Krautrock Files (8): Amon Düül II

Per la seconda volta VMO ospita un articolo tratto dai miei archivi ma altrimenti inedito. A suo tempo lo lesse (forse) giusto John Vignola, che me lo commissionava per un numero 3 mai uscito di “Magic Fuzz”. Così era previsto che si concludesse questa serie di brevi monografie dedicate al rock e alla musica elettronica tedesca dei tardi ’60/primi ’70, non fosse che, cercando altro, mi sono casualmente imbattuto in un altro pezzo ancora tranquillamente ripescabile. E, lunedì prossimo, ripescherò.

Amon Duul II

Sono cresciuto negli anni ’50, in piena era Elvis Presley. Decenne, ero solito vestirmi alla Elvis, scarpe scamosciate blu e tutto il resto. Il passo seguente, un balzo gigantesco, fu vedere John Coltrane nel 1965. Quanto avevo ascoltato sino a quel momento mi parve improvvisamente immaturo. Mi lanciai nella scena free jazz. Frequentavo i club di Monaco e di Barcellona, desideroso di saperne sempre di più su questa musica. La tappa successiva della mia educazione musicale fu Jimi Hendrix. Era il 1967. Nei locali che bazzicavo la presenza femminile era inesistente e mi trovai a seguire una ragazza fin dentro a un nuovo club nel quale non avevo mai messo piede. Fuori c’era un poster che pubblicizzava un concerto di questo tizio. Fu un’epifania vederlo suonare in un locale dal palco minuscolo con dietro un muro di Marshall e davanti quattrocento adolescenti in minigonna urlanti. Jimi diede fondo ai suoi trucchi quella sera: fece assoli con i denti e si congedò dando fuoco allo strumento. Finito il concerto, tornai a casa e feci a pezzi i miei dischi di jazz.” (Chris Karrer)

Pure questo delitto, oltre ai completini dei Kula Shaker e a una serie di epigoni da fare accapponare la pelle (a me accade ogni volta che sento definire un chitarrista “hendrixiano”), bisogna dunque imputare al buon Jimi? Un possibile John Coltrane, un ipotetico Ornette Coleman teutonici scippati al mondo da una vile pulsione ormonale: ain’t that a shame? Ma siccome la carriera a seguire di Herr Karrer, soprattutto il primo settennato, fu prodigiosa, è d’obbligo essere clementi e anzi grati. Tanto più che non sta scritto da nessuna parte che, non si fosse imbattuto in Hendrix, Karrer sarebbe divenuto, se non un secondo Coltrane, almeno un altro Peter Brötzmann (dai! ci è andata bene così). Ciò che sta scritto nel romanzo del rock europeo a cavallo fra i tardi anni ’60 e la metà dei ’70, nel capitolo più intrigante, quello tedesco, è che Chris Karrer avrebbe subito radicalmente reimpostato il trio devoto a Coleman che lo vedeva affiancato da Lothar Meid al basso e dal futuro Embryo Christian Burchard alla batteria e poco dopo lo avrebbe dissolto per imbarcarsi in un’avventura ora tornata d’attualità. Nel momento in cui scrivo (inizio di febbraio) è da poche settimane nei negozi “Live In Tokyo”, secondo prodotto discografico di una reunion di cui è responsabile un altro disco dal vivo, inciso molto tempo prima. Nel 1992 vide la luce un “Live In Concert”, assemblato con nastri del ’73, che venne ben ricevuto dalla stampa e conquistò nuovi adepti a un culto che languiva ormai nella clandestinità. Sull’onda del rinnovato interesse, Chris Karrer, Lothar Meid e Renate Knaup riesumarono la sigla Amon Düül II per puro sfizio e per un concerto. Trionfale. Altre pubbliche esibizioni seguirono (soprattutto in Giappone, ove i Nostri hanno recuperato lo status di rockstar) e due anni fa è uscito un album in studio che i cronisti, concordi, hanno giudicato più che dignitoso, assai superiore alla (a dire il vero sconfortante) media della produzione düülliana della seconda metà dei ’70.

