Ovvero: la Top 10 delle mie stroncature negli ultimi tredici anni di “Mucchio” (1999-2012). Fuori classifica, perché mai pubblicata, questa.

10: LESSER “Gearhound” (n. 425, 16 gennaio 2001)
Innanzitutto, non un gruppo ma un solista, californiano, membro in passato di vari complessi fra i quali gli A Minor Forest sono forse il solo che possiate mai avere sentito nominare. Il tal caso, avrete collocato il Nostro in area post-rock. Sbagliando. Nonostante una passione dichiarata per il metal (gli A Minor Forest usavano travestirsi da Creeping Death per eseguire cover dei Metallica) nei dischi di Lesser non c’è traccia di rock. Di hip hop, l’altro suo grande amore, almeno qualche spirito inquieto di pulsione ritmica (mai parole, se non “trovate”) e qualche clangore che ricorda i momenti di puro terrorismo dei primi Public Enemy. Ecco: immaginate Merzbow che si fa produrre dalla Bomb Squad. Potrebbe venirne fuori qualcosa come il dittico Intro/Matador Tax Deduction che inaugura questo album, il terzo per Lesser. Riguardo al quale ha dichiarato: “Non me la sentivo di incidere un altro disco inascoltabile… ‘Gearhound’ potrebbe anche essere suonato a un party”.
Già. A un raduno di assassini seriali, magari. Spero di non venire mai invitato a una festa in cui suonino questi sessantacinque intimidenti minuti a base di clangori di fabbrica, sintonie di radio slittanti, bordoni minacciosi, ritmiche fra lo spastico, il robotico e una drum’n’bass scarnificata. La prima modulazione di qualcosa che somigli a una melodia compiuta arriva a metà programma, in una The Gearhound Suite che mi ha fatto ammattire nel vano tentativo di identificare la canzone che a un certo punto sbuca, lontana, fra le stratificazioni soniche (gli Oasis?). A seguire, una trentina di minuti un po’ meno irritanti per il sistema nervoso. Album interessante. Probabilmente non lo ascolterò mai più.

9: BLECTUM FROM BLECHDOM “Haus De Snaus” (n.470, 22 gennaio 2002)
Quel che si dice impiccarsi con le proprie mani: l’ultima (seconda delle due inedite) delle ventisei tracce incluse in questa ristampa in un unico CD di due EP di Blectum From Blechdom, duo californiano al femminile indicato da molti come un nome chiave dell’odierna avanguardia elettronica, si intitola Bad Music. “C’è cattiva musica dappertutto” gorgheggiano le tipe, con sotto coretti à-à-à-ù alla Laurie Anderson che fanno tanto O Superman prima che il brano si trasformi in un Jonathan Richman alle prese con un pc invece che con la chitarra acustica. Canzone carina ma nulla più che arriva dopo oltre un’ora di – per l’appunto – cattiva musica (caritatevolmente assumendo che di musica si tratti). Sarebbe questa la nuova frontiera dell’elettronica? Stando a riviste anche parecchio prestigiose, sì. Così anche secondo i giurati del premio austriaco “Ars Electronica”, che qualche mese fa hanno coperto d’allori l’album “The Messy Jessy Fiesta”. Quello non l’ho sentito. Sarà anche meglio di questo ma, credetemi, ci vuole poco.
Fatto è che “Haus De Snaus” non solo è bruttino forte ma non è più nuovo di quanto fosse la buonanima di Stevie Ray Vaughan quando copiava Hendrix nota per nota. Roba che i Residents o i Kraftwerk facevano venticinque anni fa e molto meglio, microwaves sgualfe e filastrocche da asilo, cigolii, cingolamenti e scheletrini disco che qualunque deficiente pasticciando con una batteria elettronica imparerebbe a produrre in cinque minuti netti. Rispetto al collega Lesser, insieme al quale vengono sempre citate per vicinanza geografica, Blectum From Blechdom si fanno preferire per tre ragioni: le loro “canzoni” sono meno irritanti, sono donne (sempre un punto a favore) e hanno facce un po’ meno di cazzo.

