Hot Rats: il Frank Zappa che piace a quelli cui Frank Zappa non piace

Frank Zappa - Hot Rats

Sempre stato un fan di Bruce Springsteen, benché abbia talvolta messo a dura prova la mia pazienza e talaltra me l’abbia fatta perdere (essere fan non dovrebbe implicare la sordità). Da profondo conoscitore della materia, mi è facile intendere perché “Nebraska” sia puntualmente l’album di Bruce che piace a tutti quelli a cui Bruce non piace: è per via di un’asciuttezza non soltanto musicale, della totale mancanza di sentimentalismo, del suo ritratto impietoso di un mondo popolato di sconfitti nel quale i sogni non hanno cittadinanza. Al contrario, mai stato un fan di Frank Zappa (d’altronde, ci sarà una ragione se mai ho conosciuto qualcuno che lo fosse e adorasse pure Springsteen). Pur da conoscitore approssimativo della materia (ho familiarità con i capisaldi, ma tanti dischi minori dell’uomo di Cucamonga li ho ascoltati una volta oppure mai), mi è facile intendere perché “Hot Rats” sia immancabilmente l’album di Zappa che piace a quelli a cui Zappa non piace. È perché è uno di quelli in cui vivaddio tenne la bocca chiusa. È perché è suonato superbamente senza che mai questo sapere suonare venga esibito. È perché è un prodigio di equilibrio, concisione ed essenzialità a dispetto di trame anche parecchio intricate. Persino in un brano che rasenta i tredici minuti: c’è tutto quello che ci deve essere, non una nota in più e se una venisse sottratta si avvertirebbe un vuoto. C’è il jazz, c’è il rock, c’è un po’ di blues e in tralice più di qualcosa di studi classici che – sbaglio? – trovo messi più a buon frutto qui che nelle tante partiture orchestrali che verranno. Ma è pure – o addirittura soprattutto – quello di Frank Zappa che in “Hot Rats” non c’è a farlo il suo capolavoro: certe ricostruzioni filologiche del doo wop come del rock’n’roll, le tentazioni heavy, gli assoli sbrodoloni, il musical, il cabaret volgare e con esso quella che lui chiamava “antropologia sociale” e altro non era che una sfilata interminabile di ritratti di quanto di peggio l’America (l’umanità) possa offrire. L’ho sempre trovata uno spreco di tempo ed energie pazzesco, questa satira grossolana, quando si sarebbero potute scrivere altre dieci o cento Peaches En Regalia. Però in fondo ha ragione chi fa notare che lo Zappa direttore d’orchestra e quello che si faceva immortalare seduto sulla tazza del cesso, il lucido difensore delle libertà civili e il misogino sboccato erano lo stesso individuo e che nessun aspetto di una personalità tanto complessa può essere disgiunto dagli altri. D’accordo. Ma la vita è troppo breve per dedicarne una parte a cercare di farmi piacere cose che di pelle mi infastidiscono. Mi tengo stretti “Hot Rats”, “Waka/Jawaka” e poco altro e va bene così.

Non fu il primo Zappa che comprai. Fu però il primo che seppi da subito che non avrebbe mai lasciato gli scaffali (oddio… tutti i miei album stavano allora in mezzo metro). Fu il primo che mi fece capire che sì, questo signore è importante. E perché. Incidentalmente è anche il disco cui debbo l’incontro con la vociaccia licantropa di Captain Beefheart e gli vorrei bene anche solo per questo. Canta Willie The Pimp, il Capitano, legando con filo grosso le trame di un rock-blues nel quale le quattro corde del violino di Sugar Cane Harris sono mattatrici quanto le sei della chitarra di un padrone di casa ben lieto di avere sfrattato quegli inquilini indolenti delle Mothers Of Invention tenendo con sé solamente Ian Underwood. Di costoro nettamente il più voglioso, il più talentuoso, quello capace di suonare più strumenti (qui piano, organo, clarinetto, sassofono e flauto) e meglio. Delle Mothers originali alle prese con Willie The Pimp si possono immaginare; non con le compressioni jazz-rock dei quattro minuti di sorrisi, tenerezze (massì!) e vertigini di Peaches En Regalia; non con le complicate partiture fiatistiche sulle cui impalcature scorazza la solista dei nove di Son Of Mr. Green Genes. La seconda facciata segue il medesimo schema, con ad aprire una Little Umbrellas che è una seconda Peaches di un nonnulla inferiore, in mezzo la jam sublimemente aggiustata a posteriori (come usava Teo Macero alle prese con il coevo Miles Davis di “Bitches Brew”) The Gumbo Variations e a suggello una It Must Be A Camel dall’andatura che potete immaginare, con salti melodici stupefacenti. Contribuisce a illuminarla d’immenso il violino di un Jean Luc Ponty che così ispirato sarà solo (e anzi già era stato, visto che le registrazioni risalgono a cinque-sei mesi prima, al marzo ’69) nello strepitoso “King Kong”. Esplicativo sottotitolo “Plays The Music Of Frank Zappa” e sappiate che è una sorta di fratello proprio di “Hot Rats”.

