Archivi del mese: Maggio 2013

It’s Jo And Danny: quelli a bocca aperta (che siamo noi)

Chi si ricorda più di It’s Jo And Danny? O meglio: quanti oggi li conoscono? Per certo ne conservano memoria tutti coloro che nel 2000 furono messi al tappeto da un esordio quietamente clamoroso. Sfortunatamente, i pur gradevoli lavori successivi non ne erano all’altezza. Sfortunatamente, l’hype si spegneva presto e al suo estinguersi contribuivano scientemente proprio i nostri amici. Per poi celarsi al mondo dietro un’altra ragione sociale (The Yellow Moon Band) per la quale qualcuno avrà pur speso qualche buona parola ma io non ne ho mai letto alcuna. Quel che fondamentalmente ci resta di costoro è un singolo, splendido album da ascrivere senza “se” e senza “ma” alla categoria “dischi di culto”.

It's Jo And Danny - Lank Haired Girl To Bearded Boy

Tante cose mi sono piaciute dell’esordio di questi due tutt’altro che debuttanti che rispondono ai nomi di Jo Bartlett (la ragazza dai capelli lisci) e Danny Hagan (il ragazzo barbuto): naturalmente le canzoni; poi una registrazione, artigianale ma di grande raffinatezza, esemplarmente attenta al dettaglio, che restituisce al lo-fi un senso e  vestigia di buon nome; quindi una copertina di cui dirò più avanti; infine, persino i titoli delle canzoni. Che fanno venire in mente vecchi Urania sgualciti (Solar Plexus) o fumetti ingenuamente trasgressivi (Benbecula, che poi chissà che vuol dire; tacerò cosa mi ha riportato alla memoria), volumi di salmi (Repentant Song, Pilgrim’s Prayer) e sbiadite istantanee di lontane Estati dell’Amore per  qualcuno mai finite (Hippy Thinking, Love Expression). Il mio preferito è il nono e ultimo, The Ones With Open Mouths, quelli a bocca aperta.

Che siamo noi di fronte a un lavoro che lancia ponti fra il folk acido d’antan e i Portishead, via Mazzy Star, e solo tanto per cominciare. Che sono Jo e Danny messi dinnanzi alle infinite possibilità offerte dal pentagramma. Prima ancora che dei musicisti innanzitutto dei fans, come certifica il soggiorno di casa immortalato in copertina. Sulla parete di fondo uno scaffale stracarico di LP in vinile. Sul pavimento, in studiato disordine, fra un vassoio con resti di colazione, bottiglie di vino, libri, una chitarra e un mixer (che è probabilmente quello utilizzato per registrare “Lank Haired Girl To Bearded Boy”), giacciono alcuni dischi. Si riconoscono “4” dei Chieftains, il Velvet Underground con la banana e vicino gli Orange Juice, il primo Bob Dylan e “Straight Outta Compton” degli N.W.A. Tutte influenze dichiarate dalla nostra coppia e converrete che è un insieme ben strano, dacché se si può (rin)tracciare, con qualche forzatura, una linea che congiunge i Chieftains con il bardo di Duluth e gli Orange Juice si potevano dire in qualche misura discendenti dai  Velvet (soprattutto ipotizzando un universo parallelo nel quale Lou Reed aveva come sodale, invece di John Cale, Arthur Lee dei Love), ci si chiede cosa c’entri la posse che fu dello sfortunato Eazy E. Del cui influsso non vi è sentore in un disco che approda al sognante folk-pop con chitarre bluesy di The Ones With Open Mouths partendo dagli otto minuti di acustiche a spron battuto che man mano si elettrificano/irruvidiscono/illividiscono (mentre sotto, sopra, di fianco scorazzano rumori volanti non identificati) di Solar Plexus. Un gioiello di psichedelia senza tempo.

Tappe intermedie: Hippy Thinking, un incontro a mezza via fra Incredible String Band e Belle & Sebastian che se me l’avessero raccontato non ci avrei creduto; Benbecula, stridii di uccelli, arpeggi sciolti, voce narrante e a congedo un fantasma di giga; Repentant Song, melodia istantanea e coro alla R.E.M.; Love Expression, ossia i Mazzy Star che fanno un picnic con gli XTC; Arkle, elastico incedere di chitarre e percussioni baciato da una tromba di Spagna; Bell’s Corner, frammento di Mille e una notte (in lisergico viaggio); Pilgrim’s Prayer, che sono i Portishead versione bucolica e sotto funghi (non sott’olio). 35’41” in tutto e per una volta, in quest’epoca di CD inutilmente, perniciosamente lunghi, se ne vorrebbe di più. Ma forse, per preservare la meraviglia, quel sense of wonder che fa grandi It’s Jo And Danny, di più sarebbe di meno.

