Archivi del mese: aprile 2013

Jello Biafra: una vita all’opposizione

È fuori da alcune settimane l’ultimo album (secondo alla testa dei Guantanamo School Of Medicine) di Jello Biafra. Non riserva sorprese, “White People & The Damage Done”, se non si considera tale che il suo artefice sia ancora del tutto credibile, il cinquantacinquesimo compleanno alle viste, nel ruolo di punk rocker politicamente impegnato e, per dirla con nonno Iggy, “with a heart full of napalm”. In uno dei momenti più controversi di una vita controversa dedicavo all’ex-cantante dei Dead Kennedys, sulle colonne di “Rumore”, questo breve articolo.

Jello Biafra

Corte federale americana condanna gruppo punk in una causa intentata dalla polizia

ore 18.05, 4 aprile 1997, Philadelphia – Un giudice federale ha riconosciuto un indennizzo di 2,2 milioni di dollari a un poliziotto e al suo sindacato in una causa da essi intentata contro un complesso punk-rock dal nome volgare per l’uso indebito di una foto del suddetto ufficiale sulla copertina di un album contenente testi ostili alle forze dell’ordine.

Michael Smerconish, legale della polizia di Philadelphia, ha dichiarato che la sentenza colpisce i Crucifucks e la loro etichetta, la Alternative Tentacles, di proprietà dell’ex-Dead Kennedys Jello Biafra. Il gruppo era stato citato per lo sfruttamento di un’immagine facente parte in origine di una campagna pro-polizia. La foto ritrae un poliziotto di Philadelphia, James Whalen, mentre giace, fingendosi morto, davanti a una macchina di pattuglia. L’album contiene canzoni che incitano a uccidere i poliziotti.

Spero di prendermi quanto possiede questa gente fino all’ultimo centesimo rimasto in fondo al borsellino, se possibile”, è stata la reazione di Richard Costello, leader del sindacato di polizia, al verdetto. Costello ha detto che il denaro sarà speso per l’istruzione dei figli di poliziotti caduti in servizio. Whalen, al termine di un’udienza la scorsa settimana, aveva dal canto suo affermato di essere rimasto sconvolto dall’uso della foto e che sperava che questo caso lanciasse un chiaro messaggio alle case discografiche. La Alternative Tentacles, interpellata riguardo alla sentenza, ha rimandato chi chiamava al suo avvocato, che non si è però fatto vivo. (Agenzia Reuter)

I FOUGHT THE LAW… AND THE LAW WON

Nel 1987 la New Rose, etichetta parigina ormai da tempo defunta, celebrò il centesimo numero del suo catalogo con un doppio LP in cui gli artisti della sua scuderia si cimentavano con riletture di brani altrui. Parteciparono anche i Dead Kennedys, con una versione della I Fought The Law di Sonny Curtis, resa famosa dapprima da Bobby Fuller, quindi dai Clash, fedele all’originale solo musicalmente, dacché il testo (l’unico riportato sul foglio interno) era stato completamente riscritto per l’occasione, prendendo spunto dal  caso di Dan White, un ex-poliziotto di San Francisco che aveva assassinato il sindaco di quella città e un noto attivista gay ed era poi stato incredibilmente mandato libero da un tribunale sul quale la polizia aveva esercitato pesanti pressioni. Biafra vestiva i panni di White e cantava, rovesciando il ritornello di Curtis, “ho combattuto la legge… e ho vinto”. Una parabola tipicamente americana narrata con piglio sardonico da uno che di grane con la (in)giustizia a stelle e strisce se ne intende: quando “Play New Rose For Me” raggiunse i negozi era ancora in corso la celeberrima causa per il poster di Geiger allegato al terzo LP dei Kennedy Morti, “Frankenchrist”, e accusato di essere pornografico. Grazie anche all’azione di un comitato, il “No More Censorship”, che si fece promotore di raccolte di firme e di fondi per le spese processuali, Dead Kennedys e Alternative Tentacles furono assolti. Per i primi fu una vittoria di Pirro: la forzata inattività a seguito delle traversie giudiziarie (in precedenza il gruppo era già rimasto a lungo fermo per una controversia con il suo manager) li portò allo scioglimento. Un bene, forse, poiché la loro parabola creativa pareva da tempo in irrimediabile discesa. A trarre giovamento dalla sofferta vittoria fu la casa discografica fondata nell’81 da Eric Boucher, meglio noto come Jello Biafra, proprio per dare una stampa americana al primo album dei Dead Kennedys, dopo che era sembrato evidente che nemmeno le indipendenti volevano avere nulla a che fare con un gruppo dal nome tanto provocatorio.