8: B.C. GILBERT “Ordier” (n.587, 13 luglio 2004)
Tanti, tanti anni fa – scrivevo da poco di musica e nei negozi di dischi i CD erano ancora una novità tenuta in un angolo e guardata con sospetto – comprai per corrispondenza, insieme a una marea di altra roba, un 33 giri di Robert Fripp. Era in offerta a 1900 lire e perché no? Non sono più sicuro al 100% di cosa fosse, credo “Let The Power Fall” ma non ci giurerei, però ricordo con nitidezza l’album in sé e non ci vuole molto. Ve lo descrivo. Prima facciata: fate conto che qualcuno vi suoni alla porta e per venti minuti tenga il dito pigiato sul campanello. Seconda facciata: fate conto che qualcuno vi suoni alla porta e tenga il dito pigiato sul campanello. Per altri venti minuti. Lo rivendetti il giorno dopo, a 4000 lire. Non ho per questo perso il rispetto per un artista straordinario come Fripp ma nel mio libro nero un appuntino al riguardo me lo feci e come vedete non l’ho cancellato.
Non sarà “Ordier” a farmi perdere il rispetto per un artista straordinario come Bruce Gilbert – chitarrista degli Wire e già solo per questo gli andrebbe fatto un monumento – ma ascoltarlo è stata dura, molto dura. Cinquantadue minuti che sembrano cinquantadue ore di soffi e sibili e cigolii e borboglii e pernacchie e martellamenti elettronici. Due coglioni che adesso devo girare con una carriola per adagiarceli. Almeno mi avessero mandato l’edizione “seria”! Pare sia contenuta in una confezione di legno (!!!) piena di foto e me la sarei potuta rivendere bene. Invece no: un accidente di provvisorio che nessuno vorrà mai. Mi resta una curiosità: ma certi miei colleghi, che hanno descritto “Ordier” come “una manifestazione di genio”, di che droghe si fanno?

7: DRAKE “Thank Me Later” (n.674, settembre 2010)
C’è una cosa che odio più del caldo, degli assoli di batteria, persino più dell’Inter. E questa cosa è: il vocoder del cazzo (da qui in poi, per comodità e sintesi, il vdc). L’orrido marchingegno che deforma metallizzandole le voci, così da rendere sostanzialmente indistinguibile un vocalizzo di José Carreras da un rutto di Ozzy Osbourne, ebbe un fortunatamente fugace momento di gloria a cavallo fra i ’70 e gli ’80 (chi non ricorda “Trans” di Neil Young? che comunque sarebbe stato un disco di merda pure senza il vdc), per poi venire buttato nella pattumiera della Storia. Da lì è stato incredibilmente recuperato e da qualche mese si fatica a tirare su un disco di black, sia hip hop o reggae o modern soul, che non contenga almeno un po’ di vdc. Nel primo album vero di Aubrey Drake Graham, rapper canadese di lunga gavetta e ottimamente reputato, di vdc non ce n’è un po’, bensì a bizzeffe. E per quanto mi riguarda rovina completamente un disco che ha avuto ottime recensioni e si candida a vendite importanti in forza di melodie suadenti e una produzione – vdc a parte – ruffiana il giusto. Dimenticavo: detesto anche le liste di ringraziamenti e il libretto di “Thank Me Later” ne contiene due pagine in un corpo assurdo. Le detesto, ma mai quanto il vdc.

6: MATS GUSTAFSSON/SONIC YOUTH “Hidros 3” (n.598, 2 novembre 2004)
Mando come ogni settimana una mail a Daniela Federico segnalandole i dischi di cui intendo scrivere. Perplessa la replica: Sonic Youth? Non ne abbiamo recensito uno da poco? Rispondo a mia volta con un “i marrani fanno album come cacassero” e tre giorni dopo a ben pensarci mi pare che la recensione potrebbe essere racchiusa in quelle sei parole. Ma la colonnina bisogna riempirla, se no chi impagina andrebbe in crisi e Stefani gentilmente mi ricorderebbe che mi paga, e allora cerco di sforzarmi un po’ più di quanto non si siano sforzati la Gioventù Sonica e i suoi pericolosi amici: folto elenco che a questo giro oltre al co-titolare, sassofonista svedese di qualche fama, comprende come nome più noto quel Loren Mazzacane Connors capace ogni tanto di grandi prove ma che troppo produce e più appropriatamente dovrebbe ribattezzarsi Loren Spaccacazzo Connors.
Allora: nove brani dedicati a Patti Smith (dobbiamo addebitarle anche questi, oltre a un rincoglionimento ormai degno di Fernanda Pivano?) che sono in realtà un’unica improvvisazione, lunga sessantasei minuti da agonia di cigolii e stridori, miagolii e ruggiti e urla belluine di chitarre pippere, con solo la voce di Kim Gordon a offrire ogni tanto un lampo di umanità. Potrei definirli un surrogato di masturbazione ma mi spiacerebbe sminuire un mio hobby. Giusto per sfizio, faccio un giro sulla Rete delle Reti, nonché Madre delle Cazzate, e bestia se riesco a trovarne uno che ne parli male. Becco un pazzo che cita come metri di paragone Waits, Schönberg, Coleman, Beefheart e i Velvet e a quel punto mi arrendo.