Certo: “Nada Moonshine” non è un nuovo “Yeti” (sarebbe stato un miracolo, riuscito d’altro canto ai Faust il cui “Rien”, uno degli LP più memorabili del 1996, è un lavoro modernissimo che non ha niente da invidiare alle pagine migliori di un passato straordinario). E bisogna ammettere che l’importanza degli Amon Düül II rispetto ai conterranei e coevi Faust, Can, Ash Ra Tempel e Kraftwerk (e all’elenco si possono forse aggiungere i Cluster, i primi Tangerine Dream, i Neu! e i La Düsseldorf) va ridimensionata, dacché ove quelli hanno esercitato, e continuano a esercitare, un’influenza enorme sull’evoluzione del rock e delle musiche che lo ibridano, pochi e dappoco hanno seguito le orme dei Bavaresi. Ma ciò nulla può e deve togliere alla statura della prima mezza dozzina di 33 giri dati alle stampe, fra il ’69 e il ’73, dal gruppo di Monaco. Dischi la cui grandezza non è stata nemmeno scalfita dallo scorrere del tempo e che suonano tuttora, come dovettero suonare all’epoca, oggetti alieni: non perché di un altro mondo ma perché in loro impressioni musicali dei quattro angoli di questo mondo vengono intrecciate in trame inestricabili  con una sensibilità che è più che peculiare, è altra.

La vocazione al superamento di ogni confine, terrestre e non, venne espressa da Karrer già nella ragione sociale scelta per il trio fondato prima che Hendrix gli cambiasse la vita, ragione sociale che accostava al nome del dio del sole degli antichi egizi la storpiatura di una parola turca che significa luna: Amon Düül, dunque. Un nome che sopravvisse allo scioglimento di quel primo gruppo e si ritrovò nel 1967 (il luogo è sempre Monaco di Baviera) a indicare una comune hippie di cui facevano parte in principio una dozzina fra attivisti politici, artisti psichedelici e musicisti. Questi ultimi erano Karrer, Meid e Burchard, il chitarrista Rainer Bauer, il bassista Urlich Leopold e suo fratello Peter, valente batterista, poi raggiunti dal tastierista Falk-Urlich Rogner e dalla giovanissima cantante Renate Knaup, reduce da un soggiorno londinese. Si suonava in libertà fra le mura dello spazioso appartamento in Prinzregentenstrasse dal cui balcone aveva una volta parlato il giovane Adolf Hitler, ma presto si produssero contrasti fra chi della musica aveva una visione amatoriale e quanti aspiravano al professionismo. E così al debutto dal vivo nell’ottobre del fatidico ’68, all’Essener Sonntag Pop Festival, il gruppo si presentò già diviso. Sul nome non si litigò: la frazione Bauer-Leopold (Urlich) si presentò come Amon Düül, il quartetto Knaup-Karrer-Rogner-Leopold (Peter) come Amon Düül II.

Me la sbrigherò in fretta per dire dei primi: dediti inizialmente a lunghe improvvisazioni free form fra psichedelia e rumorismo hanno all’attivo due soli veri album, “Psychedelic Underground” e “Paradiesärts Düül”. Il primo è un frammento di una lunga seduta in sala d’incisione dai cui nastri vennero in seguito ricavati i superflui “Collapsing…”, “Disaster” e “Experimente”. Trattasi di un’improvvisazione fricchettona ove dominano le percussioni, informe e con rari sprazzi di lucidità. Altra storia è il secondo, singolarissima unione di folk-rock vagamente alla Traffic, echi di 13th Floor Elevators, Red Crayola e Velvet Underground e musica popolare teutonica e slava. Un LP da avere, lettori diletti, magari nell’attuale edizione su CD arricchita da due belle canzoni a suo tempo relegate su un 45 giri. Ascoltandolo, non si può fare a meno di pensare che furono un’occasione mancata gli Amon Düül, che c’era in loro del talento che da “Psychedelic Underground”, la cui cosa migliore è la copertina, non traspare.