Da quel momento in avanti la Alternative, non più soltanto al servizio di Biafra e soci, è divenuta una delle migliori etichette punk al mondo, ove per punk si intende, oltre che uno stile musicale, un’attitudine mentale. Soprattutto un’attitudine mentale. Dalla qual cosa si possono inferire le ragioni del boicottaggio operato nei suoi confronti, da quattro o cinque anni in qua, dagli irosi predicatori di “Maximum Rock’n’Roll”, fondamentalisti del punk che legandosi alla lettera di un suono ne hanno condannato a morte l’essenza spirituale. Mentre Jello Biafra dava una possibilità di incidere a musicisti più o meno validi ma sempre refrattari ai cliché e si segnalava, con interviste e una serie di dischi solo parlati, come uno dei critici più lucidi delle storture della società occidentale, costoro non trovavano di meglio da fare che scomunicare i gruppi messi sotto contratto dalle major e pontificare su cosa sia punk e cosa no. Ma, come osservava il Nostro in una recente intervista, “puoi discutere se gli Offspring si siano o no venduti quando hanno firmato per la Sony sin quando ti manca il fiato, ma ciò non darà da mangiare al senzatetto che hai sull’uscio di casa”.

Chissà cosa diranno i Tim Yohannan ora che un processo farsa sobillato da uno dei dipartimenti di polizia più discussi degli Stati Uniti (a suo carico il massacro del Move e il caso Mumia Abu-Jamal) è forse riuscito, con un vero e proprio blitz (due mesi appena), in un’impresa a suo tempo fallita dal potentissimo PMRC: mettere a tacere Mr. Boucher. La Alternative difficilmente sarà in grado di assorbire un simile colpo e dunque la possibilità che il nuovo LP dei Lard sia l’ultimo a portare il suo marchio va giudicata tutt’altro che remota. Tutto ciò mentre il proprietario dell’etichetta rap più importante d’America finisce in carcere, con la prospettiva di passarci nove anni. Una coincidenza?

Il meglio del catalogo Alternative Tentacles

Dead Kennedys - Fresh Fruit For Rotting Vegetables

DEAD KENNEDYS “Fresh Fruit For Rotting Vegetables” (Virus 1, 1981) – Una delle pietre miliari della storia del punk. Le auto in fiamme in copertina bruciarono la notte della sentenza White. Canzoni come Kill The Poor, California Über Alles e Holiday In Cambodia bruciano oggi come allora.

Beatnigs - The Beatnigs

BEATNIGS “The Beatnigs” (Virus 65, 1988) – Fra Last Poets e clangori industrial, il disco che presentò al mondo il fulgido talento di Michael Franti, poi alla testa di Disposable Heroes Of Hiphoprisy e Spearhead.

Jello Biafra with D.O.A. - Last Scream Of The Missing Neighbors

JELLO BIAFRA & D.O.A. “Last Scream Of The Missing Neighbors” (Virus 78, 1989) – Un album cui conviene approcciarsi partendo dal fondo, dalla furiosa cavalcata di Full Metal Jackoff, e proseguendo con la formidabile versione del classico degli Animals We Gotta Get Out Of This Place. Potente e melodico.

Alice Donut - Mule

ALICE DONUT “Mule” (Virus 82, 1990) – Decisamente brutti, probabilmente sporchi, cattivi non si sa, geniali senz’altro. Fra punk, Captain Beefheart e Black Sabbath. E ogni tanto ci scappa una ballata memorabile.

Lard - The Last Temptation Of Reid

LARD “The Last Temptation Of Reid” (Virus 84, 1990) – Nonostante tre Ministry, compreso Al Jourgensen, in squadra oltre a Jello Biafra, non vi sono tracce né di musica industriale né di techno. Un po’ di metal, sì. Granitico.

Jello Biafra with Nomeansno - The Sky Is Falling And I Want My Mommy

JELLO BIAFRA & NOMEANSNO “The Sky Is Falling And I Want My Mommy” (Virus 85, 1991) – Il migliore LP cui abbia posto mano Biafra dopo “Fresh Fruit For Rotting Vegetables”. 37’17” senza una pausa di innodico punk che si concede occasionali flirt ora con il jazz, ora con un hard impregnato di acido.

