbiale punta dell’iceberg.
Era il 15 marzo 1943 quando Sylvester Stewart vedeva la luce e il 1953 quando genitori e figliolanza si trasferivano dal Texas in California, dalle parti della liberale, per certo più integrata razzialmente di quasi tutto il resto dell’Unione, San Francisco. Lì il ragazzino cresce quasi al riparo dal pregiudizio, in un’atmosfera culturale feconda in cui la precoce passione per la musica (al Vallejo Junior College studia composizione e tromba) ha modo di svilupparsi al meglio e non limitandosi agli ambiti tradizionali per un nero, da una parte il gospel, controaltare un blues che si sta evolvendo in errebì e da lì al soul non sarà che un ulteriore passetto. Famiglia canterina: i ’50 devono ancora sfumare nei ’60 quando Sylvester dà vita con il fratello Freddie agli Stewart Brothers. Incidono un paio di singoli in stile doo wop e uno diventa un discreto hit locale. Si muovono nello stesso ambito i Viscanes, cui si unisce diciassettenne ed è lì che incontra un altro nome chiave di questa storia, il sassofonista Jerry Martini, registrando con loro altri tre 45 giri. L’anno dopo il giovanotto comincia a lavorare come dj alla KSOL di San Francisco. Parecchio doo wop nella sua programmazione ma pure rock’n’roll e folk elettrificato, cui si sta appassionando sempre di più, e sono scelte inconsuete per un’emittente nera. Nondimeno il suo programma è a tal punto gradito che si fa presto avanti per ingaggiarlo la KDIA di Oakland, in quel momento la numero uno delle radio soul statunitensi. Da cosa nasce cosa: è in rapporto quotidiano con questo e quel discografico e la Autumn, etichetta sempre di Frisco piccola ma in prepotente ascesa, gli offre un posto da produttore. Lavorerà con i Mojo Men, con i Knight Riders e soprattutto con i Beau Brummels, rivelandosi cruciale per il grande successo riscosso da questi ultimi, e sarà fra il resto lo scopritore dei Great Society di tale Grace Slick, prossima voce e stella dei Jefferson Airplane. Non è tuttavia quello di un Phil Spector del folk-rock il suo futuro. Vagheggia la gloria in prima persona e, ribattezzatosi Sly Stone, inizia a coglierne qualche scampolo con una serie di 45 giri da solista (molti recuperabili sulla raccolta “Seventh Soul”, un Vampisoul del 2003 non esattamente imprescindibile). Si è fatto il 1966 quando mette in piedi gli Stoners, embrione da cui rapidamente si sviluppa la creatura Sly & The Family Stone. Già l’inconsueta formazione esplicita la novità, l’unicità di un progetto che vuole rivolgersi a un pubblico misto con una musica mista, soul e rhythm’n’blues tendente al funk in feconda comunione con beat e un rock che annuncia la psichedelia montante, il tutto iniettato di jazz e latinismi. Sono in sei oltre al leader, che si divide fra canto, chitarra e tastiere, e che due siano donne non relegate nel coreografico e già stereotipato ruolo di coriste – al piano c’è la sorella Rosie, alla tromba Cynthia Robinson – è di per sé una rivoluzione. Se possibile più rivoluzionario per i tempi risulta che in organico figurino due bianchi, Jerry Martini (rieccolo) e il batterista Greg Errico. Completano Freddie, alla seconda chitarra, e il bassista Larry Graham, uno che avrà un’importante e splendida carriera in proprio e del quale la rivista “Bass Player” molti anni dopo scriverà, a ragione, che “probabilmente il singolo fattore più importante nell’affermazione del funk come idioma musicale fu il pollice di Larry Graham”. Sono uno spettacolo letteralmente inaudito Sly & The Family Stone e in questo contano relativamente poco i coloratissimi abiti di scena e persino che musica così non si sia mai sentita: è il concetto di profonda integrazione che con il loro semplice esistere esprimono a farne una rappresentazione vivente del fatto che, per dirla con Zimmie, “the times they are a-changin’”. E per metà in questo risiede il loro essere una faccenda epocale: ecco in parte perché li ricordiamo.
Poi – è chiaro – per noi che dal vivo ce li siamo potuti gustare giusto vicariamente, nei resoconti di quelli che c’erano o in qualche filmato (loro i trionfatori maggiori di Woodstock), sono gli album a contare: un paio di assolute pietre miliari, due pressoché altrettanto imprescindibili, due o tre ancora che si possono comunque avere ed esserne lieti. Si incasella in quest’ultima categoria l’esordio un po’ frettoloso che la Famiglia assembla nel 1967 dopo che Sly, abilissimo propagandista di se stesso, ha persuaso David Kapralik della Epic che musica ed estetica del suo nuovo gruppo sono destinati a fare impazzire i giovani d’America, bianchi anglosassoni, colorati o ispanici che siano. “A Whole New Thing” dispensa soul di buona fattura ma abbastanza canonico e notevole è lo iato per stile e tensione dalla prima delle due bombe che i Nostri sganciano nel fatidico ’68: “Dance To The Music”, strepitoso in una title-track nella quale su una ritmica serrata si rincorrono fiati stridenti e voci gioiose, una chitarra rock e un organo errebì, così come nei favolosi pasticci di una Higher che è bignamino black di impareggiabile efficacia sintetica o di una Dance To The Medley e di una Color Me True nelle quali il gospel si metamorfizza in quintessenziale psichedelia; poi “Life”, meno coeso ma con momenti irrinunciabili chiamati Dynamite (che è un andare oltre James Brown) e Harmony (che è un anticipare lo Stevie Wonder del successivo decennio). Volendosi limitare agli indispensabili, od ognimmodo da lì partire, al neofita totale sono i due LP seguenti che caldamente si raccomandano, quelli i capolavori imprescindibili. Un anno di quasi silenzio li separa, essendo il quasi un singolo monumentale come Thank You (Fallettinme Be Mice Elf Again), propulso dal primo basso slappato a memoria d’uomo. Ma molto, molto di più, un’era geologica o due, pare distanziare il 1969 di un solare “Stand!”, centodue settimane filate in classifica (grazie principalmente al funky-soul rurale e puerile nel senso alto del termine di Everyday People e a una traccia omonima melodicamente invincibile) dal 1971 di “There’s A Riot Goin’ On”, livido come una copertina in cui la bandiera a stelle e strisce è abbrunita dall’incendio divampato nei ghetti alla constatazione di quanto incompiuta sia rimasta la lotta per i diritti civili, mentre piogge di napalm stanno cadendo sul Vietnam. Non spenderò ulteriori parole per un disco per raccontare il quale fiumi di inchiostro sono scorsi e foreste sono state disboscate, assurto con il coevo “What’s Going On” di Marvin Gaye a simbolo della fine delle speranze di un mondo più giusto suscitate dagli anni ’60, se non per sottolineare che nell’esatto mentre in cui le armate hippie rompevano le righe in una disordinata rotta andavano in malora la vita privata di Sly e di riflesso la sua Famiglia, in un florilegio di incidenti da Rock’n’Roll Babylon. Nel 1973 “Fresh” ingannerà con una serenità apparentemente ritrovata e una scrittura ancora felice. Dal non più che passabile “Small Talk”, del ’74, la discesa umana e artistica si farà rovinosa, disperante parabola di autodistruzione che da tempo si dice che Spike Lee mediti di portare al cinema. Vedremo?
Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.622, maggio 2006.