Sono trascorsi oramai tre anni (quattro da quando pubblicarono “Six”) dacché i Black Heart Procession diedero per l’ultima volta notizie di sé. Fine della strada? Fosse così, lascerebbero una discografia senza pecche. Generosa come poche, a cavallo fra lo scorso decennio e questo, di suggestioni ed emozioni.
Cavalli corrono sulla copertina di “Three” nel cielo oscuro, ove all’interno del libretto e sul retro del A 3 Song Recording che l’ha preceduto nei negozi di poco campeggiano inquietanti figure antropomorfe, corpo d’uomo e testa d’equino. Torna alla memoria il swiftiano Viaggio nel paese degli houyhnhnm: nella quarta tappa del suo fantastico viaggio, Gulliver arriva in un luogo governato da una razza di nobili cavalli che vivono, serviti dai bestiali yahoo, secondo le leggi di “ragione e natura”. È una ben tetra distopia quella che traccia lo scrittore irlandese. “La ragione infatti – osserverà al riguardo Orwell – esclude ogni dimostrazione d’amore che non sia un’astratta benevolenza universale”. E così gli houyhnhnm, annota ancora Orwell, “creature senza storia, continuano di generazione in generazione a mantenere il numero della popolazione sempre costante, non conoscono il dolore e vanno incontro alla morte con indifferenza, allevando i figli nei loro stessi principi, e tutto questo a che scopo? Solo per far continuare questo processo indefinitivamente”. Vorrebbe parteggiare per i cavalli, Gulliver, se non altro per il disprezzo che nutre per i loro schiavi, ma non ci riesce appieno da quando si rende conto, con “orrore e stupore”, che gli yahoo, quegli “abominevoli animali”, hanno connotati umani.
Ragione e sentimento: se il XVIII secolo, quello di Swift, optò per la prima, il XIX, quello dei romantici, scelse il secondo. Pall Jenkins e Tobias Nathaniel sono due romantici. La dicotomia si ricompone quando il primo elemento si presta a venire temperato dal secondo. È allora che gli yahoo diventano uomini. Nell’universo notturno dei Black Heart Procession sono le ragioni del cuore a dettare l’agire di chi vi si aggira. Imperscrutabili.
“D’inverno il cameriere cadde nella neve/poteva sentire una voce ma chissà se troverà mai la strada/se sono così lontano dal tuo cuore perché lo sento battere?/e il tempo non ci aspetterà.” (The Waiter No.3)
Ciò che più mi affascina – ciò che più amo – del duo di San Diego è l’ineffabilità. Così semplice la sua musica, eppure così difficile da descrivere. Certo, si può sempre cavarsela lanciando sul tavolo referenti come una scala reale dopo ore piccole insonni trascorse in una stanza fumosa, bevendo whiskey irlandese e giocandosi la vita: Nick Cave e il suo blues debitore più a William Faulkner che a Robert Johnson; i Tindersticks prima che diventassero un cliché con le gambe; Messer Bill “Smog” Callahan che suona il country come fossero i Joy Division. Un po’ paradossalmente i Calexico, che stanno ai Black Heart Procession come un giorno assolato alle tenebre. E naturalmente il Tom Waits da “Swordfishtrombones” in poi (Song About A…, sull’A 3 Song Recording, è il suo apocrifo che più si è approssimato alla perfezione). Ma ciò che resta alla fine è la sensazione frustrante e magnifica che non si sia in effetti detto nulla di questa tascabile banda nata come dopolavoro di un progetto più grande, Three Mile Pilot, e poi divenuta il progetto. Perché queste canzoni fatte di niente – una chitarra triste, un piano asfittico, percussioni sgranate come un rosario dislessico – creano dipendenza come forse null’altro nel rock (rock?) odierno? E di cosa parlano? Ché si ha un bel leggere i testi e non si hanno illuminazioni più che dai brandelli che se n’erano catturati all’ascolto. Si ha il sentore che da qualche parte vi siano nascoste delle storie, mosaico di episodi uno per uno trascurabili ma che messi insieme vanno a comporre un Grande Romanzo Americano. Da qui la serialità del prodotto (prodotto?), con il primo album omonimo, il secondo che si chiama “2” e il terzo “Three”, con quella parolina, heart, che ricorre ossessiva nei titoli. Ma quale sia esattamente la vicenda narrata non si sa. La si intuisce, più che altro: amore cercato, trovato, perduto o mai conquistato. Il lieto fine, una remota possibilità. Per la quale vale comunque vivere e varrebbe anche se non esistesse, essendo il viaggio sempre e comunque più intenso ed emozionante dell’approdo.
Ascolto e riascolto “Three” – il valzer esangue di Guess I’ll Forget You (sodale sfatto del capolavoro di 2, Blue Tears); la marcetta country A Heart Like Mine; l’intima apocalisse blues We Always Knew e Ships Of Gold – e mi scopro (pure tu che leggi?) come Dylan Dog quando sa di essersi innamorato, ma non ha ancora incontrato l’oggetto della sua passione. Non siamo in fondo tutti così, innamorati dell’amore?
Per questo credo che l’arte dei Nostri resterà, che in questo mondo che tutto divora a ritmi che non si reggono più li si ricorderà a lungo, con reverenza e affetto. Diceva Pall Jenkins al nostro Testani che “c’è musica legata a un tempo e una senza tempo”. Che “certa musica non riesce ad andare oltre il tempo che rappresenta”. Mi pare che, se il vuoto della MTV Generation ha un’antitesi, questa oggi si chiami Black Heart Procession.
Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.410, 19 settembre 2000.
Per un attimo ho creduto in un loro nuovo album. Forse meglio così però.
Certe cose dei Willard Grant Conspiracy all’epoca mi parevano un pò avvicinabili, ma i Black Heart avranno sempre un posto speciale nel nostro oscuro cuoricino. Credo che inserirò Waterfront in un mio prox podcast.
Anch’io per un attimo ho creduto in un loro nuovo album. Amore del Tropico è uno dei miei dischi preferiti. Immensi, toccano corde intimissime