5: MERZBOW “Dharma” (n.462, 13 novembre 2001)
Sono stato seriamente tentato di sviluppare in lungo questa recensione soltanto per il gusto di potere usare come titolo quella frase di John Lennon che recita “Avantgarde is French for shit”. Ora, l’ex-Beatles non sparava sull’avanguardia in toto. Sarebbe stato ben curioso visto che si scelse come compagna Yoko Ono. No, si riferiva piuttosto, con proletaria sardonicità, a certa pseudo-arte iper-solipsistica e alla metodica sopravvalutazione che certa critica opera di essa. Non la capisco ma qualcuno potrebbe pensare, se lo ammettessi, che non sono sufficientemente colto, intelligente e fico. Quindi ne parlo bene. Io non capisco Masami Akita, meglio noto come Merzbow, e ne sono felice: il giorno che stabilirò un’empatia con questo signore mi affretterò a prenotare uno psicanalista. Capisco ancora meno l’entusiasmo di taluni miei colleghi riguardo ai dischi di costui. Decine (c’è persino un cofanetto di cinquanta CD) e i più indistinguibili l’uno dall’altro, faccende per masochisti a base di rumore puro. Se avete voglia di farvi del male, “Dharma” servirà all’uopo come qualunque dei predecessori, ma potreste essere più creativi registrandovene uno da soli. Mettete insieme il tono di un modem stratificato ad libitum, un po’ di effetti da incidenti automobilistici, amplificatori saturi, passate il tutto due-tre-cinque-venticinque volte attraverso un distorsore ed ecco fatto. Potreste magari trovarvi pure voi sulla copertina di “The Wire”.
Un altro buon titolo per questa recensione avrebbe potuto essere quello di un album dello stesso Merzbow di quattro anni fa: “Rectal Anarchy”. Chissà come si dirà, in giapponese, “va a fare in culo, signor Masami Akita”.

4: TORTOISE “Beacons Of Ancestorship” (n.659, giugno 2009)
La dice lunga il titolo della seconda traccia, Prepare Your Coffin, “Preparati la bara”, anche se non è chiaro a chi si rivolgano i Tortoise, se auspicabilmente a loro stessi oppure al malcapitato ascoltatore. Precisa ancora meglio il brano successivo: Yinxianghechengqi. Giuro. Ora, diletto lettore, se hai comprato il nuovo e sesto album del combo chicagoano senza attendere di sapere cosa ne pensassimo noi (difficile, visto un’uscita fissata al 22 giugno, ma tant’è) e lo hai fatto senza che altri titoli a loro modo fantastici – High Class Slim Came Floatin’ In, The Fall Of Seven Diamonds Plus One, Monument Six One Thousand – ti mettessero sull’avviso, be’, un po’ questa merda te la meriti ed è possibilissimo che ti piaccia. Perché insomma l’inarrestabile deriva tortoisiana dal post-rock alla fusion, e da quella al neo-prog, poteva già leggersi in tralice nel precedente “It’s All Around You” ma quantomeno agli sciagurati va riconosciuto di avere offerto, con i titoli chiaramente inseribili in una ben precisa tradizione di cui sopra, lampanti indizi al riguardo. Altro da dire di positivo su “Beacons Of Ancestorship” proprio non mi viene.
Bravo chi ci troverà dentro quegli influssi “techno, punk, electro, lo-fi noise” di cui delira il sito della Thrill Jockey. La verità è che uno stile che una volta era felicemente mercuriale nel suo intersecare jazz elettrico e krautrock, ambient e minimalismo, colonne sonore, dub e un’idea metafisica di folk, è oggi ingessato e tronfio. Il suono che domina “Beacons” è quello di sintetizzatori monocromatici e onanisti come manco nel ’73, quasi mai redenti da una ritmica che beotamente si bea dei suoi arzigogoli. Siamo al virtuosismo puro, al tanto rumore per non dire nulla. Suggerimenti per il prossimo disco: 1) collaborare con i Mars Volta; 2) ingaggiare un’orchestra sinfonica; 3) farsi ispirare per i titoli dal gran bestiario del progressive italiano. Per dimostrare che no, al peggio non c’è fine.