Aspetterò allora con pazienza – aspetteremo, spero – altri dispacci, a partire da un EP annunciato per agosto, da questa coppia conosciutasi ragazzina quindici anni or sono, durante una vacanza alle Ebridi, e trasferitasi a Londra sull’albeggiare dei ’90. Di ciò che è accaduto da allora a oggi so poco, giusto quanto racconta il libretto e quel che ho raccattato frugando fra i ritagli di una cartelletta stampa gonfia di elogi come di rado capita per degli sconosciuti che si sono fatti un album in casa e se lo sono pubblicati da soli, perché nessun discografico (o tempora!) ha avuto orecchie per intendere. Scarne note che parlano di un gruppo chiamato Go! Service che suonò di spalla ai misconosciuti giganti Television Personalities e diventò poi Blue Train, pubblicando con tale ragione sociale un paio di 45 giri che oggi cambiano di mano  a trenta-quaranta sterline ciascuno. Di un altro di nome Jumprope, il cui grunge melodico riscosse consensi e un “singolo della settimana” (che non si nega a nessuno) da qualche parte, ma durò un mattino. Di un altro chiamato Plaza che si estinse anche più in fretta.

Non avendo l’animo dell’archivista, vi confesserò che non mi interessa nemmeno saperne di più. Che quasi quasi mi dispiace che Mister Hagan e Miss Bartlett abbiano un passato (che peraltro loro stessi tendono ad accantonare; perché non rispettare questa voglia di oblio?). Avrei preferito pensare a “Lank Haired Girl To Bearded Boy” come a un disco uscito dal nulla. Completamente innocente. Uno di quei piccoli miracoli che il pop britannico dispensa con parsimonia e che, sì, lasciano a bocca aperta.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.394, 25 aprile 2000.

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The Postal Service – Give Up (Sub Pop, 2003; ristampato 2013)

The Postal Service - Give Up

Sarò sincero: quando nel 2003 “Give Up” – frutto rimasto unico del sodalizio fino a prova contraria estemporaneo fra Ben Gibbard (Death Cab For Cutie) e Jimmy Tamborello (Dntel e Figurine) – vide la luce me lo filai poco, ma poco davvero. Per non so quale ragione diversamente da tanti altri titoli Sub Pop non me ne arrivò copia e, rubacchiatone un ascolto clandestino, non sentii il bisogno di approfondire. Mi parve caruccio e stop, aggettivo che fino a poco tempo prima mai avrei pensato di accostare a un articolo con la suddetta griffe e forse ciò avrebbe dovuto mettermi in guardia. Stupore di fronte a un successo che non era solo di critica ma anche e soprattutto commerciale. Di dimensioni tali (nei soli Stati Uniti si è superato a oggi il milione di copie vendute) da segnare uno spartiacque nella storia dell’etichetta di Seattle. È che “Give Up” ne cambiava proprio la percezione che se ne ha: dopo, l’identificazione mimetica con il grunge non sarà più possibile. Indipendentemente dal giudizio che se ne dà, che si possa e si debba definire il debutto dei Postal Service “epocale” è allora, a dieci anni dall’uscita, semplicemente fuori discussione. Proprio il decennale del lieto evento ha fornito il destro alla Sub Pop per una riedizione “Deluxe”, con il programma originale più che raddoppiato e contenuto in una confezione cartonata spettacolare come poche mi è capitato di vederne dacché l’avvento del CD inferse un colpo mortale all’arte della copertina. E questa ristampa me la sono fatta mandare.

Sarò di nuovo sincero: molto, molto meglio che nel ricordo, “Give Up”. Resta nondimeno uno degli album più facili da raccontare nei quali mi sia mai imbattuto: mi sembrò al tempo e continua a parermi oggi una collezione di apocrifi dei Pet Shop Boys. No, sul serio, la somiglianza è impressionante: stessi schemi, stesse atmosfere, stessi suoni (solo un po’ più lo-fi) e all’incirca stessa voce. Cosa è cambiato? Che quelle che mi parvero delle discrete imitazioni oggi mi sembrano delle signore canzoni, degne in tutto e per tutto di un modello per il quale, per inciso, ho sempre avuto un debole. Un paio sono di caratura superiore: Recycled Air, con i suoi coretti; We Will Become Silhouettes, con un attacco tastieristico da urlo. Belle belle belle e una tantum è piuttosto pregiato pure un corredo di bonus che comprende fra il resto vari remix e due cover-tributo eseguite da Shins e Iron & Wine. E sono arrivato al punto. A un terzo del secondo dischetto emerge un brano immediatamente familiare e che impieghi quei cinque secondi a renderti conto che è a sua volta una cover. È un pezzo che sovrasta quanto lo circonda (primo CD incluso) dalla cintola in su. In materia di pop, un assoluto capolavoro. Imbarazzo rendendosi conto di chi ne è l’autore: tal Phil Collins, lo avrete sentito nominare.