Nomeansno - 0+2=1

NOMEANSNO “0+2=1” (Virus 98, 1991) – Se la matematica non è un’opinione, un capolavoro di hardcore evoluto. Dove di hardcore dunque non vi è che il piglio. Hard, reggae, funky, jazz, Devo: di tutto, di più, da questi magnifici Canadesi.

VV.AA. - Virus 100

VV.AA. “Virus 100” (Virus 100, 1992) – Sedici gruppi alla prese con il catalogo Dead Kennedys. I migliori sono i Disposable Heroes che rifanno hip hop California Über Alles e Mojo Nixon che trasfigura country Winnebago Warrior. Se la cavano benissimo anche Alice Donut, Faith No More, Sepultura e Sister Double Happiness.

D.O.A. - The Dawning Of A New Error

D.O.A. “The Dawning Of A New Error” (Virus 106, 1992) – I Clash del Canada, per qualcuno. Questa corposa raccolta affianca al loro LP migliore, “Let’s Wreck The Party” del 1985, brani usciti a 45 giri fra il ’78 e l’81.

Zeni Geva - Desire For Agony

ZENI GEVA “Desire For Agony” (Virus 135, 1994) – Una voce animalesca si agita nervosa su fondali che passano in moviola la lezione del Sabba Nero. Violenza di norma trattenuta e proprio per questo più minacciosa. Giapponesi e inquietanti.

Pubblicato per la prima volta su “Rumore”, n.65, giugno 1997.

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Velvet Gallery (24)

Un breve quanto sentito omaggio, in tempo reale, a uno dei gruppi “culto”  (che è un altro modo per dire “dei più sottovalutati”) dei tardi anni ’80.

Galaxie 500 - Il suono della neve che cade

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Blow Up n.180

Blow Up 180

È in edicola il numero 180 di “Blow Up”. Il mio contributo principale è un lungo articolo (sei pagine) sul classico dei classici di Van Morrison, “Astral Weeks”. Firmo inoltre recensioni degli ultimi album di Edwyn Collins, James Hunter Six e Wolf People, di recenti ristampe di Lee Fields e War e del box “alla carriera” di Duane Allman.

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Presi per il culto (31): Ill Wind – Flashes (ABC, 1968)

Ill Wind - Flashes

È curiosamente in uno dei centri del pensiero scientifico mondiale, il Massachusetts Institute Of Technology di Cambridge, che prende le mosse questa vicenda. L’anno è il 1965 e fra gli alunni del prestigioso centro di studi figurano Richard Griggs (Zvonar all’anagrafe), Ken Frankel e Carey Mann. Il folk-rock è sugli scudi, il folk-revival si rifiuta di scenderne. Nel minuscolo circuito cittadino Frankel e Mann prestano uno chitarra e banjo e l’altro il contrabbasso al duo Norm & Judy. È già un impegno semi-professionale, ove Griggs si limita a intrattenere i compagni di dormitorio strimpellando un’acustica. Comprerà la prima elettrica quella stessa estate, durante vacanze di lavoro trascorse in California suonando per bar a Santa Monica con tali Mersey Blues. Quando torna alla base scopre che anche Judy, che di cognome fa Bradbury, Ken e Carey hanno acceso gli amplificatori. Il nome adottato parrebbe brillare per chiarezza programmatica se non per originalità: Blues Crew. In realtà di blues in un primo e unico demo registrato nel gennaio ’66  e ingenuamente sperimentale non ve ne sono che tracce vaghe. Sperimenta parecchio nei mesi seguenti, però con marijuana ed LSD durante interminabili sedute d’ascolto a base di Fugs e Love, Beatles, Mothers Of Invention e Steve Reich, anche il buon Zvonar/Griggs. Coinvolge gli amici e costoro a loro volta lo coinvolgono facendolo entrare in un gruppo che in giugno si ribattezza The Prophets e in luglio, quando alla compagnia si unisce il batterista Dave Kinsman, Ill Wind. Sorta di sesto componente, Tom Frankel, fratello di Ken, assume il management e si dà subito da fare. Un intoppo non da poco si ha quando la Bradbury inopinatamente lascia. Si presentano in tre alle audizioni per sostituirla e a Priscilla Donato (che ritroveremo con gli Ultimate Spinach) e Coco Kallis (che pubblicherà un LP da solista) viene preferita Conny Devanney. Un secondo e più grave inciampo si ha quando i Frankel vengono fermati per possesso di stupefacenti. Con la legge la sfangano, non con la Capitol, che aveva mostrato interesse per il complesso e si affretta a mollarlo. Finiranno così per restare ufficialmente inedite  (fino a una riedizione digitale su Sunbeam del 2009) ben sei canzoni eternate su nastro a spese della suddetta etichetta. Per un paio – la jeffersoniana Ill Wind, una Tomorrow You’ll Come Back dagli accenti barocchi – è un peccato. Per un altro paio – un’irresistibile I Can See You in cui i Lovin’ Spoonful collidono con i Byrds e una You’re All I See Now in cui colludono con una versione alla mescalina dei Beau Brummels – un delitto. Amen. L’incidente di cui sopra parrebbe persino provvidenziale quando a contattare una band che nel frattempo va conquistandosi, con un’intensa attività concertistica, un buon seguito è Tom Wilson, produttore di enorme reputazione con in curriculum gente come Dylan e Zappa, Simon & Garfunkel e Velvet Underground. Ha fondato un’etichetta, la Rasputin, e ottenuto un contratto di distribuzione con  la ABC. Tutto in discesa? Oh sì: verso un baratro.

