Archivi del mese: marzo 2013

I settant’anni di Sly Stone

Lo scorso venerdì Sylvester Stewart, in arte Sly Stone, ha compiuto settant’anni e pare incredibile dirlo, pare pazzesco che ci sia arrivato uno che ha avuto la vita che ha avuto lui. Anche se un po’ in ritardo, tanti auguri Sly. E pazienza se l’album di cui ancora favoleggiavo in questo articolo di sette anni or sono ha poi effettivamente visto la luce solo nel 2011 e si è rivelato terribile, pazienza se dell’artefice ha seppellito e non celebrato il genio. Tutto ciò che fu in precedenza, nessuno fortunatamente potrà mai cancellarlo.

Sly Stone

Contrordine, compagni: nessuna traccia di un nuovo LP di Sly Stone, che si attende da ventiquattro anni e di cui si fantastica dall’87 e, con insistenza maggiore, dal ’99. Ciò che è fuori è una raccolta di suoi classici “reimmaginati” da una schiera di odierne star. Ottima scusa in ogni caso “Different Strokes By Different Folks”, originale nell’idea di partenza – una via di mezzo fra la raccolta di remix e quella “tributo” – e brillante negli esiti, per tornare a parlare di una delle personalità più innovative della musica popolare del Novecento: un genio caduto sulla strada di un sogno, lo stesso che indimenticabilmente annunciò di avere fatto Martin Luther King, tramutatosi in un personale incubo. Come dire: dall’utopia svelatasi letteralmente tale del dissolvimento delle barriere razziali a un delirio di egocentrismo alimentato dalla tossicodipendenza. Probabilmente dal nostro eroe – la sua sì che sarebbe una resurrezione clamorosa: altro che quelle di un Solomon Burke o di un Al Green, oltretutto mai usciti davvero di scena, solo variamente defilatisi – non ascolteremo mai un disco nuovo e potrebbe essere meglio così. Giacché le ormai remote ultime uscite furono imbarazzanti. Ma anche se per pazza ipotesi quest’uomo – che, non dimentichiamolo, ha da poco compiuto sessantatré anni – avesse ancora in serbo qualcosa di simile a un capolavoro non ne risulterebbe a motivo di ciò ulteriormente ingigantita una vicenda artistica già enorme. Sarebbe giusto un benvenuto post scriptum. Come “happy ending” per niente minore, ci si accontenterebbe di saperlo infine pacificato, orgoglioso di un’eredità rispetto alla quale l’antologia di cui sopra non svela che la proverbiale punta dell’iceberg.

Era il 15 marzo 1943 quando Sylvester Stewart vedeva la luce e il 1953 quando genitori e figliolanza si trasferivano dal Texas in California, dalle parti della liberale, per certo più integrata razzialmente di quasi tutto il resto dell’Unione, San Francisco. Lì il ragazzino cresce quasi al riparo dal pregiudizio, in un’atmosfera culturale feconda in cui la precoce passione per la musica (al Vallejo Junior College studia composizione e tromba) ha modo di svilupparsi al meglio e non limitandosi agli ambiti tradizionali per un nero, da una parte il gospel, controaltare un blues che si sta evolvendo in errebì e da lì al soul non sarà che un ulteriore passetto. Famiglia canterina: i ’50 devono ancora sfumare nei ’60 quando Sylvester dà vita con il fratello Freddie agli Stewart Brothers. Incidono un paio di singoli in stile doo wop e uno diventa un discreto hit locale. Si muovono nello stesso ambito i Viscanes, cui si unisce diciassettenne ed è lì che incontra un altro nome chiave di questa storia, il sassofonista Jerry Martini, registrando con loro altri tre 45 giri. L’anno dopo il giovanotto comincia a lavorare come dj alla KSOL di San Francisco. Parecchio doo wop nella sua programmazione ma pure rock’n’roll e folk elettrificato, cui si sta appassionando sempre di più, e sono scelte inconsuete per un’emittente nera. Nondimeno il suo programma è a tal punto gradito che si fa presto avanti per ingaggiarlo la KDIA di Oakland, in quel momento la numero uno delle radio soul statunitensi. Da cosa nasce cosa: è in rapporto quotidiano con questo e quel discografico e la Autumn, etichetta sempre di Frisco piccola ma in prepotente ascesa, gli offre un posto da produttore. Lavorerà con i Mojo Men, con i Knight Riders e soprattutto con i Beau Brummels, rivelandosi cruciale per il grande successo riscosso da questi ultimi, e sarà fra il resto lo scopritore dei Great Society di tale Grace Slick, prossima voce e stella dei Jefferson Airplane. Non è tuttavia quello di un Phil Spector del folk-rock il suo futuro. Vagheggia la gloria in prima persona e, ribattezzatosi Sly Stone, inizia a coglierne qualche scampolo con una serie di 45 giri da solista (molti recuperabili sulla raccolta “Seventh Soul”, un Vampisoul del 2003 non esattamente imprescindibile). Si è fatto il 1966 quando mette in piedi gli Stoners, embrione da cui rapidamente si sviluppa la creatura Sly & The Family Stone. Già l’inconsueta formazione esplicita la novità, l’unicità di un progetto che vuole rivolgersi a un pubblico misto con una musica mista, soul e rhythm’n’blues tendente al funk in feconda comunione con beat e un rock che annuncia la psichedelia montante, il tutto iniettato di jazz e latinismi. Sono in sei oltre al leader, che si divide fra canto, chitarra e tastiere, e che due siano donne non relegate nel coreografico e già stereotipato ruolo di coriste – al piano c’è la sorella Rosie, alla tromba Cynthia Robinson – è di per sé una rivoluzione. Se possibile più rivoluzionario per i tempi risulta che in organico figurino due bianchi, Jerry Martini (rieccolo) e il batterista Greg Errico. Completano Freddie, alla seconda chitarra, e il bassista Larry Graham, uno che avrà un’importante e splendida carriera in proprio e del quale la rivista “Bass Player” molti anni dopo scriverà, a ragione, che “probabilmente il singolo fattore più importante nell’affermazione del funk come idioma musicale fu il pollice di Larry Graham”. Sono uno spettacolo letteralmente inaudito Sly & The Family Stone e in questo contano relativamente poco i coloratissimi abiti di scena e persino che musica così non si sia mai sentita: è il concetto di profonda integrazione che con il loro semplice esistere esprimono a farne una rappresentazione vivente del fatto che, per dirla con Zimmie, “the times they are a-changin’”. E per metà in questo risiede il loro essere una faccenda epocale: ecco in parte perché li ricordiamo.