Insomma: uno dei dischi più cruciali dell’indie USA degli ultimi dieci anni è una raccolta di canzoni che i Pet Shop Boys non sapevano di avere scritto e lo zenit della sua riedizione deluxe è una rilettura di Phil Collins. Il dibattito sullo stato di salute attuale di certo rock potrebbe cominciare e finire qui.

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Blow Up n.181

Blow Up 181

È in edicola il numero 181 di “Blow Up”. Il mio principale apporto è un articolo di sei pagine sui Dream Syndicate (domani in concerto al Bloom di Mezzago). Ho inoltre recensito il nuovo album di Seasick Steve, il doppio “The Chiswick Story” e recenti ristampe di Country Joe & The Fish, Climax Chicago Blues Band e Lee Hazlewood.

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Il primo volo magico di Claudio Rocchi

Mi era già venuto in mente almeno un paio di volte di recuperare questo breve articolo, l’ultima a seguire il ripescaggio di un pezzo su Le Orme. Lo riprendo adesso con il senso di smarrimento che mi viene dall’avere appreso stamani, dalla pagina Facebook dell’artista milanese, della terribile malattia che lo ha colpito. Come accennavo in questa paginetta scritta per “Il Mucchio”, anni fa ebbi occasione di incrociarlo fugacemente, ricavandone l’impressione stupenda di un uomo che, già relativamente avanti con gli anni, conservava lo spirito e l’aspetto di un ragazzino. Richiestomi di definirlo con un aggettivo solo, lo avrei detto “solare”. Con due, avrei aggiunto “saggio”. Solarità e saggezza che con ogni evidenza conserva oggi nella disgrazia. A corto di parole che non rischino di sembrare vacue, retoriche, melense, non posso che augurargli due cose: di completare il progetto cui si sta dedicando; di restare sempre e comunque Claudio Rocchi.

Claudio Rocchi - Volo magico n.1

Parola di Claudio Rocchi, che in tal modo intitolava qualche tempo fa una sua raccolta di poesie: “Le sorprese non amano annunciarsi: sono un gruppo rock di fanciulle, suonano nude e sono bellissime”. Non dirò che mi abbia fatto lo stesso effetto entrare da uno dei miei spacciatori di dischi preferiti, intravvedere con la coda dell’occhio due copertine ben familiari sporgere dallo scaffale delle novità e con un unico fluido gesto catturarle entrambe ma… insomma… all’incirca. Certo, ragionandoci su la sorpresa era assai relativa e stupefacente era semmai che, da ormai diversi anni, due titoli classicissimi del pop italiano quali “Viaggio” e “Volo magico n.1” mancassero di nuovo dai cataloghi. E non è certo viceversa una sorpresa che chi infine li ha ristampati (la Sony) lo abbia fatto con così poco rispetto: d’accordo le copertine cartonate che provano a riprodurre – in piccolo – l’esperienza del 33 giri ma, 1), non si è rimasti fedeli agli originali (il retro della confezione dell’esordio era diverso, il davanti di quella del secondo album si apriva in mezzo e non di lato) e, 2), non ci si è degnati di mettere nemmeno due righe a corredo. L’andazzo del resto nel Bel Paese è da sempre questo, laddove altrove le più significative reliquie del passato (e a dire il vero non solo le più significative) vengono omaggiate con riedizioni sontuose, programmi raddoppiati, triplicati, quadruplicati e in allegato libretti che ci vogliono ore a leggerseli. Qui si passa alla cassa e amen e già è tanta grazia se almeno il remastering è stato fatto come si deve: e non è purtroppo questo il caso. Tant’è: le versioni precedenti in digitale non è che fossero impeccabili e i vinili degli anni ’70 rischiate di pagarli assai per poi scoprire che non suonano proprio meravigliosamente (del primo “Volo magico” avevo una ristampa economica che vendetti per disperazione). Tant’è: è d’uopo essere felici e auspicare che, anche con le medesime modalità, si provveda prossimamente a rimettere in circolazione, se non tutto il resto del vecchio repertorio Ariston del nostro eroe, quantomeno “La norma del cielo”, “Essenza” e “Il miele dei pianeti, le isole, le api”. Magari, chissà, propiziandone la scoperta da parte del Devendra Banhart di turno che potrebbe allora propagandare urbi et orbi che nell’Italietta che si inoltrava nei ’70 qualcuno declinava acid-folk stellare.