Del quale ancora questo c’è da dire: che fu epocale, oltre che per la musica, per come la si registrò. Nel 1969 lo standard era rappresentato dalle quattro piste, in pochi potevano permettersi le otto ed erano ancora meno quelli in grado di sfruttarle adeguatamente. Convinto da sempre che la sala d’incisione potesse essere il più determinante degli strumenti e fino a quel punto frustrato dai limiti tecnici del tempo, Zappa poteva finalmente averne a disposizione sedici e le usava con una maestria – e anche un senso della misura: non un effetto speciale alle viste – che farà scuola. A memoria direi che nessun disco rock di quattro decenni fa suona bene quanto “Hot Rats”. Vale tanto di più per la straordinaria edizione approntata lo scorso anno da Classic Records con Bernie Grundman a curare il remastering. Scrutinata come si suol dire “back to back” con la vecchia e comunque valida stampa francese che ho in casa dai primi ’80 mi ha svelato particolari inediti. Quasi un ascoltarlo la prima volta e insomma un’emozione.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.301, maggio 2009.

6 commenti

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6 risposte a “Hot Rats: il Frank Zappa che piace a quelli cui Frank Zappa non piace

  1. zomei71

    Hot Rats è uno dei miei dischi preferiti (forse IL preferito) di Zappa, nonostante mi piaccia Zappa ;-), e quando un paio d’anni fa trovai su una bancarella un vinile perfetto di King Kong di Ponty ebbi quasi uno sturbo dal godimento. Bel pezzo.

  2. Bellissimo articolo, ed efficacissimo a convincermi di smetterla di aspettare invano di trovare Hot Rats a 5€, per rassegnarmi a spendere la 10€ minima che ci vuole.
    Sono perfettamente in target con quello che hai scritto: l’unico contatto con Zappa che mi aveva moderatamente convinto finora era stato un Joe’s Garage messo su cassetta 20-25 anni fa…

  3. Francesco

    Mi presento: sono un fan di Zappa ed anche di Bruce (e il discorso su Nebraska lo sottoscrivo appieno, era il mio disco di BS, insieme a the river, poi l’ho visto live a firenze e ora a padova e ho visto la luce..) e quindi dovrei essere protetto come il panda. Detto questo l’articolo è fantastico e pur da zappofilo (o zappiano?) lo sottoscriverei appieno. Infatti sono uno zappiano anomalo, cioè amo il vecchio Frank quando suona ma quando canta/satireggia/rutta/scoreggia parodiando tutti i possibili stili musicali semplicemnete mi annoia, salvo rarissimi casi. E’ per questo che Hot Rats è IL DISCO DI ZAPPA per eccellenza, perchè suona e basta e senza seghe strumentali come in guitars. Qui non c’è niente di superfluo o riempitivo, è veramente tutto oro quel che luccica. Chiarito questo inviterei però il Maestro ed eventuali interessati ad approcciare anche
    Waka Jawaka, Burnt Sweeny Sandwiches, Grand Wazoo, Weasel ripped my flesh (qui canta, ma non è male per nulla), Uncle Meat (c’è king kong..), Lumpy Gravy (va sentito, fate questo sforzo) e poi un paio di grandi, enormi live recenti che si rifersicono alle tournee di inzio anni 70, Wazoo e Imaginary Diseases. Poi a me piace anche Orchestral Favourites e tutti quelli con le mothers, più o meno (il meno è la parodia di Sgt pepper), ma tutta la produzione dopo il 74-75 la lascerei ai fan terminali e, per quanto mi riguarda, posso benissimo farne a meno e vivere senza patemi d’animo.
    E dirò di più, anche dei bei live dell’ultimo periodo come make a jazz noise o the best band you never heard.. etc,pur suonati da fior di musicisti a me risultano freddi come un ghiacciolo e non mi hanno mai preso come i bootleg sghembi delle mothers o quelli citati sopra. E qui si torna al fatto che grandi musicisti (o meglio, musicisti dotati di grande tecnica) non necessariamente fanno grande musica o musica con un grado si soul da conquistare il cuore.
    Comunque, VM, un altro grande articolo

  4. Francesco

    e non a caso sulla copertina di waka/jawaka sui rubinetti c’è la scritta hot rats…

  5. Shitbeard

    Grandissimo album. Ma NIENTE superà per i miei gusti quell’affilata di capolavori l’uno dietro l’altro che ha fatto con le Mothers [“Freak Out!”, “Absolutely Free”, “We’re Only In It..”, “Uncle Meat”, “Burnt Weeny Sandwich” e “Weasels”]…

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