Poi – è chiaro – per noi che dal vivo ce li siamo potuti gustare giusto vicariamente, nei resoconti di quelli che c’erano o in qualche filmato (loro i trionfatori maggiori di Woodstock), sono gli album a contare: un paio di assolute pietre miliari, due pressoché altrettanto imprescindibili, due o tre ancora che si possono comunque avere ed esserne lieti. Si incasella in quest’ultima categoria l’esordio un po’ frettoloso che la Famiglia assembla nel 1967 dopo che Sly, abilissimo propagandista di se stesso, ha persuaso David Kapralik della Epic che musica ed estetica del suo nuovo gruppo sono destinati a fare impazzire i giovani d’America, bianchi anglosassoni, colorati o ispanici che siano. “A Whole New Thing” dispensa soul di buona fattura ma abbastanza canonico e notevole è lo iato per stile e tensione dalla prima delle due bombe che i Nostri sganciano nel fatidico ’68: “Dance To The Music”, strepitoso in una title-track nella quale su una ritmica serrata si rincorrono fiati stridenti e voci gioiose, una chitarra rock e un organo errebì, così come nei favolosi pasticci di una Higher che è bignamino black di impareggiabile efficacia sintetica o di una Dance To The Medley e di una Color Me True nelle quali il gospel si metamorfizza in quintessenziale psichedelia; poi “Life”, meno coeso ma con momenti irrinunciabili chiamati Dynamite (che è un andare oltre James Brown) e Harmony (che è un anticipare lo Stevie Wonder del successivo decennio). Volendosi limitare agli indispensabili, od ognimmodo da lì partire, al neofita totale sono i due LP seguenti che caldamente si raccomandano, quelli i capolavori imprescindibili. Un anno di quasi silenzio li separa, essendo il quasi un singolo monumentale come Thank You (Fallettinme Be Mice Elf Again), propulso dal primo basso slappato a memoria d’uomo. Ma molto, molto di più, un’era geologica o due, pare distanziare il 1969 di un solare “Stand!”, centodue settimane filate in classifica (grazie principalmente al funky-soul rurale e puerile nel senso alto del termine di Everyday People e a una traccia omonima melodicamente invincibile) dal 1971 di “There’s A Riot Goin’ On”, livido come una copertina in cui la bandiera a stelle e strisce è abbrunita dall’incendio divampato nei ghetti alla constatazione di quanto incompiuta sia rimasta la lotta per i diritti civili, mentre piogge di napalm stanno cadendo sul Vietnam. Non spenderò ulteriori parole per un disco per raccontare il quale fiumi di inchiostro sono scorsi e foreste sono state disboscate, assurto con il coevo “What’s Going On” di Marvin Gaye a simbolo della fine delle speranze di un mondo più giusto suscitate dagli anni ’60, se non per sottolineare che nell’esatto mentre in cui le armate hippie rompevano le righe in una disordinata rotta andavano in malora la vita privata di Sly e di riflesso la sua Famiglia, in un florilegio di incidenti da Rock’n’Roll Babylon. Nel 1973 “Fresh” ingannerà con una serenità apparentemente ritrovata e una scrittura ancora felice. Dal non più che passabile “Small Talk”, del ’74, la discesa umana e artistica si farà rovinosa, disperante parabola di autodistruzione che da tempo si dice che Spike Lee mediti di portare al cinema. Vedremo?

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.622, maggio 2006.

9 commenti

Archiviato in anniversari, archivi

Krautrock Files (6): Ash Ra Tempel

Durava davvero poco l’avventura di “Magic Fuzz” (“Music and Artifacts before 73” recitava un sottotitolo in copertina, “Eccentricità musicali visive letterarie” un altro all’interno): un numero zero e poi altri due. Per quello che nessuno di noi (incluso probabilmente John Vignola, che “Magic Fuzz” se l’era inventata) sapeva ancora essere l’ultimo fascicolo scrivevo questo articolo che oggi recupero.

Ash Ra Tempel

Ve ne siete accorti? È in corso un krautrock revival. Tali e tanti ne sono i sintomi che anche per i più distratti sta diventando difficile ignorarlo. È uscito un bel libro di Julian Cope sull’argomento. Non vi è intervista nella quale qualcuno dei protagonisti di quella composita scena, sempre più spesso definita post-rock, che va dai Tortoise ai Labradford, passando per gli Stereolab, alla fatidica domanda sulle influenze non snoccioli mezza dozzina o su di lì di nomi teutonici che da troppo tempo erano patrimonio solo degli archeologi del vinile. Stessa cosa accade quando a venire intervistati sono esponenti dell’odierna musica elettronica. Qualunque musica elettronica, dalla ambient alla techno. I gruppi più gettonati? In ordine sparso, Can e Kraftwerk, Tangerine Dream e Neu!, Faust e Amon Düül II e Cluster. E Ash Ra Tempel, naturalmente.

Che furono una band originalissima i cui lavori, a oltre vent’anni dall’uscita, suonano ancora sconcertantemente moderni. Di quanti altri primi attori del rock a cavallo fra la seconda metà dei ’60 e la prima dei ’70, terreno di indagine privilegiato di questa rivista, si può dire la stessa cosa? Velvet Underground, quasi tutti i tedeschi succitati, pochi altri. Siccome penso – spero – che “Magic Fuzz” nel rock “prima del 1973” desideri innanzitutto cercare i prodromi dell’oggi, senza abbandonarsi a fregole nostalgiche né men che mai diventare terreno di caccia di quei tristanzuoli che misurano la validità di un disco in termini di rarità, ho pensato bene di buttar giù qualche cartella sul gruppo che fu di Manuel Göttsching. Negli ultimi anni i suoi primi cinque LP (quelli giusti, quelli veri) (ah, il gusto della citazione colta!) sono tornati (relativamente) reperibili, grazie alle provvidenziali ristampe in CD della francese Spalax. Trovarle non è facilissimo, cercarle un obbligo.

Il protagonista principale della vicenda Ash Ra Tempel, nonché l’unico a traversarla dal principio alla fine, fu giustappunto il testé nominato Manuel Göttsching, chitarrista di solida tecnica che una straordinaria inventiva ha quasi sempre salvato dalle tentazioni narcisistiche del virtuosismo fine a se stesso. Costui sul finire degli anni ’60 suonava nella Steeple Chase Bluesband, gruppo di Berlino dedito a una riscrittura lisergica della musica del diavolo che fu seminario anche per altri due futuri adepti del Tempio di Ash Ra: il bassista Hartmut Henke, che resterà in squadra fino a “Join Inn” compreso, e il batterista Wolfgang Muller, che rimarrà giusto il tempo necessario a scolpire la pietra miliare “Schwingungen”. Siccome la pur intrigante rilettura del blues – alla Jerry Garcia, tramandano le cronache; ignoro se esistano testimonianze su vinile o altro supporto – della Steeple Chase Bluesband non soddisfaceva i suoi empiti visionari, il Nostro pensò bene di andare a fare la sua cosa altrove. Con Henke al basso e Klaus Schulze, transfuga dai Tangerine Dream del grandioso “Electronic Meditation”, assiso dietro piatti e tamburi nacquero così gli Ash Ra Tempel. La loro vicenda si consumerà nel breve arco di tre anni generosi di album – ben cinque, tutti licenziati dalla Ohr di Rolf Urlich Kaiser – e intuizioni fulminanti.