Esemplare unico, Claudio Rocchi, di enfant prodige capace di invecchiare con grazia (in tutti i sensi: incrociatolo nell’estate 2008 in forza di conoscenze comuni, mi trovavo di fronte un cinquantasettenne che di anni ne dimostrava sì e no quaranta) e dalla vicenda, tanto artistica che umana, talmente singolare che ci vorrebbero pagine e pagine a raccontarla. Qui ne ho a disposizione una, ne ho già utilizzato più di metà e mi limito dunque all’enfant. Al ragazzetto che quindici-sedicenne si ritrovava a suonare il basso con gli Stormy Six e diciottenne a esordire discograficamente con loro, giocando un ruolo chiave in un album dal titolo paradigmatico: “Le idee di oggi per la musica di domani”. Al diciannovenne che decideva di registrarselo in proprio un LP e sulle ragioni della separazione da una compagnia sempre più politicizzata la dirà lunga (per quanto con affetto) la canzone posta a suggello dell’album dopo (“L’unità”) degli Stormy Six: “Fratello, quando l’ultimo sfruttatore, l’ultimo corruttore, l’ultimo carrierista, l’ultimo ipocrita, l’ultimo borghese saranno scomparsi da questa terra, allora sarà giunto il vostro momento di parlarci d’amore”.

Sempre avuto tendenze mistiche, il Rocchi, e quando dopo un decennio di corteggiamenti aderirà agli Hare Krishna (di cui finirà per divenire una figura di primissimo piano) diversamente che nel caso dell’amico Paolo Tofani (degli Area) nessuno se ne stupirà. In “Viaggio” (Ariston, 1970), opera scarnissima con il titolare alla chitarra e al pianoforte e il solo Mauro Pagani a dare una mano alternandosi fra flauto, violino e conga, il brano-fulcro si intitola Gesù Cristo (Tu con le mani) ed è una meditazione sul tema dell’unicità di Creatore e Creato. A fronte di ingenuità testuali post-beat (il “io voglio sposarti, io voglio dei figli da te” di Non è vero a seguire la fuga da casa di La tua prima luna) canzoni come Acqua o Questo mattino accendono illuminazioni di futuro. Pur esibendo melodie di incisività e limpidezza rimarchevoli, musicalmente il disco la trascendenza non la sfiora neppure. Altra faccenda il di un anno successivo “Volo magico n.1”, per il quale si può spendere a ragion veduta e cuor leggero una parola impegnativa come “capolavoro”. Merito di una delle tre composizioni più celebri dell’artista milanese, la miniatura incantata e incantevole di La realtà non esiste (le altre due – provenienti in realtà dalle medesime sedute d’incisione: L’arancia è un frutto d’acqua e Lascia Gesù – finiranno sulla seconda parte del Volo Magico, “La norma del cielo”), ma soprattutto di una prima facciata occupata per intero da una traccia omonima (una mezza dozzina i musicisti coinvolti e fra essi Alberto Camerini) in lisergico transito da un raga a un mantra, a disegni di folk pronti a mutarsi in un rock delle sfere se mai ve n’è stato uno. L’Alan Sorrenti a sua volta immenso di “Aria” prenderà probabilmente nota. “Musica è amore”, canta Claudio a un certo punto di quello che era il secondo lato, prima di congedarsi sull’aria stupenda di piano e mellotron di Tutto quello che ho da dire: non vi ricorda qualcun altro?

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.684/685, luglio/agosto 2011.

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Velvet Gallery (28)

Sarebbe un po’ una domanda tipo “a quale dei tuoi figli vuoi più bene?”, ma se mi chiedessero di eleggere un singolo fascicolo di “Velvet” a rappresentare quell’avventura indicherei il 26, novembre 1990. Il più ricco e brillante  di tutti. Era anche, sebbene totalizzando numeri che oggi qualunque rivista musicale italiana si sogna (parliamo di poco meno di  novemila copie), il meno venduto di sempre. Si consolidava un trend al ribasso che induceva Federico Guglielmi – amministratore oltre che direttore – a proporre agli altri soci della Essediemme (il sottoscritto, Maurizio Bianchini, Ermanno Labianca e Gianni Gabrieli) la sospensione delle pubblicazioni. Accadeva tutto talmente all’improvviso che decidevamo di fermarci con il numero successivo già disegnato sulla carta. Questo prospetto è l’unica testimonianza che resta del “Velvet” che non uscì mai.  Danzig in copertina, un ricordo di John Lennon a dieci anni dalla morte, Roger McGuinn e Steve Winwood in corsa per l’intervista del mese e ancora articoli su Sisters Of Mercy, Fugazi, Pylon, Deee-Lite… Non male, eh?

Velvet Prospetto #27

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Vive l’anarchie! L’electro-punk dei Métal Urbain

Giuro che dalla settimana prossima ricomincio con i Culti e che non mi prenderò più pause così lunghe. Giuro. Per intanto vogliate gradire un profilo di un gruppo tanto straordinario quanto misconosciuto che, per la serie di cui sopra, non sarebbe stato eleggibile perché io e il Guglielmi ne andiamo così pazzi da averlo incluso nel volume Giunti dei 1000 dischi fondamentali.