Inciso fra il febbraio e il marzo del 1968, “Flashes” è un album ottimo che avrebbe potuto essere favoloso. Se in luogo di un brano o due appena discreti– direi L.A.P.D., fra il soporifico e il declamatorio; direi Full Cycle, che parte bene ma procede incespicando – si fossero recuperate Ill Wind e una fra I Can See You e You’re All I See Now. Con l’aggiunta ulteriore di una sinuosa e acidissima title-track, rimasta bizzarramente esclusa, sarebbe stato un capolavoro e stop. A condannarlo a insuccesso e oblio saranno la mancanza di promozione, un tour cancellato all’ultimo e, soprattutto e in misura determinante, l’indifferenza di una critica rock pure agli albori. Nessuno si fila lo scintillante country-pop Walkin’ And Singin’ e una White Rabbit espansa chiamata People Of The Night, una My Dark World dolcissima e colpita al cuore da un solo di basso passato al fuzz e una Sleep che mette insieme – testimoni i primi Beach Boys! – “Surrealistic Pillow” e “Sweetheart Of The Rodeo”. Nessuno spende una parola per la più bella High Flying Bird di sempre (due spanne sopra H.P. Lovecraft ed Airplane, Zephyr, Wizards From Kansas e chiunque altro possa venirvi in mente): anche la più originale, con la memorabilissima melodia che in qualche strana maniera decolla per ineffabili empirei pur restando inchiodata al suolo da una ritmica motoristica come non se ne udranno (ma non a breve) che in zona krautrock.

Per qualche mese ragazza e ragazzi provano a reagire alla malasorte suonando tanto e ovunque, aprendo spettacoli di Fleetwood Mac e Moby Grape, Van Morrison, Who, Chuck Berry, Jefferson Airplane. Ai ferri corti con Wilson, nel dicembre 1968 si risolveranno però a riprendersi la libertà nell’unico modo possibile: non rinnovando il rapporto con la ABC e sciogliendosi.

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Velvet Gallery (23)

Amiamo alla follia la loro musica, che è armoniosa e disarmonica insieme, orecchiabile e ostica, raffinatissima e grezza, piena di pause estatiche e accelerazioni frenetiche, minimale e complessa, sempre disposta all’esperimento, colta, primitiva, lasciva, nervosa, sepolcrale, estrosa ma prona a una sua disciplina, genialmente sconclusionata, dalle geometrie –  ardite e inusuali – a loro modo perfette: benvenuti nel magico mondo dei Pixies. Dal numero 25 di “Velvet”, ottobre 1990.

Il magico mondo dei Pixies 1

Il magico mondo dei Pixies 2

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Mark Lanegan & Duke Garwood – Black Pudding (Ipecac)