L’omonimo “Ash Ra Tempel”, pubblicato nel 1971, fu biglietto da visita sensazionale come pochi nella storia del rock. L’immagine egizia che campeggia sul davanti della lussuosa confezione sembra promettere il disvelarsi di occulte verità a chi, aperta la copertina che si spalanca a mo’ di finestra, sappia addentrarsi nelle stanze cui quelle porte della percezione danno accesso. La musica che si leva dai solchi a un quarto di secolo dalla sua incisione stupisce ancora. Suona moderna perché senza tempo, al punto che potrebbe arrivare dal futuro. Come sempre accade con l’arte che è particolarmente innovativa, non viene però dal nulla. Anzi! Le sue radici affondano nella Detroit degli anni ’60, quella degli MC5 e degli Stooges ma anche, forse soprattutto, quella del jazz extraterrestre di Sun Ra, e nella Londra della prima ubriacatura lisergica. Nella psichedelia californiana. Naturalmente, visti i precedenti di Göttsching ed Henke, nel blues. Come giustamente annota il Magico Julian, il Manuel degli stilemi del blues ha la fluida, perfetta padronanza di un Eric Clapton ma al contrario del Manolenta non cade mai nell’ingessata accademia: sporca le dodici battute con angolari assalti di gusto squisitamente loureediano e puro rumore bianco che anticipa di otto anni buoni il Keith Levene del piliano “Metal Box”. Detto in altri termini: un Genio.

La prima facciata è occupata dai 19’40” di Amboss, che parte con un incastro di cimbali e basso, diviene tellurica quando la batteria di Schulze irrompe in scena con fare predatorio e magmatica quando la chitarra di Göttsching comincia a srotolare stordenti spirali di feedback. Prendete We Will Fall degli Stooges, immaginatela dieci volte più alienata e alienante e avrete una vaga idea di Amboss. I 25’40” della Macchina dei Sogni, la Traummaschine, che monopolizza il secondo lato offrono un adeguato chill out dopo una sì stremante esperienza: il Klaus lavora di congas, il Manuel di fino sulla sei corde, una misteriosa voce femminile ci fa sognare eden islamici.

L’anno dopo i Nostri danno alle stampe “Schwingungen”. Si potrebbe pensare che avendo già consegnato agli archivi un debutto epocale la loro parabola creativa sarà d’ora in avanti in discesa, tanto più che hanno perso per strada Schulze, impegnato anima e corpo in quel delirante progetto elettronico/sinfonico intitolato “Irrlicht”. E invece no. È   proprio questo secondo LP il capolavoro degli Ash Ra Temple: un disco “da isola deserta”, datemi retta. Göttsching ed Henke sono se possibile ancora più ispirati nei loro interscambi rispetto all’album precedente, Muller riesce nel miracolo di non fare rimpiangere Schulze e un manipolo di ospiti arricchisce di colori la tavolozza Ash Ra. Su uno di questi esterni vorrei spendere due parole: si fa chiamare, per un fantastico scherzo del caso, John L. e non si sapesse che è impossibile sia lui si scommetterebbe qualunque cifra che è John Lydon (che al tempo credo frequentasse la media superiore) sotto (appena) mentite spoglie. La sua voce graffia malevola come quella del futuro cantante di Sex Pistols e Public Image Ltd., è torbida e sarcastica, disperata e colma di poesia. Nell’iniziale Look At Your Sun, un blues lentissimo e dilatato, sgrana la frase “we are all one” a mo’ di mantra sull’urlante fuzz innestato da Göttsching. Ma è in Flowers Must Die, che completa la prima facciata, che la sua allucinata performance tocca vertici inenarrabili.

La vedo quando ritorno/dal mio diurno sogno lisergico/ svettare/una foresta di vetro e neon/con un nome infelice: Città/I fiori devono morire…/Vorrei essere una pietra. Inanimata, inconsapevole/Non un essere a sangue caldo nella città.

Manuel Gottsching

La musica sotto è un presagio di apocalisse. O forse l’apocalisse c’è già stata e questo è il tutt’altro che celestiale giorno dopo. Frullate insieme Sun Ra, i Velvet più decadenti, i Doors di The End, i P.I.L. dei primi tre album e questo otterrete: Flowers Must Die, dodici minuti e mezzo indimenticabili. Sulla seconda facciata si dispiega Suche & Liebe, rarefatta, distesa, echeggiante in più di un momento i Pink Floyd di Set The Controls For The Heart Of The Sun. La quiete dopo la tempesta. Il nirvana.

Insuperabile “Schwingungen”, i tre-LP-tre messi in pista dagli Ash Ra Tempel l’anno dopo basterebbero comunque a farne un capitolo importante del romanzo del rock dei ’70. In ordine di incisione (non di pubblicazione, il secondo precedette il primo nei negozi) sono “Seven Up”, “Join Inn” e “Starring Rosi”.

“Seven Up” è uno dei dischi più chiacchierati e mitizzati di sempre, vuoi per la particolare formazione “aperta” del gruppo, vuoi per le ancora più particolari circostanze nelle quali fu inciso, vuoi più che altro per la presenza nelle insolite vesti di cantante di Timothy Leary, Guru Psichedelico Sommo, in fuga dalla (in)giustizia americana, intorno al quale, nel suo rifugio elvetico, si era radunata una bella corte dei miracoli. Al travaglio che lo fece venire alla luce Cope dedica adeguato spazio nel suo Krautrocksampler e a quelle pagine vi rimando (tanto dovete comprarvelo, sapete?). Qui mi limito a rilevare che “Seven Up” è un album bello ma un po’ sopravvalutato, un pelino troppo mitizzato. Delle due lunghe suite nelle quali si articola, Space è la più convincente: un bluesaccio cosmico che a un certo punto del suo svolgersi precipita in un buco nero dal quale emerge trasfigurato in un garage-rockabilly quasi alla Cramps (ascoltare per credere), salvo poi, dopo altre peripezie, tornare esattamente laddove era partito. Time è una Suche & Liebe di costituzione più robusta, nella quale il brano pinkfloydiano di riferimento è però A Saucerful Of Secrets.

“Join Inn” vide il provvisorio rientro in squadra di Klaus Schulze, è l’ultimo LP del Tempio con Hartmut Henke a officiare e il primo in cui si ode la voce ieratica di Rosi Muller. Freak’n’Roll (19’15”) è un Frankenstein rock che solo dei matti tedeschi potevano concepire: Stooges e Quicksilver insieme! In-cre-di-bi-le. Quanto a Jenseits (24’18”), disegna sognanti fondali quasi tangeriniani.

Se “Seven Up” è di norma incensato al di là dei suoi meriti, “Starring Rosi” è poco considerato (anche dal Julian). È invece un bel disco, non originale come i suoi predecessori, non imprescindibile come i primi due LP, però godibilissimo. Si decolla con Laughter Loving, un giocoso strumentale dominato da una chitarra di stampo prettamente californiano, e si atterra con Bring Me Up, ponte fra il blues e – udite udite – la house. Addirittura. In mezzo altri cinque brani, decisamente più concisi del solito, fra i quali mi piace ricordare Cosmic Tango, che mantiene le promesse fatte dal titolo.

Mutato il nome del gruppo in Ashra, Göttsching lo piloterà verso gli anni ’80 con una serie di 33 giri innocui e trascurabili. Per niente trascurabile è però quel “Inventions For Electric Guitar” che nel 1975 il Nostro pubblicò a nome suo e di fantomatici Ash Ra Tempel 6: una cavalcata chitarrista nella quale più d’uno ha individuato l’atto di nascita della techno.

Figlio del blues, di Sun Ra e dei primi Pink Floyd, papà dei P.I.L. e della techno: è stato tutto ciò Manuel Göttsching. Giudicate voi se ciò basta o no a farne uno dei capisaldi della storia della nostra musica. Non solo “before 1973”.

