Gli anni ’60 di John Mayall

Sempre tutti a notare e lodare, di John Mayall, due ruoli: divulgatore del blues; docente ai cui corsi si è laureata tanta gente che ha poi scritto chi paragrafi, chi pagine, chi capitoli interi della storia del rock. Sottovalutando invariabilmente gli apporti a quello stesso librone dell’ancora attivo (classe 1933!)  Cavaliere.

John Mayall

Proprio così: lo ricorda Wikipedia nella prima riga della scheda che gli dedica che il nostro uomo è dal 2005 membro dell’Order Of The British Empire. Per carità: onorificenza di cui sono stati insigniti in migliaia e fra essi innumerevoli musicisti. Nondimeno: dopo che nel 2004 fra coloro recatisi a Buckingham Palace a riceverla si era segnalato Eric Clapton, l’unico fra le centinaia di accompagnatori di Mayall a essere menzionato non nei crediti ma direttamente nel titolo di un disco del Maestro, sarebbe stato uno scandalo se la situazione non fosse stata prontamente pareggiata. Da allora Mister Bluesbreaker ha dato alle stampe, non considerando live e riordini di archivi, due album ancora, arrivando con codesti a quota cinquantasette. Pur non essendo per ovvie ragioni materia da Classic Rock, per i dischi in questione qualche parola va spesa. Più che per l’ultimo, “Tough” (2009), che fa onore al titolo picchiando duro come mai ti aspetteresti da un musicista tanto in là con gli anni, per il penultimo, che si chiama “In The Palace Of The King” (2007) e no, il palazzo reale in questione non è quello degli Windsor. L’album è un omaggio a Freddie King, dal quale i quattordici brani che vi sfilano sono stati scritti o ispirati. Ho voluto raccontarvelo per sottolineare come il John Mayall degli anni 2000 nel suo essere prima un grandissimo appassionato di musica e dopo un musicista sia identico a quello che negli anni ’40 frugando fra i 78 giri del padre si innamorava di Louis Armstrong, Django Reinhardt e Charlie Christian e di conseguenza cominciava a studiare chitarra e pianoforte; che negli anni ’50 spendeva la paga di militare in licenza a Tokyo dal fronte coreano comprandosi la prima chitarra elettrica; che nei ’60 prima insisteva perché il bassista John McVie (i suoi quattro anni e mezzo di permanenza nei Bluesbreakers un record) prendesse in prestito da lui una paccata di preziosi dischi (ovviamente di blues) per assorbirne il feeling e poi perché Clapton si mettesse a studiare (guarda un po’) proprio Freddie King. Prima che il decennio pure per lui favoloso finisse, concepiva quello che molti considerano il suo capolavoro, “The Turning Point”, come la rielaborazione di un’intuizione di Jimmy Giuffre e, pur lieto delle ottime critiche ricevute, ci restava malissimo che nessuno se ne fosse accorto. Oltre che un fan, un gentleman.

Anche il papà del British Blues ha avuto un padre o quantomeno – vista la modesta differenza di età fra i due: cinque anni e mezzo – un fratello maggiore. Senza quell’altro gentiluomo di Alexis Korner, che fungeva da apripista, probabilmente Mayall l’avrebbe trovata ancora più lunga e forse avrebbe rinunciato al sogno di fare della musica una professione, rassegnandosi a una peraltro assai ben retribuita carriera nel secondo ambito artistico da lui più amato, quello della grafica. Cambiava tutto una fatidica serata di fine 1962 al Bodega Jazz Club di Manchester in cui il gruppo del nostro eroe si trovava a far da spalla ai Blues Incorporated. Alla fine Korner andava a complimentarsi e nei mesi seguenti avrebbe avuto un peso decisivo nel far crescere la nomea di John Mayall e nel persuaderlo che valesse la pena di tentare la via del professionismo. Strada sulla quale ad ogni buon conto di ostacoli doveva ancora superarne parecchi prima di rimediare un contratto per la Decca su raccomandazione di un Mike Vernon in flagrante conflitto di interessi, essendo contemporaneamente direttore della rivista specializzata “R&B Monthly” e staff producer presso la Decca medesima. Da quel punto strada in discesa? Macché. Edito nel maggio 1964, già trentenne dunque il capobanda, il singolo d’esordio dei Bluesbreakers, Crawling Up A Hill/Mr. James, vendeva la miseria di cinquecento copie e Vernon durava una fatica porca a convincere la casa discografica a concedere al gruppo una possibilità a 33 giri. E dopo l’uscita nel marzo dell’anno seguente di “John Mayall Plays John Mayall” il produttore addirittura si troverà a pagare di tasca sua una seduta di registrazione per riuscire a persuadere quei capoccioni dei suoi superiori – ai quali evidentemente non bastava che Mayall e variabili soci avessero nel frattempo suonato con John Lee Hooker e T-Bone Walker e fossero apparsi in TV – a pubblicarne un secondo di album. Esatto. Quel “Bluesbreakers With Eric Clapton” dopo il quale nulla sarà più lo stesso, né per i musicisti che lo realizzarono né per il rock britannico nel suo complesso.