Mark Lanegan & Duke Garwood - Black Pudding

Sette album con gli Screaming Trees (più un ottavo pubblicato postumo), altrettanti da solista, tre in coppia con Isobel Campbell, una serie infinita di collaborazioni importanti che include (per limitarsi all’essenziale) il supergruppo Mad Season, Queens Of The Stone Age, Gutter Twins, Twilight Singers, Soulsavers: ha da lungi dimensioni impressionanti il catalogo laneganiano, ma d’altra parte gli anni sono ormai quarantotto, ventotto quelli trascorsi sotto le luci della ribalta e per non essersi ancora accorti della sua presenza, avendo un interesse anche vago per il rock, bisogna avere vissuto su Marte sin da metà ’80. Quanto a Duke Garwood, be’, ammetterò senza problemi che quando questa partnership è stata annunciata non avevo idea di chi fosse e ho dovuto indagare al riguardo. Faccio risparmiare tempo a quei lettori che dovessero essersi appena scoperti ignoranti come lo era e lo è il sottoscritto: quarantaquattrenne multistrumentista inglese con base a Londra, vanta partecipazioni in lavori di Orb (ecco… ho appena scoperto che avevo già in casa un disco in cui suona) e Archie Bronson Outfit e già ben quattro album in proprio, più assortita minutaglia. Vale forse di più come informazione che l’idea di un progetto a quattro mani sia venuta a colui che nella coppia è di grandissima lunga il più famoso, Lanegan un estimatore di Garwood prima del contrario. Ha già dichiarato, l’ex-Screaming Trees, di considerare questo forse estemporaneo sodalizio “una delle esperienze più belle della mia carriera”. Che poi nelle interviste l’ultimo album sia sempre il più riuscito noi che siamo uomini di mondo lo sappiamo bene.

Mettiamola così: se di Mark Lanegan in casa avete già tanto, se non tutto, “Black Pudding” potete tranquillamente aggiungerlo al lotto. Folle sarebbe viceversa partire da qui, a meno che non lo si intenda come un approccio a Garwood e ci può stare, dacché l’impressione è che sia un disco più suo che non del sodale. Mi induce a pensarlo che fra i dodici brani che vi sfilano i due più persuasivi siano quelli in cui l’inconfondibile voce che ben conosciamo non si sente, la traccia omonima e Manchester Special, sistemati rispettivamente a incipit e suggello e quella un arazzo di Spagna, questa (a dispetto del titolo) uno scorcio d’Oriente in scia a tal Sandy Bull che mi auguro conosciate (in caso contrario, qualche notizia qui). In mezzo, tanto blues in prevalenza acustico, ora languido e ora lugubre, talvolta ipnotico e talatra evanescente. Copione che si movimenta apprezzabilmente solo alle ultime battute della recita, in una Cold Molly nella quale la chitarra funkeggia moderatamente su un battito di batteria elettronica, in una Shade Of The Sun che fa pensare a un Ben Harper sotto valium e che potrebbe attirare l’attenzione benevola – forse ma forse – di qualche radio.

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Iron And Wine – Ghost On Ghost (Nonesuch)

Iron And Wine - Ghost On Ghost

Ha naturalmente un significato, non è un caso in una discografia sempre più dominata dal caso, se a un certo punto in una carriera già ultradecennale Samuel Beam, in arte Iron & Wine, da un’indipendente sebbene di grandi peso e prestigio quale Sub Pop è passato, in Europa, sempre a un’indipendente ma con tutt’altra storia quale la 4AD nel mentre negli USA entrava in area major. Non solo una questione di numeri, facendo caso a quale major è approdato, Warner, marchio storicamente attento a costruire un rapporto con i propri artisti. E non si intenda come una bocciatura che tale matrimonio si sia esaurito apparentemente con un unico album (più un live stampato solo in vinile) dopo i ben quattro griffati Sub Pop. Sarebbe stato fra l’altro patentemente assurdo visto che proprio quel disco, “Kiss Each Other Clean”, rappresenta a oggi e di gran lunga lo zenit commerciale del Nostro, un discretamente clamoroso numero 6 nella classifica di “Billboard”. Magari sarà solo una mia oziosa speculazione, ma vedo un senso nel fare uscire il successore per la Nonesuch, cambio non di gruppo industriale ma giusto di marchio, passaggio a una griffe elitaria che potrebbe attirare sul progetto Iron & Wine l’attenzione di un certo pubblico che non lo ha finora degnato di attenzioni. È un prendere in un colpo i proverbiali due piccioni, giacché pare improbabile che quella platea più generalista che si entusiasmò per il predecessore possa non gradire “Ghost On Ghost”. Anzi! Una possibile, ulteriore nuova tappa della quietamente irresistibile ascesa di un uomo che prima di inventarsi cantautore si guadagnava da vivere da docente universitario di cinematografia.