Métal Urbain

L’importante, se ancora non vi è successo, è farsi prendere dal panico. Dopo di che, dopo avere ascoltato quella Panik che fu il lato A del primo singolo della ghenga parigina, potrete concordare con Steve Albini quando polemico si interrogava “ma perché non c’è nessuno che, almeno tanto per cambiare, cerchi di suonare come i Métal Urbain?”. Un po’ pagava un debito, il produttore di Pixies, Nirvana e cento altre essenziali cose, e altrettanto faceva il furbo, siccome i suoi Big Black, di loro decisamente più influenti (basti pensare agli Shellac), del gruppo di Eric Débris furono copia conforme, clamorosa. E anche Jesus And Mary Chain ne vennero plasmati in maniera decisiva. Eppure, a un quarto di secolo da quando la sigla andò in disuso per subito riproporsi modificata, ma per breve, Métal Urbain è ancora oggetto di esegesi per pochi entusiasti e non un nome universalmente riverito come meriterebbe per le straordinarie intuizioni che ebbe. Immaginate Suicide e Sex Pistols, Stooges e Roxy Music che convergono su un crocicchio e lì fragorosamente si scontrano, testimoni Lou Reed e Robert Fripp, il primo deciso a unirsi agli Hawkwind, il secondo a prenderne il posto nei Velvet Underground. E più o meno ci siamo anche se forse, visto che ci troviamo in Francia, dell’equazione dovrebbe entrare a far parte pure un’altra leggenda oscura, Magma, sebbene depurata da ogni tentazione all’arzigogolo. E già: siamo o per meglio dire eravamo in Francia e questo ebbe sicuramente un peso. Come non pensare che ben altre sarebbero state le fortune del Metallo Urbano (ragione sociale che contemporaneamente omaggiava i Velvet e il Lou Reed solista di “Metal Machine Music”, rumoristico delirio maledetto e insuperato) se avesse visto la luce qualche centinaio di chilometri più a ovest, a Londra? Anche se va detto che la capitale britannica non indulse al suo usuale sciovinismo con i nostri eroi e li accolse anzi, in ogni caso in un ambito strettamente underground, con entusiasmo.

C’è una doppia scusa per parlare di questa misconosciuta epopea. La prima è che la Acute Records ha appena licenziato un CD, “Anarchy In Paris!”, che racchiude l’opera omnia o poco meno di una band che in vita non pubblicò che tre 45 giri, fra il maggio 1977 e il settembre ’78, per tre diverse etichette e il cui album d’esordio, “Les hommes morts sont dangereux”, uscì postumo, come del resto il titolo faceva intendere, soltanto nel 1980. La New Rose lo aveva raddoppiato nell’85, come “L’age d’or”, recuperando molto del poco rimanente (demo, remix, registrazioni dal vivo) e la corposa antologia veniva in seguito ristampata un paio di volte in digitale ma era ormai, in qualunque forma, merce rara a momenti quanto i mitici singoli. Frugando ulteriormente negli archivi Acute ha scovato altri brani ancora mai sentiti ma chissà perché, visto che spazio sul dischetto ce n’era, si è dimenticata due fantastiche letture di canzoni altrui, la No Fun di Iggy e soci e il cavallo di battaglia dei Pistols Anarchy In The UK, instant-cover (novembre 1976!) resa come Anarchie en France. Se non possedete “L’age d’or” vi tocca crucciarvene. D’altro canto, è proprio se non lo possedete che questa nuova raccolta si rivela essenziale. La aprono i 45 giri di cui sopra, prima i lati A e poi i retri, e nel punk e forse nel rock tutto nessuno (magari i Crime, se a contare è la qualità delle canzoni più che l’originalità del suono) ha combinato tanto in così pochi minuti: sequela di capolavori in origine su Cobra, Rough Trade (il primo numero del catalogo), Radarscope, dalla svelta e sibilante innodia di Panik alla lenta, mefitica, stridula Lady Coca Cola, dalla frenetica Paris maquis alla solenne Pop poubelle per tramite delle clashiane Hystérie connective e Clé de contact. Clashiane ma elettroniche e lì la chiave di volta di un edificio sonico che genialmente mischiava il mordere delle chitarre elettriche allo sferzare e sferragliare di un’essenziale drum machine e allo sfrigolare e al ruggire di un non meno primitivo sintetizzatore. Niente basso. Mi manca qui lo spazio per raccontarvi nei dettagli una storia comunque simile a quella di innumerevoli altre sfigate e gloriose di rock’n’roll, fatta di concerti interrotti, tour saltati, cambi di formazione, scazzi, problemi di distribuzione dei dischi e insomma casini finanziari e umani assortiti e infine la resa. Tanto provvede benissimo Jacques Amsellem nel libretto.