Pubblicato per la prima volta su “Magic Fuzz”, n.2, estate 1996.

6 commenti

Archiviato in archivi

Velvet Gallery (17)

Uno dei gruppi più estrosi degli anni ’80 e non solo degli anni ’80, i Camper Van Beethoven: lo pensavo al tempo, ne sono ancora assolutamente persuaso oggi.

Camper Van Beethoven 1

Camper Van Beethoven 2

9 commenti

Archiviato in archivi

Bruce Springsteen 1973-1995 (10): Human Touch / Lucky Town

Bruce Springsteen - Human Touch & Lucky Town

Human Touch. Soul Driver. 57 Channels (And Nothin’ On). Cross My Heart. Gloria’s Eyes. With Every Wish. Roll Of The Dice. Real World. All Or Nothin’ At All. Man’s Job. I Wish I Were Blind. The Long Goodbye. Real Man. Pony Boy.

Columbia, marzo 1992 – Registrato presso gli A&M Studios di Los Angeles – Tecnici del suono: Bob Clearmountain, Toby Scott – Produttori: Bruce Springsteen, Jon Landau, Chuck Plotkin, Roy Bittan.

Better Days. Lucky Town. Local Hero. If I Should Fall Behind. Leap Of Faith. The Big Muddy. Living Proof. Book Of Dreams. Souls Of The Departed. My Beautiful Reward.

Columbia, marzo 1992 – Registrato presso i Thrill Hill Recording e gli A&M Studios di Los Angeles – Tecnici del suono: Bob Clearmountain, Toby Scott – Produttori: Bruce Springsteen, Jon Landau, Chuck Plotkin, Roy Bittan.

Nel 1989 Bruce Springsteen divorziò tre volte. Le prime due in gennaio, quando si separò da Julianne Phillips, un matrimonio durato poco più di tre anni e mezzo e, si dice, andato in crisi dopo pochi mesi, e contemporaneamente lasciò il nativo New Jersey per trasferirsi in California con la sua nuova compagna, Patti Scialfa. La terza separazione, resa pubblica il 13 novembre, fu scioccante per i fan forse più che per i protagonisti: venne ufficializzata, dopo oltre diciassette anni, la fine della collaborazione fra Springsteen e la E Street Band. Uno dei membri del gruppo, l’organista Danny Federici, suonava con il leader da addirittura ventidue anni, dai tempi degli Steel Mill. I fan non la presero bene; almeno uno dei componenti della storica formazione, il sassofonista Clarence Clemons, neppure.

Si scrisse molto sulle ragioni di un divorzio sorprendente (immaginate, per dire, Bono e The Edge che mettono alla porta Adam Clayton e Larry Mullen: ecco) e tutti giunsero alla conclusione che Bruce Springsteen, nella sua ansia perenne di mettersi in discussione, desiderasse sperimentare percorsi musicali inediti e per farlo avesse bisogno di uno scarto traumatico rispetto al passato. Si aspettò con trepidazione la sua mossa successiva. L’attesa, tanto per cambiare, si rivelerà lunga.

Il 1990 e il 1991 furono scanditi da un’alternanza di notizie riguardanti il privato, il matrimonio con Patti Scialfa e la nascita di un bambino e di una bambina, e di indiscrezioni sulle sedute di incisione del successore di “Tunnel Of Love”, con Springsteen al lavoro in vari studi losangeleni con turnisti di fama come il bassista Randy Jackson, il batterista Jeff Porcaro, il trombettista Mark Isham e il tastierista Ian McLagan. Si venne a sapere che in sala d’incisione avevano fatto capolino anche il cantante Sam Moore, del duo soul Sam & Dave, e una vecchia conoscenza dell’epoca di “Greetings” e “The Wild”, David Sancious. Fra lo stupore generale, dopo un po’ Springsteen ritornò parzialmente sulla decisione di tagliare i ponti con la E Street Band richiamando al suo fianco Roy Bittan. E stupendo ancora di più sul finire di marzo del 1992 mandò nei negozi non uno ma due LP nuovi, nessuno dei quali inscenava la rivoluzione prevista. Ancora una volta aveva spiazzato tutti.

“Human Touch” è sorprendente ma spesso in negativo e dell’intera discografia del Nostro è certamente il titolo cui si può rinunciare con minori rimpianti. Delude perché diverse delle sue canzoni sono al di sotto degli elevatissimi standard qualitativi cui Springsteen aveva abituato (in altri tempi avrebbero faticato a trovare una collocazione come lati B) e perché manca di coesione (difetto, questo sì, inedito in un lavoro dell’uomo di Freehold). Soprattutto, delude perché resta a metà del guado: né nella linea della tradizione cui Springsteen fa da sempre riferimento, né veramente innovativo. Cade rovinosamente quando si confronta con il rock cosiddetto AOR: All Or Nothin’ At All potrebbe essere di Bryan Adams e il pasticciaccio fra soul e pop di Real Man è, per considerazione pressoché unanime, la canzone più brutta dell’intero repertorio ufficiale springsteeniano. Né convincono Soul Driver e Real World, pur’esse venate di soul  ma sovraccariche negli arrangiamenti, come la title-track, gradevole  ma di lunghezza eccessiva per la poca sostanza delle sue idee melodiche. Non persuade nemmeno, “Human Touch”, quando recupera suoni stranoti: Gloria’s Eyes, Roll Of The Dice, The Long Goodbye potrebbero essere scarti di “The River” o di “Born In The U.S.A.” (appunto: scarti). In generale non si comprende per quale motivo sia stata liquidata la E Street Band quando poi spesso si cerca di ricrearne l’inconfondibile sound.

Giacché però stiamo parlando di Bruce Springsteen e non del primo Jon Bongiovi che passa, di canzoni belle ce n’è e di momenti emozionanti pure. Piacciono 57 Channels, musicalmente un incrocio fra Alan Vega, Johnny 99 e Bourgeois Blues di Leadbelly, e Cross My Heart, ispirata a un altro grande del blues, Sonny Boy Williamson. Intenerisce il traditional Pony Boy, una ninna nanna per i neonati eredi Springsteen posta in chiusura. Commuove Man’s Job per quella sua aria di omaggio a Roy Orbison (sbagliamo?). E poi ci sono due gioielli irrinunciabili. I Wish I Were Blind arriva, con le sue chitarre arpeggiate e il synth dolente, dritta da “Tunnel Of Love”. With Every Wish, pugnalata al cuore dalla tromba da brividi di Mark Isham, ha le chitarre di Don’t Think Twice It’s Alright (Dylan), un basso jazzy e la batteria spazzolata. Siamo dalle parti di Meeting Across The River e nella terra dei capolavori.

Della bontà di “Human Touch” non era sicuro del tutto, dopo averci lavorato due anni, nemmeno l’artefice. In prossimità della pubblicazione si chiuse in casa (i fantomatici Thrill Hill Recording menzionati nelle note di “Lucky Town” non sono altro che casa sua) per scrivere un singolo, come era accaduto con “Born In The U.S.A.” quando all’ultimo momento aveva aggiunto  Dancing In The Dark. Stavolta ne uscì, tre settimane dopo, con un altro LP. Lo Springsteen di un tempo avrebbe buttato via il disco già pronto, recuperando giusto qualche brano che si prestasse a essere inserito organicamente nel nuovo lavoro. Li pubblicò invece entrambi. Ecco perché ci troviamo a parlare di un  album così così e di uno buono invece che della pietra miliare che sarebbe risultata dall’unione dei dieci titoli di “Lucky Town” con i quattro o cinque migliori di “Human Touch”.