Espressero viceversa in pieno le loro potenzialità gli Amon Düül II dell’epoca aurea, sin da quel “Phallus Dei” (che titolo!) che li battezzò e che, a dispetto di una produzione deficitaria, mette già bene a fuoco la loro psichedelia cosmica ed epica, germanica al cubo eppure venata di influenze d’Oriente oltre che di California e Texas. È un disco insieme (mi si perdoni la contraddizione in termini) monolitico e variegatissimo. Un momento cita il più classico garage americano, un attimo dopo preconizza i Roxy Music, ancora un istante e sono gli High Tide ad affacciarsi al proscenio. Il brano che lo intitola e ne occupa per intero la seconda facciata disegna alcuni fra i più suggestivi paesaggi lovecraftiani (altro possibile referente letterario è il Tim Powers, pure ancora a venire, di Le porte di Anubis) che mai si siano uditi in musica. È maligno ma gioioso, perfido e monello. E insomma, non lo aveste capito, un capolavoro.

Fra l’esordio dal vivo e quello su vinile la formazione si era allargata a ottetto, con l’arrivo del chitarrista John Weinzierl, del bassista dal passaporto britannico Dave Anderson, di un bonghista, tale Shrat, e di un secondo batterista, Dieter Serfas. Annoto che sono gli stessi, Serfas escluso, che scolpirono la pietra miliare “Yeti” e nel contempo appunto che l’organico nell’equazione Amon Düül II è sempre stato una variabile: i musicisti andavano, venivano, ritornavano, riscomparivano ed è capitato che il gruppo si recasse in tour a promuovere un album con una formazione diversa da quella che si era ritrovata in studio. E nonostante ciò, fino al 1973, qualunque squadra si trovasse a giocare lo spettacolo fu all’altezza della fama, grande tanto in patria che, sponsor il solito John Peel, oltre Manica.

“Yeti”, allora. Un monumento di proporzioni intimidenti che lo sguardo non riesce mai ad abbracciare per intero da una sola prospettiva. Tocca girarci attorno, osservarlo da diverse altezze e in differenti condizioni di luce e dedicare al suo studio giorni interi per illudersi di averlo compreso e memorizzato. Illudersi, appunto. Quando vi punterai nuovamente sopra lo sguardo, al baluginio improvviso di un lampo ti si imprimerà sulla retina un’immagine inattesa e inedita. È il primo LP degli Amon Düül II da procurarsi questo doppio, non soltanto perché è il migliore ma anche perché è quello che meglio ne riassume la composita ispirazione, dal caracollante assalto metapunk che lo apre, Soap Shock Rock, al folk stralunato e dolcissimo di Sandoz In The Rain, con cui si congeda celebrando l’avvenuta riconciliazione con i fratelli divisi Rainer Bauer e Urlich Leopold, lì presenti come ospiti. Su ciò che sta in mezzo si potrebbero scrivere pagine e pagine delirantemente apologetiche, ma non voglio annoiarvi. Se non lo conoscete procuratevelo, questo possibilmente nella fascinosa confezione vinilitica con tanto di copertina apribile. Fate cadere la puntina sull’inizio del secondo lato e che il proto-metal da Sturm und Drang della classicissima Archangels Thunderbird sia con voi. Fatela scorrere sul terzo, monopolizzato dalla title-track, e immergetevi in un fluido divenire in cui i Pink Floyd di A Saucerful Of Secrets sfumano nei Can di Mother Sky e nei Velvet di European Son (bravo, Julian!) e si trasformano poi, testimoni gli MC5 e Sun Ra, in antesignani dei Pere Ubu.

Inevitabilmente inferiori, i tre 33 giri seguenti basterebbero comunque a ritagliare agli Amon Düül II una parte di rilievo nell’epopea del krautrock. Magari non “Tanz der Lemminge”, che offre cose buone e anche ottime ma manca di continuità e paga lo scotto di un’assenza pesante, quella di Renate Knaup. “Carnival In Babylon” e “Wolf City” però sì. Il primo è amabilmente folk, sulla scia di Sandoz In The Rain. Il secondo è il più compatto dei dischi dei Nostri, quello in cui maggiormente si avvicinarono alla forma canonica della canzone pop-rock senza per questo perdere in originalità. Possente, hardelico, con la postilla del di poco successivo “Live In London”, appose la parola fine all’Età dell’Oro dei Bavaresi.