Qui me ne rimane quanto basta per dirvi che la seconda scusa per diffondersi sull’opera del manipolatore di congegni elettronici Eric Débris, unico punto fermo nella vicenda Métal Urbain, è offerta da un altro CD Acute, “Tokyo Airport”, riedizione praticamente moltiplicata per due dell’unico LP dei Metal Boys, gruppo che rispetto a quello dalle cui ceneri sorse nemmeno ha avuto finora la buona sorte di godere di un qualche culto. Liquidato anzi persino dagli estimatori dei Métal Urbain come una poco persuasiva evoluzione new wave, si rivela allo stupito ascolto scrigno colmo non solo di piacevole bigiotteria d’epoca (citerei come minimo la sfavillante Siouxsie apocrifa di New Maiden) ma con una gemma vera quale la title-track, decadente techno-pop adeguatamente orientaleggiante e con nel DNA glam ed exotica, dub, ambient, industrial e chissà che altro.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.575, 20 aprile 2004.

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The Bevis Frond – White Numbers (Woronzow)

The Bevis Frond - White Numbers

Se non si conta chi quel disco lo importava, sono abbastanza sicuro di essere stato il primo in Italia  a scrivere  di Bevis Frond. Sono pressoché sicuro che la mia copia di “Miasma” appartenga alla prima, mitica tiratura in soli duecentocinquanta esemplari. Mentre sono sicuro al cento per cento che il mio “Through The Looking Glass” non sia uno dei volgari tarocchi che a un certo punto invadevano i negozi del Bel Paese, quando qualche furbetto si rendeva conto che c’era un mercato eccome per quell’acidissimo, ultraelettrico rock chitarristico con qualche oasi di folk stralunato: fanno fede numerazione, dedica autografa alla Desdemona dei John’s Children, firma dell’autore stesso. Ero pazzo per Bevis Frond nei tardi ’80, collezionavo e facevo collezionare devotamente ogni sua uscita e santoiddio se ne buttava fuori di roba, il signor Nick Saloman. Poi, a un certo punto, basta. Ti svegli una mattina e ti rendi conto di non essere più innamorato, ti accorgi che l’eccessiva frequentazione ha sciupato la magia, sai che conserverai per sempre il ricordo dei momenti belli ma non ne vivrai più di paragonabili e allora… Tanto vale… Bizzarro che io e Nick ci lasciassimo nel momento in cui Bevis Frond diveniva gruppo vero, non più mero pseudonimo, e poteva quindi cominciare a suonare anche dal vivo. Pressoché incomprensibile, a ripensarci, che accadesse all’indomani della pubblicazione di quello che risultava essere a quel punto (e nell’opinione generale è rimasto) il suo capolavoro, il monumentale “New River Head”. Doppio in cui – seppure un po’ in ritardo essendosi fatto il ’91 – gli anni ’80 facevano definitivamente irruzione in una musica che quasi musealmente si era fino ad allora nutrita di ’60 e ’70. Improvvisamente gli Wipers, gli Hüsker Dü, i Current 93 diventavano fonti di ispirazione cruciali quanto Hendrix, o i Byrds, o il più oscuro progressive-folk britannico d’epoca. “New River Head” mi piaceva tantissimo ma era come un’ultima vacanza insieme, un’ultima notte di fuoco. Nei ventidue anni trascorsi da allora, giusto un paio di incontri occasionali. Anche soddisfacenti, eh? Soprattutto “Hit Squad”, che nel 2004 mi pareva un “New River Head” più conciso (si fa per dire: quasi un’ora e venti) e pop. Così è stato con discrete aspettative che lo scorso 10 maggio ho raggiunto un club torinese dove  erano in cartellone, nella loro ormai classica formazione a quattro, i Bevis Frond. A ventisei anni dacché la puntina si  inoltrò per la prima volta nei solchi di “Miasma” potevo infine gustarmeli live. Sono andati oltre qualunque attesa. No: oltre. E io ho di nuovo perso la testa.