“Lucky Town” è il prodotto del ripensamento di Springsteen sul ripensamento della propria musica. Nel suo terzo LP “solo” (l’unica presenza costante al suo fianco è quella del batterista Gary Mallaber) dopo “Nebraska” e “Tunnel Of Love” è assente qualsivoglia tocco di modernità ma ci sono in compenso canzoni fra le sue più memorabili di sempre, a partire da quell’ipotesi di pietra angolare di un “Nashville Skyline” springsteeniano che è If I Should Fall Behind e da quella indimenticabile ballata fra California e Messico che è My Beautiful Reward. In Better Days e in Leap Of Faith emergono gustose influenze gospel, la title-track incrocia Morricone e “The River”, Local Hero Woody Guthrie e i Del Fuegos, Living Proof potrebbe essere il Bob Seger dei tempi belli e Souls Of The Departed è la migliore Born In The U.S.A. 2 immaginabile. Resta ancora da dire di Book Of Dreams, serenata dolcissima a Patti Scialfa, e di The Big Muddy, una canzone senza tempo al crocevia fra “Nebraska” e “Paris, Texas”.

Se proprio si vuole tracciare una linea di demarcazione fra ‘Human Touch’ e ‘Lucky Town’, bene, nel primo si procede molto a tentoni, si brancola nel buio, mentre l’argomento del secondo è il trovare un posto in cui ci si possa reinventare, riscoprire la propria umanità più profonda. ‘Lucky Town’ è meno permeato di paure, di paranoie. Ma c’è un filo che congiunge i due dischi e che a un’estremità si collega a ‘Tunnel Of Love’, al protagonista di Cautious Man che ha le parole ‘amore’ e ‘paura’ tatuate sulle mani. Sono due parole che riassumono la vita della maggior parte delle persone. Solo che la paura spesso appare più vera, più assillante dell’amore.

A parte Bittan e il corista Bobby King (un collaboratore storico di Ry Cooder), Springsteen non portò in tour nessuno dei musicisti che lo avevano accompagnato in questi due album. Creò una nuova squadra, con una forte presenza di donne e di musicisti di colore, che dopo esordi incerti seppe cavarsela bene, se cavarsela bene significa riprodurre, nelle serate di grazia, una E Street Band standard. L’unica personalità degna di nota in un gruppo che esaurì la sua esistenza in tredici mesi risultò quella di una giovane nera, Crystal Taliafero, cantante, chitarrista, sassofonista e percussionista dalla notevole presenza scenica. In una eventuale, risorta E Street Band farebbe la sua figura.

Pubblicato per la prima volta in Bruce Springsteen: strade di fuoco, Giunti, 1998.

9 commenti

Archiviato in archivi

Audio Review n.341

Audio Review 341

Sarà in edicola da domani il numero 341 di “Audio Review”. Include mie recensioni degli ultimi album di Devon Allman, Ólöf Arnalds, Flume, Petra Haden, Ed Harcourt, Irrepressibles, Langhorne Slim, Ziggy Marley, My Bloody Valentine, Retribution Gospel Choir, Alasdair Roberts & Friends, Rachid Taha e Tomahawk e di recenti ristampe di Argent e Them. Nella rubrica del vinile mi sono occupato di Left Banke e Weather Report.

12 commenti

Archiviato in riviste

Atoms For Peace – Amok (XL)

Atoms For Peace - Amok

A volere essere cattivi si potrebbe lasciare che sia Thom Yorke stesso a farsi giudice, giuria e boia – Judge, Jury And Executioner, come recita il titolo della settima di nove tracce che sfilano in tre interminabili quarti d’ora – di questo primo album dei soprattutto suoi Atoms For Peace. “You got me in this mess”, canta a un certo punto. E poi: “I couldn’t care less”. E starà certamente parlando d’altro, per quanto sia assai arduo dire lungo l’arco dell’intero disco esattamente di cosa, ma davvero viene da rispondergli, per cominciare, che chi è causa del suo male dovrebbe piangere se stesso. E poi che si sente in ogni secondo di “Amok” che un dopolavoro che aveva forse l’ambizione di farsi qualcosa di più a un certo punto – chissà se nei tre anni passati a fantasticare cosa avrebbe potuto essere o nei tre giorni trascorsi in studio a jammare come da manuale del perfetto supergruppo di una volta – è divenuto qualcosa di meno e di peggio. Tipo una macchia su una vicenda artistica sino a ieri pressoché immacolata. Tipo un’indicazione di una tale nettezza che sarà difficilissimo smentirla che il nostro uomo, dopo anni trascorsi con i Radiohead se non proprio a immaginare il futuro quantomeno a reinventare il presente, ora si guarda dietro ma credendo ancora sia davanti. Che sia l’elettronica a delineare scenari di retroguardia, quando il rock aveva avuto il coraggio di reinventarsi “post-” avendo già conosciuto gli stadi, è paradosso solo apparente.

Sarà che “Amok” ti inganna sistemando in apertura il solo brano in una pur minima misura memorabile, e guarda casa l’unico in cui il pur statico basso di Flea è sexy come lo abbiamo sempre conosciuto, un disossamento di Talking Heads girati glitch e sparati a mille all’ora chiamato Before Your Very Eyes…. Sarà che era legittimo attendersi tanto dal sodalizio fra i due di cui sopra, Nigel Godrich, Joey Waronker e Mauro Refosco. Sarà che continuavo a leggerne in giro un gran bene. Fatto è che non mi sono lasciato smontare dall’impressione iniziale negativa e ho continuato a frequentare quest’album, con passaggi quasi giornalieri per due buone settimane, nell’attesa che una scintilla scoccasse. E vabbé, almeno adesso posso dirlo a ragion veduta: ho sprecato il mio tempo. La triste verità è che nulla avvince in “Amok”, nulla rimane anche dopo lunga consuetudine di questa congerie di melodie irrisolte e ritmiche spezzate e serrate, di suoni dai tratti decisi che mai si decidono a dare un disegno al proprio ordito. E poi quella voce! Un corpo estraneo e la finisco qui. La triste verità è che questo disco a un certo punto ti annoia talmente che anche la fantasia di dedicargli una stroncatura da antologia viene meno. Lo togli per quella che sai l’ultima volta dal lettore ed è come una sensazione di vuoto e smemoratezza che ti coglie un istante dopo. Cosa è già che stavo facendo?

2 commenti

Archiviato in recensioni

Krautrock Files (5): Tangerine Dream

Scopro per puro caso che sono passati esattamente dieci anni da quando “Audio Review” mi affidò (in co-gestione con Marco Cicogna, che si occupa in genere di musica classica) la rubrica dedicata al vinile. Come passa il tempo quando uno lavora! Dedicavo ai primi Tangerine Dream parte di settima e tredicesima puntata.