3: ATARI TEENAGE RIOT “Live At Brixton Academy 1999”, PATRICE CATANI “Attitude PC8”, LOLITA STORM Red Hot Riding Hood (n.408, 5 settembre 2000)
Verrebbe quasi da scrivere che in fondo Alec Empire merita il successo (relativo, non si sta parlando di un Trent Reznor; ma che riesca a far fuori anche una copia dei dischi che produce è già un miracolo) che, sin dall’inizio di una carriera che comincia a essere lunghetta, riscuote. Dacché l’uomo, a suo modo, è un genio: come un Malcom McLaren e un Johnny Rotten fatti uno. Insomma, sa vendersi alla grande e la palla mondiale “Atari Teenage Riot = Public Enemy bianchi e molto più radicali” l’ha spacciata così bene che fior di riviste hanno sbattuto i mostri in copertina e fior di kritici hanno filosofeggiato al riguardo tentando disperatamente di autoconvincersi di essere intelligenti come Alec Empire, invece che dei pretenziosi coglioni. Il situazionismo (blah blah blah), il rock che incontra il gabba (blah blah blah), il cuore nero della Mitteleuropa (blah blah blah)… tutte cazzate. Se ci tenete a toccare con orecchio, beccatevi questo “Live At Brixton Academy 1999”, istantanea della tappa finale del “Revolution Action World Tour” (eh, la rivoluzione…): 26’47” di un qualcosa che potrebbe essere un frontale fra due autotreni carichi di ferraglia all’interno di una fonderia, ripetuto ad libitum. Un ammasso informe di suono svincolato da ogni struttura capace di trasformare il rumore, in qualche modo, in qualcosa definibile in senso lato come “musica”. In un’intervista concessa l’anno scorso a un noto mensile italiano, Empire dichiarava: “La nostra elettronica ha un’anima: vedo la musica che suoniamo come una versione elettronica di artisti soul come Otis Redding“. Ma vaffanculo!
Alec il genio del marketing per la sua Digital Hardcore Recordings (subito diventata, ovviamente, un’etichetta “di culto”) fa incidere anche altri. Tipo Patric Catani (di gran lunga il migliore del catalogo), che perlomeno dà una certa organizzazione al suo terrorismo sonico, forgiando una sorta di drum’n’bass industriale con varianti techno. Dovrebbero offrirmi un bel po’ di soldi per convincermi a riascoltare “Attitude PC8”, ma devo ammettere che è un lavoro che ha una sua dignità.
Le Lolita Storm hanno un nome detestabile. Meglio la musica, un incrocio metallurgico fra delle Slits al top dell’isteria e i primissimi Black Flag. Red Hot Riding Hood ha una grande qualità: dura solo 8’29” e ciò basta a farne il mio disco preferito fra tutti quelli griffati DHR.

2: BLEVIN BLECTUM “Talon Slalom” (n.495, 16 luglio 2002)
Forse oggi mi sono alzato con i coglioni che girano (sai che novità). Forse sono troppi anni che scrivo di dischi e mi tocca scrivere di troppi dischi e il troppo stroppia. Forse non ho più pazienza per certa critica con propensione al sadomaso (ancora meno che per i suoi beniamini). Fatto sta che dopo avermi torturato per sessanta minuti e un secondo questo CD giace adesso in strada dove l’ho fatto appena volare (quasi quasi ora scendo e lo recupero; in fondo lo si può sempre rivendere). Se si dovesse essere rovinato, poco importa: tanto chi lo comprerà non lo ascolterà comunque mai, lo metterà lì in bella mostra giusto per fare vedere che lui è fico e intelligente e alla moda oh yeah. Blevin Blectum è una metà del duo Blectum From Blechdom, ragazzotte californiane spacciate come l’ultima frontiera dell’elettronica quando non fanno nulla che i Residents o i Kraftwerk o i Devo o i Throbbing Gristle o Laurie Anderson non abbiano fatto infinitamente meglio decenni prima. La formula è semplice e democratica, pure un cerebroleso può metterla in essere: un ritmo techno fratturato lì e schiamazzi da videogioco là, qualche melodia rubata e stuprata, giostrine dementi, scorreggie cosmiche, carillon impazziti, clangori metallurgici, urletti. Shakerate, schiaffate in un computer, premete qualche tasto a caso. Fatevi intervistare dalla persona giusta. Insopportabile. Conto le battute: 1430. Troppo poche per riempire la colonna. Provvedo. Quest’album è merda merda merda merda merda merda merda merda merda merda merda merda merda merda merda merda.

1: MARS VOLTA “The Bedlam In Goliath” (n.652, novembre 2008)
Cinque palle: un voto che non dovrebbe esistere per uno sconcio che non dovrebbe esistere e che concentra (si fa per dire!) in un’ora e un quarto il peggio degli ultimi quarant’anni di rock. Come se il punk non ci fosse mai stato. Tipo: gli Yes che incontrano i Manowar e che cazzo fanno? Ma un concept album, ovvio. Il peggio del progressive che incontra il peggio del metal. Trovo insopportabile, in “The Bedlam In Goliath”, assolutamente tutto e ho sofferto l’indicibile ad arrivare in fondo. Sia chiaro: resterà per sempre sul disco rigido del mio pc e quasi quasi lo carico anche sul lettore mp3 portatile. Per averlo sempre a portata di mano e di altrui orecchi. Così, la prossima volta che qualcuno mi dirà che campare scrivendo di musica dev’essere fantastico potrò replicargli, dandone pronta dimostrazione, che no, è proprio una vita di merda.
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