Essendosi separate le rispettive strade fin dai primi ’90 mica me n’ero accorto che, dopo il pregevole “Hit Squad”, Nick “Bevis Frond” Saloman per ben sette anni non aveva più pubblicato nulla. Nulla di suo, intendo, giacché nel lungo iato fra quell’album e il seguente “The Leaving Of London” tutte le sue energie sono state dedicate a un’etichetta (non la Woronzow) specializzata (ma guarda!) in ristampe di garage e psichedelia. Buon per me, che non devo aggiungere altri titoli al corposo elenco di quelli minimo da assaggiare per vedere se meriti o no (temo di conoscere la risposta) recuperarli. Buon per Saloman stesso, credo, che ha avuto modo di ricaricare le batterie e due ulteriori anni dopo lo testimonia un nuovo doppio (in vinile addirittura triplo) che, se non raggiunge i livelli del summenzionato “New River Head”, ci va vicinissimo. Non ci si crede a come vola “White Numbers” e dire che dura due abbondanti ore e resterebbe comunque un mammuttone anche espungendone i 42’10” (avete letto bene) di una conclusiva Homemade Traditional Electric Jam. Vario ed esaltante il percorso che conduce fin lì e lungo il quale si alternano quiete ballate acustiche e assalti ai limiti dell’hardcore, squisiti jingle jangle e apocrifi da “Warehouse: Songs And Stories”, zuccherini sixties-pop, divagazioni all’acido lisergico, monoliti hard. È come se il nostro uomo avesse voluto riassumere in un paio di dozzine di canzoni una collezione di dischi di cui si racconta con toni da leggenda. E già sarebbe molto, non fosse che qui dentro ci senti pure del sentimento, della vita vera che come sempre trascende il più magistrale degli esercizi di stile. Ecco, forse il chilometrico congedo finisce per essere proprio quest’ultima cosa, un compiaciuto ancorché divertito sfoggio di bravura. Peccato veniale, ad ogni modo, in capo a un lavoro per il resto di solidità e brillantezza clamorose.

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Deerhunter – Monomania (4AD)

Deerhunter - Monomania

Sarebbe un po’ troppo facile inchiodare Bradford Cox con parole che lui stesso ha pronunciato in una recente intervista a “Pitchfork”, quella del 29 aprile scorso nella quale fra il resto affermava che “old music resonates with me, new music doesn’t”. Potrei azzardare perfidamente che spesso valga pure per il nostro uomo, che sono dieci anni che è in giro e in questi dieci anni ha pubblicato parecchio senza lasciare – a me pare – tracce di memorabilità assoluta. Sebbene talvolta andandoci vicino e accadeva ad esempio pochi mesi fa, in vari frangenti, in un “Parallax” uscito a nome Atlas Sound, forse il suo lavoro più ispirato, per certo il più brillante fra quanto ho ascoltato di un’opera quantitativamente strabordante se si tiene conto che alla produzione “ufficiale” se ne affianca in Rete una per cultori (lì probabilmente finirà almeno una scelta dei tantissimi brani scritti per “Monomania” e poi scartati; molte decine, pare). Sarebbe facile ma ingiusto perché, a parte che del talento vero saltuariamente balena, Cox mette tanta di quella passione in ciò che fa che preferirlo alla quasi totalità dei contemporanei viene naturale. Anche figurativamente l’allampanato frontman dei Deerhunter si eleva dalla cintola in su rispetto alla media di ciò che esce. “As a homosexual, my job is to simply sodomise mediocrity”, diceva in un’altra intervista, e uno così prodigo di citazioni citabili è specie da salvaguardare in un rock odierno nel quale quasi tutto il resto è noia.

Racconta Bradford Cox che per questo album numero sei dei sempre più suoi Deerhunter (ben due componenti su cinque sono cambiati rispetto a un predecessore vecchio ormai tre anni, “Halcyon Digest”) ha tratto ispirazione da “Pierre Schaeffer, Steve Reich, Bo Diddley, Ricky Nelson e Ramones”. Salvo in Dream Captain – dei dodici brani in scaletta il più pop e come di rado accaduto in passato è un pop che non c’è bisogno alcuno di mettere fra virgolette – citare direttamente i Queen. Catalogo di influenze eclettico e implausibile come pochi mai e bravo, e dotato di bella fantasia, chi riesce a coglierle. Disco in ogni caso vario, frizzante, anche sorprendente – avendo presente il resto del catalogo – dopo un tanto micidiale quanto depistante uno-due iniziale che al caracollare psych-glam (dove “psych” sta per “psichedelico”) di Neon Junkyard fa andare dietro il riff monstre e l’ossessività psych-glam (dove “psych” sta per “psicotico”) di Leather Jacket II. Non mancheranno più avanti impennate – la marcetta southern Pensacola; una traccia omonima che colloca succosa polpa melodica in scorza scorticata con un procedere via via più rovinoso e urlante – e tuttavia prevarrà un’attitudine più soft, una linearità inconsueta per una band per la quale all’apparizione alla ribalta si coniava l’ossimoro ambient-punk (di “Monomania” Cox dice che è “nocturnal garage”). Prevarranno chitarre jangly piuttosto che ispide, un piglio scanzonato per quanto possa sottenderlo un’innegabile malinconia di fondo. La gemma secondo me è Nitebike: all’incirca un Johnny Thunders unplugged e se Cox era riuscito spesso a farsi rispettare, e più raramente ammirare, dev’essere questa la prima volta che mi emoziona. Che fa risuonare in me (e siamo tornati all’inizio) qualcosa che non sia il mero piacere intellettuale dell’individuazione di un’eco, uno stilema.