Tangerine Dream

Nominalmente ancora attivi (il leader Edgar Froese è però da tempo non soltanto l’unico superstite fra i fondatori ma anche il solo dei componenti storici ancora in formazione) a trentasei anni dacché mossero i primi passi, intestatari di una discografia foltissima che conta titoli a decine (innumerevoli le colonne sonore), i Tangerine Dream “godono” dal punk in avanti di una fama pessima e in larga parte – va detto – meritata: troppi gli album che ci hanno inflitto, praticamente tutti quelli pubblicati dal ’75 in poi, di un’elettronica tronfia, frigida e manierata dal cui uniforme fluire rarissimamente si stacca un frammento apprezzabile, qualcosa vagamente degno delle primigenie intuizioni maturate in una Berlino che non da molto doveva fare i conti con il Muro. Colpa in massima parte loro dunque se come spesso gli capitò il punk, che pure delle uscite più obbrobriose non aveva avuto modo di essere testimone, con l’acqua sporca gettò dalla finestra anche il bambinello. Accomunati ai vari Yes ed EL&P, intruppati con quei Pink Floyd cui erano stati a tratti stilisticamente contigui, Froese e compagni furono additati al pubblico ludibrio per il velleitarismo e l’autocompiacimento che ne caratterizzavano gli spartiti e insomma buttati nella pattumiera della Storia. Scomparivano sveltamente dalle classifiche e non ci torneranno più, patrimonio di una un po’ patetica chiesuola di estimatori all’ultimo stadio. Ma a partire dall’esplorazione del rock teutonico compiuta nel 1995 da Julian Cope nell’illuminante Krautrocksampler si è andati a riascoltare i loro primi LP (i primi quattro per la precisione; il quinto, “Phaedra”, passaporto insieme per la fama e la banalità) scoprendoli ispirati, innovativi (se non proprio rivoluzionari) per l’epoca in cui uscirono e a dirla tutta e in una parola parecchio fascinosi. Più degli altri quello che fu il debutto, registrato nel 1969 e pubblicato sul principio dell’anno dopo dalla Ohr, l’inquietante sin dalla copertina “Electronic Meditation”.

Nome ispirato dai Beatles e per la precisione dalla lisergica per antonomasia Lucy In The Sky With Diamonds, i Tangerine Dream si formano nel 1967 nella ex- e futura capitale tedesca con un organico a tre comprendente Edgar Froese (chitarra e tastiere), Conrad Schnitzler (violino, violoncello e strumenti elettronici) e Klaus Schulze (batteria e percussioni). L’unico che vanti una qualche esperienza seria è il primo, chitarrista hendrixiano degli Ones, che hanno pubblicato un singolo e suonato all’estero, ad esempio in Spagna dove Froese ha avuto modo di fare la conoscenza del pittore Salvador Dalí, restandone fortemente influenzato. Stanco di suonare cover dei successi del momento britannici o americani, ambisce a infiltrare istanze avanguardistiche nel rock e trova nei compagni spiriti affini e dalla personalità altrettanto forte, il che si rivelerà un bene e un male, dacché questa prima formazione rimarrà insieme per un album soltanto e al quale giungerà litigando. Così si spiegano – con le prime, momentanee separazioni – i due anni impiegati. Attesa ampiamente giustificata da un lavoro che tuttora intriga, sin dall’apertura di corrusco violoncello, puntato al cuore da una chitarra storta e bagnato da una pioggia cembalistica, di Genesis, sorta di prolungata intro ai ritmi sempre sull’orlo del collasso, all’acida sei corde, all’organo chiesastico (dietro, il non accreditato Jimmy Jackson) dell’epica Journey Through A Burning Brain: la A Saucerful Of Secrets dei Nostri. Si gira il disco ed ecco la jam di organo, percussioni e rumori, da cui Froese si eleva in cosmicheggiante assolo, di Cold Smoke. Ashes To Ashes è il brano relativamente più convenzionale del lotto, con i suoi echi di blues e di Doors, Resurrection chiusura di cerchio che esplicitamente rimanda a Genesis, con l’armeggiare di Schnitzler che promette chissà quali rivelazioni e invece no, è la fine.

Era la fine pure per questi Tangerine Dream, i più grandi. Schnitzler fondava con Dieter Moebius e Hans-Joachim Roedelius i Kluster e pubblicava con loro un paio di LP ultraradicali dopo i quali avrebbe intrapreso una carriera solistica tanto ricca di uscite quanto povera di rilevanza. Schulze dal suo canto avrebbe contribuito a un altro esordio epocale, quello omonimo degli Ash Ra Tempel, prima di cercare anch’egli gloria in proprio, trovandola con le notevoli sinfonie elettroniche di gusto classico-gotico “Irrlicht” e “Black Dance” (rispettivamente 1972 e 1974). Tristemente irrilevante il troppo abbondante resto. Di rilievo viceversa non da poco i primi tre 33 giri dei Tangerine Dream con Froese nocchiero, tutti su Ohr in origine: l’astrale “Alpha Centauri”, del 1971; la sua monumentale (è un doppio) estensione “Zeit”, del 1972; la magistrale sintesi, in cui però già si insinua un pizzico di maniera, di “Atem”, datata 1973.

Per una volta non filologi, i signori della Earmark rimpolpano ora la bella edizione di “Alpha Centauri” – con la quale proseguono, a qualche mese da “Electronic Meditation”, il programma di ristampe dei Berlinesi – aggiungendo in calce alla prima facciata il lato A di un singolo ammantato di leggenda: Ultima Thule. In tutti i sensi raro, sia perché in effetti materiale da collezionisti, sia perché solitaria uscita a 45 giri di uno dei gruppi da album per antonomasia e infine perché stilisticamente anomalo: monolitico e rockista, quasi un assalto punk. Sta nondimeno bene, o comunque non stona, fra i tre lunghi brani che compongono il disco forse più classico del combo e in ogni caso quello che, a tre abbondanti decenni dall’uscita, risulta più ricco di inventiva. Se con il tempo il sound di Edgar Froese e compagni si farà stereotipato fino all’autoparodia, qui è ancora una cosmica delizia di progressioni organistiche, flauti indianeggianti, sintetizzatori che avviano ingranaggi, sognano, minacciano, fra psichedelia e musica concreta. Fra gli strumenti che il leader suona, per dire, una macchinetta per il caffè.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.240 (novembre 2003) e 246 (maggio 2004). Adattato.

1 Commento

Archiviato in archivi

Velvet Gallery (16)

Sono molto orgoglioso di essere stato il primo a massacrare Piero Scaruffi e, per quanto estesa, mai stroncatura mi è venuta più facile in vita mia delle due pagine in cui nel 1990 impiccavo l’autore della più sciagurata Storia del rock  che si ricordi con la corda delle sue stesse parole. Non potevo immaginare che lo scaruffismo, complice soprattutto Internet, sarebbe poi dilagato, ma tant’è: io il mio dovere l’ho fatto.

(Per piacevole coincidenza e per chi ci tenesse ad approfondire: qui.)