Non è questa la sede adatta – sul serio: due pagine forse nemmeno basterebbero al mero elenco di chi suonava cosa dove e per quanto tempo per poi venire sostituito da – per dar conto dei continui cambi di formazione che caratterizzeranno i Bluesbreakers fintanto che – sul finire del 1968, all’altezza di “Blues From Laurel Canyon” – Mayall non deciderà di mettere solo il proprio nome sul davanti delle copertine dei dischi (naturalmente, gli accompagnatori seguiteranno ad alternarsi annualmente, mensilmente, settimanalmente). Qui è sufficiente ricordare alcune delle storie che presero le mosse dalla cerchia del Nostro: i Cream, i Fleetwood Mac, i Colosseum, Mark-Almond, Aynsley Dunbar Retaliation, Keef Hartley Band, Mick Taylor che va a rilevare Brian Jones nei Rolling Stones. Qui preme sottolineare la generosità di un leader che,  se talvolta non si fece scrupolo di sottrarre a un altro gruppo un musicista che gli piaceva, più spesso diede la sua benedizione a chi lo lasciava, magari alla vigilia di un tour o dell’incisione di un album, per andare a fare altrove o in proprio la sua cosa. In questo simile a Miles Davis.

Ma qui è soprattutto cosa buona e giusta sfatare un altro mito – che a un riesame attento dei dischi assolutamente non regge – riguardo a John Mayall: un purista e, come di norma i puristi, un po’ limitato. Ma quando mai! Vero che erano perfettamente “in stile”, ma dieci brani su undici nel debutto registrato dal vivo “Plays John Mayall” (marzo 1965) erano autografi e in “Bluesbreakers With Eric Clapton” (luglio 1966) nelle cover il soul si mischiava al blues e, in virtù anche di un’inedita combinazione fra una chitarra Gibson Les Paul e un amplificatore Marshall, Slowhand suonava come nessun chitarrista prima. Pure questo si nota facendo girare in ordine cronologico gli LP del periodo Decca: che ciascuno marcava uno stacco, piccolo o grande, rispetto al predecessore. Dopo che “A Hard Road” (febbraio ’67) aveva dimostrato brillantemente che si poteva sopravvivere alla defezione di Eric Clapton, grazie a un Peter Green che in un colpo inventava i Fleetwood Mac e i Santana, “Crusade” (settembre del medesimo anno) e “The Blues Alone” (incredibile ma vero: novembre) segnavano un ritorno alle radici da intendersi però non come ripiegamento bensì come base da cui partire per nuove avventure: un mezzo concept infiltrato di jazz e progressivo nell’attitudine quale “Bare Wires” (giugno 1968); gli ammiccamenti alla psichedelia e l’idea di una dimensione come cameristica per le dodici battute di “Blues From Laurel Canyon” (novembre stesso anno). Era l’ultimo album per la Decca. L’esordio per la Polydor con un altro live di inediti, “The Turning Point” (novembre ’69), risulterà clamorosamente fedele al titolo rinunciando a qualsivoglia strumento percussivo e declinando il blues più jazzato – e insieme folky – di sempre per il Nostro. Campanello d’allarme tuttavia che il pur ottimo “Empty Rooms” (aprile 1970) si accontentasse di restare da quelle parti. Ormai molto popolare negli Stati Uniti mentre di converso in patria la sua fama cominciava a declinare, Mayall si limiterà da lì in avanti a un’onesta routine interrotta occasionalmente (l’ultimo vero classico, nel ’72, “Jazz Blues Fusion”) da qualche guizzo. Esauritasi in un quinquennio ruggente la sua forza propulsiva.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.672/673, luglio/agosto 2010.

15 commenti

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15 risposte a “Gli anni ’60 di John Mayall

  1. Giacomo/SonofBrahem

    Questo splendido e dovuto articolo mi fa piangere al contempo di gioia e di rimpianto. Fossi io una rivista senza più parole come queste rimpiangerei gli alberi da cui provengo…

  2. Gian Luigi Bona

    Grazie Venerato, lo aspettavo questo articolo

  3. Nicholas

    Il primo articolo da te firmato che lessi

      • Nicholas

        😀 beata mica tanto… quell’estate dovetti studiare per due esami a me molto invisi , che richiesero più di un tentativo. Leggevo i 2 mucchi (extra e non) per riempire l’ora d’aria.
        Guardando il post mi è presa nostalgia e ho recuperato quel numero, ho notato che oltre al pezzo su Mayall ce n’è uno su Patsy Cline che non è niente male per un venerato ripescaggio.

  4. Orgio

    Bello. Bravo.
    Possiamo spezzare qui una lancia a favore del gregario forse più sottovalutato di Mayall, Aynsley Dunbar? Pare che persino Hendrix abbia considerato di prenderlo con sé.

  5. Nicholas

    @ Orgio,
    ne spezzo una anche io, adoro il suo modo di suonare in Berlin, mi pare suoni in quasi tutti i pezzi

    • Orgio

      Pensa che io adoro il suo modo di suonare in “1987”. In questa ecletticità sta la grandezza dell’uomo, a mio avviso.

      • Nicholas

        Credo che tu (mi permetto di darti del tu) ti riferisca ad un disco dei Whitesnake, non li ho mai ascolati però..

      • giuliano

        Batterista straordinario. Lo notai con Zappa, su The Grand Wazoo… E sì che Zappa di batteristi deluxe ne ha avuti, da Chester Thompson a Chad Wakerman, da Terry Bozzio a Vinnie Colaiuta…

  6. Orgio

    A ggiulià, finarmente siamo d’accordo su quarcosa! Ccche dici, sa’a famo na porchettata per festeggià? 😉

  7. Orgio

    Bafometto, pensaci tu.

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