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Velvet Gallery (27)

Mi avessero chiesto nel 1990 quale gruppo aveva a quel punto meglio raccolto l’eredità dei Clash avrei detto, senza pensarci un secondo, i Mano Negra. Me lo domandassero oggi la risposta sarebbe la stessa.

Mano Negra 1

Mano Negra 2

Mano Negra 3

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Contorciti! Il ruggente 1979 di James Chance

Contortions Poster

Se c’è una singola canzone che mi ha ispirato a fondare i Contortions è Superbad, per via degli assoli di sassofono che la caratterizzano. Non riuscivo a credere alle mie orecchie la prima volta che la ascoltai! Voglio dire… James Brown è sempre stato uno cazzuto, ma quando cominciò a buttar dentro i suoi brani assoli di sax in stile free jazz mi sconvolse. Non avrei mai immaginato che gli piacessero cose del genere, perché per la maggior parte di quelli del giro del rhythm’n’blues erano roba aliena”: così James Siegfried – alias James Chance, alias James White, alias James Black – riferiva a “The Wire” su quale fosse stata la scintilla (non che nessuno avesse mai avuto dubbi al riguardo) scatenante quell’incendio punk-funk-jazz al quale la sua ghenga fornì la benzina. A diciotto anni dall’esordio assoluto nella storica e isterica raccolta di autori vari “No New York”, a diciassette dalla formidabile accoppiata di 33 giri che consegnò alla Ze. Era il 1996, dunque. Il nostro uomo aveva appena pubblicato un discreto album, “Molotov Cocktail Lounge”, per i tipi della Enemy (stessa casa discografica dei Defunkt dell’amico Joe Bowie) e soprattutto aveva appena visto tornare in circolazione, dopo lunga latitanza, quei due storici LP, “Buy The Contortions” e “Off White”, ristampati con discretamente ricco corredo di bonus da un’etichetta hip quale la Infinite Zero di Henry Rollins e Rick Rubin. Si faceva un gran parlare di no wave, giustamente individuata come uno stile antesignano della composita galassia (e soprattutto dell’attitudine) post-rock, e della no wave – frutto dell’incontro in due quartieri newyorkesi, l’East Village e SoHo, di quattro categorie di artisti ciascuna a suo modo iconoclasta: performer multimediali, jazzisti discepoli di Coleman e Ayler, funkster in polemica con la deriva commerciale della black music, punk che del punk rifiutavano la discendenza da rock’n’roll e garage – i Contortions erano stati le uniche vere stelle. Si sarebbe potuto pensare, nel 1996, che il Sigfrido avesse finalmente messo la testa a posto e si trovasse sul limitare di una seconda giovinezza. Ne avete più avuto notizie, voi? Altri sette anni sono trascorsi (lui ne ha adesso cinquantuno) e il motivo per cui ci si ritrova a parlare di James come-volete-chiamarlo è lo stesso di allora ma senza un disco nuovo di cui dire: un’altra riedizione (benvenuta, essendo ormai le copie Infinite Zero ardue a trovarsi quasi quanto i vinili originali) di “Buy The Contortions” e “Off White”, questa volta riportati nei negozi dalla Munster e nell’economica formula “due LP su un solo CD”. I baldi giovini (gli unici giustificabili) ancora sprovvisti potranno così provvedere.

Ne resteranno per certo colpiti, ma probabilmente meno sconvolti (curioso come lo scorrere del tempo renda accettabili dapprima, quindi merce corrente, spartiti che al loro apparire avevano offeso i più) degli acquirenti d’epoca. Ci siamo imbattuti in cose ben più estreme, dopo, ma questa manciata di canzoni al tempo fu rivoluzionaria, funk tutto spigoli che faceva male alle orecchie e lasciava le gambe incerte riguardo al che fare. In ogni caso: suona ancora freschissima, concepita per uccidere, come ammonisce il primo titolo in scaletta. “Buy The Contortions” è un vortice di elettriche distorte e sax ululanti, pattern ritmici funkissimi, esilarante energia punk, sperimentazione free. Brano-manifesto: Contort Yourself. Unico momento di requie pressoché a fondo corsa: Twice Removed, manciniana. “Off White”, uscito praticamente in contemporanea ma a nome James White & The Blacks, sciorinava musica meno spiritata, elegante persino, e comunque con micidiale senso del groove (esemplare la versione sistemata a incipit e assai diversa da quella citata dianzi dell’inno Contort Yourself). Un paio di capolavori o poco meno: una Stained Sheets punteggiata da una voce orgasmica; una Tropical Heatwave che fa no wave i compagni di etichetta Kid Creole & The Coconuts. Una sorpresa alla fine: Bleached Black è di fatto un blues.

Il James Siegfried essenziale sta tutto qui. Il resto – quattro live, tre album in studio – è materia per gli ossessionati che potreste diventare.

 Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.542, 15 luglio 2003.

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