Mai stato un ascolto ostico, Mr. Beam, nemmeno agli ormai lontani tempi (2002) di un esordio, “The Creek Drank The Cradle”, con il quale la Sub Pop faceva numero tondo (il 600 del suo catalogo) e che all’epoca recensivo per una nota rivista di alta fedeltà. Artisticamente prevedevo per costui un futuro luminoso e dove sbagliavo era pronosticandogli che sarebbe però sempre rimasto un culto, al massimo delle (non disprezzabili) dimensioni di un Bill Callahan o di un Will Oldham. Scrivendo per la medesima testata di quel sofisticato e variegato gioiellino di Americana di “The Shepherd’s Dog” (il congedo dalla Sub Pop) cinque anni dopo aggiusterò alquanto il tiro. Ci sono logica e continuità in un’evoluzione tanto costante quanto di ardua percettibilità in passaggi immediatamente successivi di Iron & Wine. Raffinatissimo e insieme ecumenico ai limiti del populismo (che come equilibrismo è rimarchevole, ma d’altronde non è che gli Steely Dan fossero un gruppo underground), “Ghost On Ghost” è perfettamente in sintonia con il revisionismo che imperversa in materia di soft rock (molto soft) anni ’70. Si sta rivalutando addirittura Christopher Cross (che ne penso? non ho ancora trovato il coraggio di riascoltarlo) e non sembra allora sfacciato che un brano come New Mexico’s No Breeze faccia chiamare in causa (sono tre decenni che scrivo di musica e dev’essere la prima volta che li cito) Seals & Crofts. Non quasi a fondo corsa, non dopo che l’album si è aperto con una Caught In The Briars un po’ Steve Miller e un po’ Jimmy Buffett, subito seguita da una The Desert Babbler che ascoltarla e immaginarsela da James Taylor è una cosa sola. Ben che gli vada, Samuel Beam diventerà piuttosto ricco. Mal che gli vada, un Jonathan Wilson del 2030 si farà ispirare da scorci di Laurel Canyon dell’anima chiamati Joy, Grass Widows, Winter Prayers. Mentre dal suo canto un coevo DJ Shadow campionerà il funky-jazz di Singers And The Endless Song e di Lovers’ Revolution.

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Velvet Gallery (22)

Featuring Posies, Young Fresh Fellows, Green Pajamas, Box Tops, Big Star, dB’s, Green, Chills, They Might Be Giants. Il mio 25% di uno dei tanti (forse troppi) articoli a più mani che caratterizzarono la storia di “Velvet”.

Di tutto un pop 1

Di tutto un pop 2

Di tutto un pop 3

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Pearls Before Swine – One Nation Underground

Sulla linea di confine fra i dischi “di culto” e quelli da isola deserta.

Pearls Before Swine - One Nation Underground

Singolari incroci: a otto anni Thomas D. Rapp si piazzava al posto d’onore in un concorso per giovani talenti svoltosi in Minnesota in cui un più grandicello Robert Zimmerman (non ancora Bob Dylan) arrivava quinto; terminato il college, si iscriveva all’Università di Melbourne, Florida, la stessa frequentata da Jim Morrison. Non sarebbe assurto alla fama stellare né dell’uno né dell’altro. Come il primo è invecchiato con grazia, però lontano dal mondo della musica. Al contrario del secondo ha preferito vivere ed è rimasto un oggetto di culto piuttosto che un’icona che, trent’anni dopo gli eventi, ancora campeggia sui muri delle stanzette degli adolescenti.

Riesce per l’ennesima volta, in una bella edizione su CD curata dall’olandese Calibre (tre anni fa l’aveva pressato su vinile da audiofili la nostrana Get Back), “One Nation Underground”. Con il successivo “Balaklava” è il solo dei nove LP pubblicati fra il 1967 e il 1973 da Tom Rapp (i primi quattro a nome Pearls Before Swine; il quinto e sesto con doppia attribuzione; gli ultimi tre da solista: invisibili le distinzioni) rimasto costantemente disponibile nell’ultimo quarto di secolo. L’inatteso ritorno in scena del nostro uomo, di cui dirò più avanti, potrebbe infine propiziare una riedizione dell’intero catalogo. Prendetela come una preghiera rivolta a quel paio di marchi che, in Italia, si occupano di riedizioni. Lo faccio per voi, figlioli: io sono già fornito e mi dispiace assai che la cronica irreperibilità renda i lavori di Tom Rapp materiale da mercanti di rarità. Per intanto – se non vi va o non potete spendere troppo e magari un giradischi (poveretti voi!) manco l’avete – almeno la Nazione Underground dovreste mettervela in casa.