Crimini e misfatti 1

Crimini e misfatti 2

114 commenti

Archiviato in archivi, libri

Bruce Springsteen 1973-1995 (9): Tunnel Of Love

Tunnel Of Love

Ain’t Got You. Tougher Than The Rest. All That Heaven Will Allow. Spare Parts. Cautious Man. Walk Like A Man. Tunnel Of Love. Two Faces. Brilliant Disguise. One Step Up. When You’re Alone. Valentine’s Day.

Columbia, settembre 1987 – Registrato nel New Jersey e presso l’Hit Factory di New York e il Kren Studio e gli A&M Studios di Los Angeles – Tecnici del suono: Bob Clearmountain, Toby Scott – Produttori: Bruce Springsteen, Jon Landau, Chuck Plotkin.

Il Bruce Springsteen che sul finire dell’estate del 1987 si apprestava a dare alle stampe “Tunnel Of Love” era molto diverso da quello che, poco più di tre anni prima, aveva pubblicato “Born In The U.S.A.”. La distanza era stata creata da un LP che aveva venduto cinque volte quanto totalizzato dai suoi predecessori,  dal primo vero tour mondiale, con tappe in Australia e in Giappone e una durata record di quindici mesi, e, in pieno tour, dal matrimonio con la modella Julianne Phillips. Oggetto di culto prima di “Born In The U.S.A.”, Springsteen era adesso un’icona della cultura pop globale. Il figlio del New Jersey avrebbe fatto di tutto negli anni seguenti per scrollarsi di dosso questo fardello.

Il tour di “Born In The U.S.A.” differì  da quelli precedenti non solo perché segnò il passaggio dalle arene coperte agli stadi – la grandezza della E Street Band fu dimostrata, una volta di più, anche dalle modalità indolori di tale passaggio: si riuscì miracolosamente a non perdere quasi nulla del senso di intimità che caratterizzava i concerti del Boss dai giorni del Max’s Kansas City – ma pure perché sul palco con il nostro uomo c’erano due presenze in più e una in meno. Mancava Steve Van Zandt, compagno per Springsteen di tante avventure sin dalla tarda adolescenza oltre che per sei anni, dal tour di “Born To Run” a quello di “The River”, presenza fondamentale dal vivo, spalla perfetta per un chitarrista non tecnicissimo ma assai personale come Springsteen. In sala di incisione, poi, Van Zandt aveva avuto un peso anche maggiore, da vero e proprio braccio destro, come dimostra il fatto che figura come coproduttore di “Darkness On The Edge Of Town”, “The River” e dello stesso “Born In The U.S.A.”. L’affettuosa dedica, in italiano (“Buon viaggio, mio fratello, Little Steven”), sulla busta interna di quest’ultimo disco aveva chiarito che la separazione era stata amichevole ma il problema della sostituzione restava.

Se la cavò piuttosto bene, nel ruolo di nuovo alterego chitarristico del Boss, Nils Lofgren, un musicista di buono spessore e dalla storia importante, visto che aveva pubblicato in proprio diversi album di rock non distante dai canoni springsteeniani. Fu una presenza senz’altro più discreta sul palco la prima donna a entrare in squadra, la corista Patti Scialfa, che si unì alla E Street Band appena quattro giorni prima dell’inizio del tour. Ma come vedremo Mrs. Scialfa  sarà per altri versi straordinariamente importante.

Se tre anni e tre mesi separano “Tunnel Of Love” da “Born In The U.S.A.”, il quintuplo live aveva soltanto dieci mesi, pochissimo per gli standard springsteeniani, quando il nuovo LP vide la luce. Il voluminoso box era facile da intendere come un punto a capo nella carriera dell’uomo di Freehold, un tirare le somme per poi voltare pagina. Una replica dei suoni e degli schemi del disco in studio che l’aveva preceduto, sicuramente funzionale dal punto di vista delle vendite, ne avrebbe distrutto la credibilità. Springsteen, artista vero che crea prima per se stesso e poi (molto poi) per il pubblico, non cadde nella trappola e diede alle stampe un lavoro agli antipodi del predecessore e che vendette più che altro per rendite acquisite, lasciò perplessi molti e solo a distanza di anni è stato rivalutato per ciò che è: un momento chiave nella vicenda artistica del Nostro e un album di prima schiera, certo non del livello di “Darkness On The Edge Of Town” o “The River”, ma coraggioso quanto “Nebraska” e artisticamente superiore sia ai primi due LP che a “Born In The U.S.A.”.

Una delle qualità più ammirevoli di Springsteen è la sua capacità di rimettersi sempre in discussione. È ciò che gli ha consentito di non soccombere al complesso di Peter Pan di cui nel rock quasi tutti sono vittime. Bruce Springsteen ha saputo riflettere la sua crescita di uomo, le vicende personali, fallimenti compresi, nella sua arte. Mentre un Mick Jagger dopo oltre trent’anni seguita imperterrito a cantare che non può ottenere soddisfazione, sminuendo grandemente la portata iniziale di quell’affermazione, il Boss (ma è forse il caso di smettere di chiamarlo così: e sia) è capace al contrario di prendere, come ha fatto nei tour degli anni ’90, la sua canzone simbolo, Born To Run, e spogliandola dell’elettricità trasformarla in qualcosa di totalmente “altro” rispetto alle origini, denso di significato oggi che a cantare è un uomo maturo quanto lo era quando, venticinquenne, aveva fatto di una riflessione sul passaggio dall’adolescenza all’età adulta un inno. Abbiamo detto che in nessun modo Springsteen è stato un innovatore in musica, piuttosto un abile – e personale, e carismatico – perpetuatore della tradizione. Ma bisogna riconoscergli la capacità rara di essere stato capace di portare in un genere, il rock, malato di giovanilismo tematiche adulte.

“Tunnel Of Love” fu, dopo “Nebraska”, il secondo disco di Bruce Springsteen concepito in solitudine e in solitudine per larga parte realizzato. In nessun brano è presente la E Street Band al completo, soltanto Max Weinberg c’è quasi sempre, Clarence Clemons non c’è mai. Se in quel suo affine era l’America a essere in tremende ambasce qui è Springsteen stesso a mettersi in gioco, fin dal primo brano. Quanto contrasta con il rullare di tamburi e l’incendio di chitarre di Born In The U.S.A. l’inizio a cappella di Ain’t Got You! La cadenza è rockabilly, la voce e le parole ironiche, ma il tema di fondo serio, il medesimo dell’omonimo brano degli Yardbirds o di Can’t Buy Me Love dei Beatles: ci sono cose che il denaro non può comprare. L’amore, per esempio. Proprio la ricerca dell’amore è il tema intorno a cui ruota quello che è sicuramente il lavoro più personale del Nostro. Il tono oscilla costantemente fra l’intimista e il confessionale. Poiché Springsteen è sempre stato geloso della sua vita privata ed è riuscito a difenderla anche una volta divenuto una superstar, nessuno sospettava che il suo fresco matrimonio fosse già in crisi. “Tunnel Of Love” fu la prima, inequivocabile seppure discreta, indicazione al riguardo. La seconda e ultima sarà uno scarno comunicato stampa nel gennaio 1989.

