Avrebbe settant’anni oggi, Jimi Hendrix, e chissà che tipo di settantenne sarebbe: se alla Neil Young (che quel traguardo non lo ha ancora tagliato ma inizia a intravvederlo all’orizzonte) o alla Lou Reed, o alla Dylan (che a settanta già ne hanno aggiunto uno e fa paura dirlo). Una cosa è certa: sarebbe un settantenne di successo. Lo è. A poco meno di un mese dalla pubblicazione, il suo ennesimo album postumo è oggi ventesimo nella graduatoria di “Billboard” e questo dopo avere raggiunto uno stupefacente numero due, due posizioni sopra quel “Valley Of Neptune” che lo precedette di tre quasi esatti anni. E d’accordo che per entrare in classifica attualmente non servono chissà quali numeri (per gli LP valeva però in realtà pure nei ’60) e nondimeno è una performance pazzesca per una collezione di incisioni che formalmente sono sì tutte inedite ma in realtà non regalano ai cultori vere sorprese. Siamo tutti (trentenni inclusi, ventenni chissà) così disperati, così rassegnati all’incapacità del rock odierno di proporre qualcosa che non sia una riproposizione, di suscitare un’emozione che non sia da poco, da eccitarci per gli scarti degli scarti di un genio scomparso quarantatré anni fa? Che diamine: sì.
Nella troppo ricca discografia post-’70 hendrixiana (e limitandosi a quella ufficiale ovviamente, il resto è nella quasi totalità spazzatura) sono chiaramente individuabili tre periodi. Un primo inizialmente dignitoso e via via sempre meno (i quattro album di valore bruscamente decrescente pubblicati sotto l’egida del manager Michael Jeffery, quantomeno esenti da manipolazioni troppo vistose); un secondo indecoroso (la tristissima era Alan Douglas, apoteosi di sovraincisioni insensate); un terzo – propiziato dal rientro degli archivi nella disponibilità della famiglia del chitarrista – che ha regalato meraviglie da restare senza fiato. Si cominciava nel 1997 con il favoloso “First Days Of The New Rising Sun” (la migliore approssimazione immaginabile di come sarebbe stato il quinto album del Nostro fosse mai arrivato a completarlo), doppiato quello stesso anno dal molto meno coeso ma lo stesso ottimo “South Saturn Delta” e si immaginava che sarebbe finita lì, per quanto riguardava i dischi in studio (fioccavano in compenso i live), fintanto che nel 2010 il sunnominato “Valley Of Neptune” non dispensava ancora spiccioli di immensità. Lì lo si diceva: sarà finita qui. Tocca invece a “People, Hell And Angels” chiudere – e ad affermarlo è Eddie Kramer, che fu tecnico del suono per la maggior parte delle millecinquecento ore (!) di registrazioni accumulate da Jimi – la serie. Ci saranno ancora dei concerti, o delle collezioni di incisioni dal vivo di varia provenienza, ma per il resto i forzieri si sigillano. Questo è quanto di compiuto (come da regola aurea in vigore dal ’97) vi era rimasto dentro.
Contrariamente a “First Rays”, tale e quale a “South Saturn Delta” e a “Valley Of Neptune”, questa “nuova” uscita hendrixiana va giudicata non da album ma da antologia. Si sarà allora meno severi rispetto a un’ulteriore Hear My Train A-Comin’ (però forse la più memorabile; per certo la più rabbiosa), idem a una Bleeding Heart e a una Izabella ancora, all’errebì esultante ma fuori contesto Let Me Move You, a una Mojo Man che manco è di Hendrix bensì dei Ghetto Fighters. Se non imperdonabili, risulteranno dispensabili giusto la jam Inside Out (sul serio Hendrix “by numbers”) e l’abbozzo tutto da sbozzare Villanova Junction Blues. Faccio di conto. Sette su dodici. Parrebbe (al di là del fatto che resta un bel sentire) una mezza bocciatura e invece no, siccome il resto si aggira nei dintorni dell’irrinunciabile, partendo da un Earth Blues che funkeggia gioiosamente, proseguendo con una Somewhere giocata sul contrasto fra la ritmica rilassata e la solista ustionante, con un felpato Easy Blues, con una Crash Landing che adombra un Curtis Mayfield all’epoca inaudito. La mia preferita quest’ultima, alla pari con l’onirica, acquatica Hey Gypsy Boy. Ce ne fosse di rock anni ’10 così… ce ne fosse!
Hendrix è stato il Bach nero, quindi ogni cosa che ha suonato (e bastano un paio di secondi per riconoscerlo) va ascoltata a prescindere, ché qualcosa da imparare, o di cui gioire, si troverà sempre.
e insomma…ascoltati tutta la pletora dei dischi postumi anni 70 e poi mi fai sapere..
“Qualcosa”, infatti, non tutto; a volte di più, a volte di meno, ma sempre qualcosa.
Siamo messi male in questi anni ’00 e ’10 se un gran disco come questo è nato con il suo autore morto da 40 anni.
Eddy, quali sono i libri di testo consigli per approfondire Hendrix ?
Quando qualche anni fa scrissi un lungo articolo su Hendrix per “Extra” usai come testo di riferimento “Room Full Of Mirrors” di Charles R. Cross. E’ una buona biografia.
Grazie Eddy, provvedo subito.
… ed è per questo che spesso e volentieri i miei ascolti sono incastonati tra i Sixties e la fine degli anni ottanta. Attualmente ci sono alcune band valide in grado di tirar fuori alcuni spunti degni di nota, ma raramente un album coeso che ti faccia sobbalzare dalla sedia. Se hai voglia di fare un salto sul mio blog troverai alcune chicche molto interessanti, velate (come nostro costume) da una malcelata patina di ironia 🙂 Ciao! http://raisedonmelodies.blogspot.it/