L’album vedeva la luce nel 1967 per i tipi della newyorkese ESP, etichetta di larghissime vedute che concedeva agli artisti ingaggiati il totale controllo della propria opera. Le dobbiamo, oltre a diversi capolavori della New Thing jazzistica (per limitarsi ai nomi più noti, classici di Albert Ayler e Ornette Coleman; oltre a una manciata di titoli dell’irregolare per antonomasia Sun Ra), il protopunk orgiastico dei Godz e il caustico folk politicizzato di Fugs e Holy Modal Rounders. Ancora altra cosa il folk-rock in acido delle Perle Davanti Ai Porci (nome preso dal Nuovo Testamento, avrete inteso; Matteo 7:16): semplice e raffinato insieme, all’incrocio fra pastorale, barocco, exotica, elettronica primitiva. Scorrete l’elenco degli strumenti adoperati. Oltre ai canonici chitarra, basso e batteria vi figurano banjo e oscillatori, mandolino e sarangi, celeste, cimbali, corni, vibrafono, clavicembalo e clavioline. Manca il theremin, che ci sarebbe stato da meraviglia. Contano? Eccome, e non solo come valore aggiunto all’incessante srotolare di arpeggi e alla voce peculiarmente blesa e perciò inconfondibile del Thomas D. Rapp. È tale la loro pregnanza melodica che otto di queste dieci canzoni starebbero in piedi benissimo nella più sobria delle vesti. Fanno eccezione le ultime due, le sole creazioni di gruppo: quel The Surrealist Waltz il cui titolo già dice tutto e l’epopea di I Shall Not Care, una parte di folk bucolico, una di innodia garagista à la Seeds, una di ondivago ragarock. Nondimeno a tutte le altre gli intarsi degli arrangiamenti regalano ulteriore grazia lunare, tono favolistico che incanta e scuote. Another Time: dolcissima. Playmate: percorsa da un organetto irrestistibile e inequivocabile inchino dinnanzi a Dylan. Ballad To An Amber Lady: ricamata di splendide armonie vocali. (Oh Dear) Miss Morse: campagnola e futurista insieme. Drop Out!: un omaggio implicito, prima di quelli espliciti, a Leonard Cohen. Morning Song: ideale congedo da viaggi compiuti restando fermi. Regions Of May: marcetta astrusa e gentile. Uncle John: primaverile pioggerella di percussioni a bagnare un basso tondo e minimale.

I Pearls Before Swine (in questo primo LP, con il leader, Wayne Harley, Lane Lederer e Robert Crissinger; più avanti sempre più Rapp e chi capita) rifuggono le esibizioni live, singolare comportamento che anziché danneggiarli rinforza l’aura di mistero che li avvolge. “One Nation Underground” vende centomila copie, risultato stupefacente all’epoca per una indipendente con problemi di distribuzione. È quasi altrettanto fortunato il successivo, al pari stupendo, “Balaklava”. Medesimo il tono, ancora inquietante la copertina, riproduzione del Trionfo della morte di Bruegel il Vecchio (su quella del primo potete ammirare un particolare del Giardino delle delizie di Hieronimus Bosch). Si fa però meno fra le righe la critica all’America impelagata nel Vietnam, si avverte amarezza, impotenza fra le tessiture di un suono aulico (in scaletta la prima di diverse riletture di Cohen, una struggente Suzanne). Di quanto verrà dopo – il contratto con la Reprise, la fuga del manager con in saccoccia l’anticipo ricevuto (qualcosa come 150.000 dollari), il decrescente successo di album tuttavia sempre apprezzabili e talvolta memorabili (non fosse che per The Jeweler, “The Use Of Ashes” merita l’acquisto; e “These Things Too” è straordinario in toto), il ritiro dalle scene del Nostro – potete leggere su qualunque enciclopedia rock degna di tal nome. A meno che non ne abbiate una aggiornatissima, non potrete però leggere di un ritorno tramato da quei bei tomi della rivista “Ptolemaic Terrascope”, che sono andati a rintracciare Tom Rapp nello studio legale di Philadelphia, specializzato nella difesa delle minoranze, dove lavora da molti anni e lo hanno persuaso dapprima a partecipare a un festival, quindi a entrare in sala d’incisione. Il conseguente “A Journal Of The Plague Year” ha testimoniato un talento ancora vivissimo.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.438, 17 aprile 2001.