Con ‘Tunnel Of Love’ ho voluto scrivere un tipo diverso di canzoni romantiche per toccare le esperienze emotive di quei rapporti in cui ti leghi veramente con l’altro e che non sono solo una fantasia romantica e narcisistica o una sbandata, o altro. Nella mia vita precedentemente ho sempre evitato di mettermi in una situazione nella quale pensare a cose del genere. Quando avevo vent’anni la evitavo di proposito. Era un po’ come se dicessi: ‘Ho già molte cose per le mani, non sono pronto per questo, non scrivo nessuna canzone che parli di matrimonio’. Ma quando iniziai a lavorare a questo particolare disco volevo parlare di ciò che provavo, di quando permetti a una persona di entrare nella tua vita… Non avrei potuto scrivere nessuna di queste canzoni in nessun altro momento della mia carriera. Non avrei avuto la conoscenza, la sensibilità, la coscienza per farlo.

È un LP sofisticato e raccolto questo, molto vario, unificato oltre che dal tema che lo sottende e che già è annunciato dal titolo, da timbriche “sintetiche” inedite per il nostro uomo. Dopo la scarnissima Ain’t Got You, già nella seconda canzone, Tougher Than The Rest, è un sintetizzatore a portare avanti la splendida melodia. Nel resto della facciata ci si muove sulle tracce di una rilettura moderna del country, venato più, Spare Parts, o meno, All That Heaven Will Allow, di rockabilly, memore di “Nebraska” in Cautious Man e omaggiante Nashville con gusto in Walk Like A Man.

Il secondo lato parte magnificamente con la title-track, uno degli articoli più singolari nel catalogo springsteeniano (si direbbe sottratto a Prince) e con un altro brano echeggiante “Nebraska”, Two Faces. Perde qualche colpo con Brilliant Disguise, un po’ una Dancing In The Dark in tono minore, recupera con la confessionale fino all’imbarazzo One Step Up e si congeda bene con le “californiane” When You’re Alone, saporosa di Eagles, e Valentine’s Day, prossima a Rickie Lee Jones.

La sfida di portare negli stadi canzoni così crepuscolari venne affrontata dalla E Street Band e vinta in due tour che occuparono gran parte del 1988. L’ultima vittoria (per ora?) dei vecchi leoni.

Pubblicato per la prima volta in Bruce Springsteen: strade di fuoco, Giunti, 1998.

4 commenti

Archiviato in archivi

I Sound di Adrian Borland. Ovvero: quando il destino è davvero cinico e baro.

Poco meno di un anno fa, sulle pagine di un giornale che faccio ormai fatica a nominare per quanto mi hanno umanamente deluso alcune persone lì dentro e amareggiato taluni dei suoi tanto mitizzati lettori, mi veniva concesso di dedicare una paginetta ai Sound e alla tragica parabola del loro leader Adrian Borland. Occasione erano le allora fresche riedizioni dei primi due album della band di Liverpool, “Jeopardy” e “From The Lion’s Mouth”. La stessa etichetta ha appena ristampato il terzo, “All Fall Down”. Riascoltandolo, mi sono confermato nell’idea che non valga i predecessori. Tuttavia la distanza mi è parsa decisamente inferiore a quella cristallizzatasi nel ricordo.

The Sound - Jeopardy

All’inizio di questo racconto c’è uno degli album più incredibilmente negletti della storia del rock e dire che, se non altro per meriti storici, negli annali “Calling On Youth” dovrebbe figurare eccome. Laddove tutti ricordano che Spiral Scratch, dei Buzzcoks, fu nel gennaio 1977 il primo EP autoprodotto del punk britannico, mai nessuno che rammenti che quattro mesi dopo il titolo appena menzionato era il primo LP realizzato in tale ambito in totale autonomia dall’industria discografica. E manco a dire che sia caduto nel dimenticatoio per demeriti artistici, siccome non sarà un capolavoro – quello che fu il debutto a 33 giri degli Outsiders del cantante e chitarrista Adrian Borland, del bassista Bob Lawrence e del batterista Adrian Janes – e nondimeno è un’eccellente collezione di assalti Stooges e ballate post-glam. Sicuramente da non ignorare per gli appassionati di quel tipo di suoni e senz’altro da recuperare ora che, per singolare coincidenza, è stata ristampata (come il di due anni successivo “Close Up”) dalla Cherry Red quasi nelle stesse settimane in cui l’americana 1972 (in Italia distribuisce Goodfellas) riportava nei negozi primo e secondo album dei Sound. E c’è un uomo disperato – per ragioni oggettive: oltre vent’anni sulla scena senza mai essere granché più che un nome di culto; soggettive: da quattordici convive con una grave depressione, tendenze schizoidi e problemi di alcolismo – alla fine di questo racconto. Un uomo che si butta sotto un treno di passaggio nella stazione della sua Wimbledon. Adrian Borland moriva così, quarantunenne, nelle prime ore della mattina del 26 aprile 1999, e mai potrà essergli restituito ciò che gli truffò un destino davvero cinico, sul serio baro. Però almeno sottrarne il nome all’oblìo, ricordandolo per il grande artista che fu, propagandandone l’opera presso le giovani generazioni, potrebbe essere qualcosa. Un minimo passo avanti verso una giustizia impossibile.

E al centro di questo racconto c’è “Jeopardy”: di tutti i fallimenti del nostro eroe il più glorioso, anche più di “Calling On Youth”. Perché le canzoni – undici: una più memorabile dell’altra – sono superiori e il suono, pur con tanti punti di contatto con gruppi coevi dei Sound (in quest’occasione, con Borland, la tastierista Bi Marshall, il bassista Graham Bailey e il batterista Michael Dudley) ha una sua peculiarità. Heartland potrebbe arrivarci dai primi U2 oppure dai primi Echo & The Bunnymen, vero, ma allora perché non seppe regalare ai propri artefici lo stardom? Perché Resistance, dopo non essersi ritrovata nelle classifiche, non sta nella memoria collettiva come uno qualunque dei brani di “Boy”? Perché nemmeno la new wave della new wave ha recuperato la favolosa collisione fra Roxy Music, punk e Gang Of Four di Words Fail Me? E quasi viene da riflettere che, se soltanto Borland avesse anticipato il suo gesto insano fino a precedere quello dell’affine anima in pena Ian Curtis, almeno si sarebbe fatto icona, almeno avrebbe avuto un film alla memoria. Pensiero tremendo quanto legittimo dinnanzi alla bellezza in retrospettiva insostenibile di una I Can’t Escape Myself (titolo tristemente profetico) o di una Night Versus Day entrambe più Joy Division dei Joy Division.

È fresco di riedizione (nel suo caso con una preziosa bonus non segnalata in scaletta: l’invano scintillante singolo Hothouse) pure il seguente di un anno “From The Lions Mouth”. Certi cultori del gruppo gli rimproverano, con severità invero eccessiva, nerbo minore e qualche eccesso di tastiere. Io trasecolo riascoltando Sense Of Purpose e di nuovo chiedendomi perché gli U2 sì e i Sound no. Cosa avevano i New Order che non fosse contenuto in Contact The Fact, cosa di meglio rispetto a Skeletons i Simple Minds già stelle ma non ancora sputtanati. Sì, “From The Lions Mouth” è inferiore a “Jeopardy”, ma giusto di uno zero virgola qualcosa. Tant’è che fino all’ultimo sono rimasto incerto su quale fra i due eleggere a pietra miliare.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.693, aprile 2012.

6 commenti

Archiviato in archivi, ristampe