Di ciò che venne dopo quasi non merita riferire: complici la graduale defezione dei membri storici, a partire dalla Knaup, transfuga nei Popol Vuh, e le pressioni di discografici ingordi, quello che era stato uno dei gruppi più originali del rock germanico si trasformò in un anonimo complesso in bilico fra progressive, hard e canzonetta. Tolto qualche episodio di “Vive la Trance” e di “Vortex”, che vide nuovamente all’opera dopo tanti anni la formazione originale, quanto pubblicato fra il ‘74 e l’81 risulta imbarazzante.

Un motivo in più per guardare con simpatia a “Nada Moonshine”, anche se non cambia un dato di fatto: che gli unici Amon Düül II che vale la pena di conoscere sono quelli “before 1973”.

Scritto nel febbraio 1997. Inedito.

5 commenti

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5 risposte a “Krautrock Files (8): Amon Düül II

  1. posilliposonica

    Germania pallida madre.
    ” Gli Amon Dull sono l’anello mancante tra la Baader – Meinhof e
    R. Fassbinder”. (anonimo)

    p.s. Non è la prima volta che citi Lovecraft.Presumo che ne apprezzi
    l’opera.Ho una curiosità:ti ricordi qual è il primo suo racconto che
    hai letto ? Il mio è stato “Alle Montagne della Follia”. Ciao.

  2. posilliposonica

    Germania pallida madre.
    La “mia”, opinabilissima, sugli Amon Dull II che ho ascoltato:
    Phallus Dei : il mio preferito.
    Yeti : il primo che ho incontrato.Un classico.
    Tanz Der…: forse velleitario,sicuramente coraggioso.
    Carnival in Babylon:mi ha deluso.
    Wolf City : equilibrato e dignitoso ritorno alle atmosfere iniziali.
    Vive Le Trance : il gioiellino nascosto ?

  3. paolo stradi

    Essendo passati molti anni da quando il KrautRock ha tirato le quoia è giunto il momento di dirla tutta: è stato un genere largamente sopravvalutato, da me compreso. Non mi piace giudicare un’opera di qualsiasi genere etichettandola come “datata”, al massimo siamo noi che cambiamo, la nostra sensibilità. Ma qui mi sembra davvero che rimanga assai poco, e molto di quel poco à legato alla nostalgia per i nostri pochi anni di allora.

    • E’ dai primi ’90 che una parte assai rilevante di quanto accade nel rock evidenzia una discendenza diretta o indiretta da ciò che successe in Germania fra la fine degli anni ’60 e il giro di boa dei ’70. Poco di quanto è accaduto nella storia del rock ha conservato nei decenni una simile, straordinaria freschezza e insieme la capacità di influenzare costantemente l’attualità. La nostalgia in questo caso c’entra meno di zero. Al di là del fatto che chi scrive (così come, suppongo, molti di quelli che leggono) al krautrock c’è comunque arrivato (proprio per ragioni generazionali) con parecchi anni di ritardo. Nostalgia di ciò che manco si è vissuto?

      • Francesco

        Concordo sulla perdurante influenza krauta, e non solo nell’orrida gestione della cosa economica in europa! comunque tra i krauti gli amon dull sono stati i primi a girare sul mio giradischi grazie ai soliti fricchettonissimi amici più grandi ma devo anche dire che sono stati i primi a uscire dal medesimo e a breve non ne prevedo la rispolverata. Per loro mi è successo quello che mi è accaduto con i jefferson: grande amore, ascolti a go go e infinite discussioni sul perchè mi piacevano anche loro oltre ai clash e talking heads (ve le ricordate queste adorabili discussioni?). Poi, bum, non sono più riuscito ad ascoltarli e come se fossero diventati ad un tratto “legnosi”, posso giusto ricordare frederick, white rabbit e embryonic journey come saltuari ascolti volontari nel corso degli ultimi 20-25 anni, facciamo quasi 30 va, ad abuntantiam. mentre altri californiani hanno sempre un posto nella mia razione musicale se non giornaliera almeno settimanale, i jefferson sono proprio spariti e lo stesso dicasi per gli amon dull, mentre per dire ieri l’altro mi sono risparato in der garten e ieri ege bamyasi.

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