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Meat Puppets – Rat Farm (Megaforce)

Meat Puppets - Rat Farm

Leggo giudizi trancianti da colleghi che stimo (e tanto di più lo sono – trancianti – perché non disgiunti da espressioni di affetto per un gruppo che volle dire tanto) su questo nuovo album dei Meat Puppets, il quattordicesimo in studio, il quarto di una seconda e anzi terza vita principiata male nel 2007 con lo stentato “Rise To Your Knees” e poi proseguita meglio. A me “Sewn Together” piacque, “Lollipop” di meno ma comunque abbastanza. Leggo giudizi trancianti, capisco il ragionamento che ci sta dietro e in parte posso condividerlo. Riassumendo: laddove almeno alcuni artisti di una o più leve prima sono riusciti a mantenersi vitali, propositivi, c’è un’intera generazione che rese la seconda metà degli ’80 degna di essere vissuta che da tempo si è arresa a un reducismo un po’ triste. Arduo contestarlo. Arduo negare ad esempio, restando sul pezzo, che negli interi quarantasei minuti che dura “Rat Farm” non spiri un refolo dell’uragano che soffia dall’ultimo Swans. Perché Mission Of Burma e Wire riescono ancora a parlare a questo nostro tempo e i Meat Puppets ci parlano solo dei bei tempi che furono? È qui che il mio giudizio diverge dai colleghi di cui sopra. Non direi che quella musica – per comodità di discorso: l’alternative che ancora non si chiamava alternative bensì college – avesse un senso e un valore solo in quel momento lì, gli anni ’80. Direi piuttosto che, aderendo a una visione sostanzialmente classica del rock, si condannava ad agire dentro schemi che più facilmente evidenziano la riduzione a mera messa in scena di ciò che fu autobiografia. E allora o continui a scrivere canzoni straordinariamente memorabili o l’irrilevanza è il tuo destino. Il problema non è la forma in sé, è l’ispirazione. Io la vedo così.

Sempre stati un family affair i Meat Puppets, o quasi sempre. Non lo erano per cause di forza maggiore a un tristissimo incrocio fra lo scorso secolo e questo, con Cris Kirkwood più morto che vivo (la moglie morta e basta), ora in galera e ora a provare a liberarsi dalla scimmia, e il fratello Curt messo non granché meglio a tenere malamente in piedi la ditta. Iattura invece che benedizione quelle tre canzoni loro eseguite dai Nirvana a/su “MTV Unplugged” a memento di quanto fosse stato strepitoso il primo decennio del trio dell’Arizona: partito dall’hardcore per approdare presto a una sua peculiare forma di post-Americana, un po’ ZZ Top e un po’ Grateful Dead, un po’ Gram Parsons e un po’ Crazy Horse. Mancante all’appello lo storico batterista Derrick Bostrom, i Kirkwood provavano a rinnovare comunque il sodalizio nel 2007 con “Rise To Your Knees”, ma era una falsa ripartenza. Dal successivo di due anni “Sewn Together” non ci si attendeva nulla, al di là della dignità, e finiva allora per somigliare a un miracolo che la scrittura riprendesse invece la consistenza dei tempi belli, che il suono sembrasse di nuovo focalizzarsi.  Migliore prova degli attempati ragazzi dal lontano (1994) e dal titolo premonitore “Too High To Die”. Due ulteriori anni ancora e “Lollipop” provava a dare definitivamente corpo alla rinascita e, senza eguagliare il predecessore, ci riusciva.

Tocca adesso a “Rat Farm”, in occasione del quale il family affair kirkwoodiano si fa al quadrato con l’ingresso in formazione di un figlio di Curt, Elmo, alla seconda chitarra. Con un altro rampollo d’arte, Shandon Sahm (il papà era Doug), sistemato dietro piatti e tamburi, uno azzarderebbe che un vento di gioventù soffi sul disco. Sono in realtà presenze ininfluenti in un lavoro dalla qualità altalenante. Discretamente alta in un paio di ballate byrdsiane, You Don’t Know e Original One, in una spagnoleggiante Waiting, nel trotterellante e graziosissimo country Sometimes Blue. Altrove – in una Leave Your Head Alone giocata sull’alternanza fra il torpido/ipnotico e il nervoso/fratturato – ci si ingegna a ricreare l’eccitazione ipercinetica fra i marchi di fabbrica storici dei Nostri, ma pare appunto un esercizio. Meglio in ogni caso della piattezza senza un guizzo di episodi come Again, Time And Money, River Rose. Meglio di una title-track che sembra di sentire una cover band dei Sublime. I Meat Puppets oggi sono questi. Prendere o lasciare. Io qualcosa prendo sapendo che sì, è pure per me una questione di affetto. Sapendo che sì, mi sto accontentando.

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