Giuro che dalla settimana prossima ricomincio con i Culti e che non mi prenderò più pause così lunghe. Giuro. Per intanto vogliate gradire un profilo di un gruppo tanto straordinario quanto misconosciuto che, per la serie di cui sopra, non sarebbe stato eleggibile perché io e il Guglielmi ne andiamo così pazzi da averlo incluso nel volume Giunti dei 1000 dischi fondamentali.
L’importante, se ancora non vi è successo, è farsi prendere dal panico. Dopo di che, dopo avere ascoltato quella Panik che fu il lato A del primo singolo della ghenga parigina, potrete concordare con Steve Albini quando polemico si interrogava “ma perché non c’è nessuno che, almeno tanto per cambiare, cerchi di suonare come i Métal Urbain?”. Un po’ pagava un debito, il produttore di Pixies, Nirvana e cento altre essenziali cose, e altrettanto faceva il furbo, siccome i suoi Big Black, di loro decisamente più influenti (basti pensare agli Shellac), del gruppo di Eric Débris furono copia conforme, clamorosa. E anche Jesus And Mary Chain ne vennero plasmati in maniera decisiva. Eppure, a un quarto di secolo da quando la sigla andò in disuso per subito riproporsi modificata, ma per breve, Métal Urbain è ancora oggetto di esegesi per pochi entusiasti e non un nome universalmente riverito come meriterebbe per le straordinarie intuizioni che ebbe. Immaginate Suicide e Sex Pistols, Stooges e Roxy Music che convergono su un crocicchio e lì fragorosamente si scontrano, testimoni Lou Reed e Robert Fripp, il primo deciso a unirsi agli Hawkwind, il secondo a prenderne il posto nei Velvet Underground. E più o meno ci siamo anche se forse, visto che ci troviamo in Francia, dell’equazione dovrebbe entrare a far parte pure un’altra leggenda oscura, Magma, sebbene depurata da ogni tentazione all’arzigogolo. E già: siamo o per meglio dire eravamo in Francia e questo ebbe sicuramente un peso. Come non pensare che ben altre sarebbero state le fortune del Metallo Urbano (ragione sociale che contemporaneamente omaggiava i Velvet e il Lou Reed solista di “Metal Machine Music”, rumoristico delirio maledetto e insuperato) se avesse visto la luce qualche centinaio di chilometri più a ovest, a Londra? Anche se va detto che la capitale britannica non indulse al suo usuale sciovinismo con i nostri eroi e li accolse anzi, in ogni caso in un ambito strettamente underground, con entusiasmo.
C’è una doppia scusa per parlare di questa misconosciuta epopea. La prima è che la Acute Records ha appena licenziato un CD, “Anarchy In Paris!”, che racchiude l’opera omnia o poco meno di una band che in vita non pubblicò che tre 45 giri, fra il maggio 1977 e il settembre ’78, per tre diverse etichette e il cui album d’esordio, “Les hommes morts sont dangereux”, uscì postumo, come del resto il titolo faceva intendere, soltanto nel 1980. La New Rose lo aveva raddoppiato nell’85, come “L’age d’or”, recuperando molto del poco rimanente (demo, remix, registrazioni dal vivo) e la corposa antologia veniva in seguito ristampata un paio di volte in digitale ma era ormai, in qualunque forma, merce rara a momenti quanto i mitici singoli. Frugando ulteriormente negli archivi Acute ha scovato altri brani ancora mai sentiti ma chissà perché, visto che spazio sul dischetto ce n’era, si è dimenticata due fantastiche letture di canzoni altrui, la No Fun di Iggy e soci e il cavallo di battaglia dei Pistols Anarchy In The UK, instant-cover (novembre 1976!) resa come Anarchie en France. Se non possedete “L’age d’or” vi tocca crucciarvene. D’altro canto, è proprio se non lo possedete che questa nuova raccolta si rivela essenziale. La aprono i 45 giri di cui sopra, prima i lati A e poi i retri, e nel punk e forse nel rock tutto nessuno (magari i Crime, se a contare è la qualità delle canzoni più che l’originalità del suono) ha combinato tanto in così pochi minuti: sequela di capolavori in origine su Cobra, Rough Trade (il primo numero del catalogo), Radarscope, dalla svelta e sibilante innodia di Panik alla lenta, mefitica, stridula Lady Coca Cola, dalla frenetica Paris maquis alla solenne Pop poubelle per tramite delle clashiane Hystérie connective e Clé de contact. Clashiane ma elettroniche e lì la chiave di volta di un edificio sonico che genialmente mischiava il mordere delle chitarre elettriche allo sferzare e sferragliare di un’essenziale drum machine e allo sfrigolare e al ruggire di un non meno primitivo sintetizzatore. Niente basso. Mi manca qui lo spazio per raccontarvi nei dettagli una storia comunque simile a quella di innumerevoli altre sfigate e gloriose di rock’n’roll, fatta di concerti interrotti, tour saltati, cambi di formazione, scazzi, problemi di distribuzione dei dischi e insomma casini finanziari e umani assortiti e infine la resa. Tanto provvede benissimo Jacques Amsellem nel libretto.
Qui me ne rimane quanto basta per dirvi che la seconda scusa per diffondersi sull’opera del manipolatore di congegni elettronici Eric Débris, unico punto fermo nella vicenda Métal Urbain, è offerta da un altro CD Acute, “Tokyo Airport”, riedizione praticamente moltiplicata per due dell’unico LP dei Metal Boys, gruppo che rispetto a quello dalle cui ceneri sorse nemmeno ha avuto finora la buona sorte di godere di un qualche culto. Liquidato anzi persino dagli estimatori dei Métal Urbain come una poco persuasiva evoluzione new wave, si rivela allo stupito ascolto scrigno colmo non solo di piacevole bigiotteria d’epoca (citerei come minimo la sfavillante Siouxsie apocrifa di New Maiden) ma con una gemma vera quale la title-track, decadente techno-pop adeguatamente orientaleggiante e con nel DNA glam ed exotica, dub, ambient, industrial e chissà che altro.
Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.575, 20 aprile 2004.
Grazie per i prossimi culti, ma va bene anche queste cosucce qui.
Loro e i Trust i più grandi gruppi francesi. Gran bell’articolo, Venérée Maitre Ou