Mi piace la faccia di Tony McPhee sulla copertina del più famoso – e si fa davvero per dire – dei suoi innumerevoli album da solista. Mi fanno simpatia la capigliatura ampiamente recedente che un ciuffo prova come a negare (ma poi ci rinuncia), il baffo asburgico e soprattutto lo sguardo limpido, pacificato – e dev’essere una foto scattata dopo le registrazioni, di sicuro non prima o durante. Una bella, vissuta faccia da nemmeno trentenne che va (andava) verso i quaranta. E, pensando all’epoca di lustrini e cascami cui risale il ritratto, apprezzo assai anche la camicia da operaio. Si presentava così il nostro eroe nel penultimo dei suoi pochi anni da quasi rockstar ed era un dichiarare che la musica era fatica quanto passione, un sudarsi la vita da uomo qualunque. Era sempre stato così, sarebbe tornato a esserlo chiusa una passeggera parentesi di gloria. Insomma: il contenitore mi piace parecchio. Ovviamente mi gusta pure il contenuto, se no non sarei qui a parlarvene.
Con i prodromi la faccio breve, quando ci sarebbe da raccontarne da intrattenervi minimo un quarto d’ora. Me la cavo dicendo di una sbandata adolescenziale per lo skiffle comune in Gran Bretagna a più o meno tutti quelli di quella generazione, prontamente seguita da un amore maturo e imperituro per il blues. Passano per varie incarnazioni e peripezie i suoi Groundhogs, anche un momentaneo scioglimento dopo essersi tolti l’enorme soddisfazione di fare da backing band a John Lee Hooker, e a pubblicare il primo 33 giri arrivano quando la voga per il genere cui si rifanno è faccenda quasi caduta nel dimenticatoio, ampiamente scavalcata da evoluzioni e nuove mode. Ho un debole per i loro primi due LP, “Scratching The Surface” del 1968 e “Blues Obituary” dell’anno dopo, che mi ha probabilmente portato a sopravvalutarli. Laddove a lungo ho sottovalutato i dischi dopo, quelli dove le dodici battute sono ancora ben presenti ma trasfigurate in un hard sull’orlo dell’heavy, fra uno scampolo di psichedelia e una tentazione di prog. Ci ho messo un po’ a entrarci in “Thank Christ For The Bomb”, “Split”, “Who Will Save The World?”, i tre lavori che fra il ’70 e il ’72 facevano dei Nostri un gruppo da Top 10, ma oggi li preferisco ai due dischi prima. Ecco, li metto sullo stesso livello di “The Two Sides Of”. Che è di un altro pianeta, però.
L’argomento di “Split” è la schizofrenia. In un lavoro che vedeva la luce in un anno in cui i Groundhogs si prendevano una pausa (mal gliene sarebbe venuto), il loro leader pensava bene di passare – musicalmente – dalla teoria alla pratica. Anche dopo averci riflettuto a lungo, non riesco a farmi venire in mente un altro album che sia così totalmente scisso fra due mondi tanto distanti, antipodici. Avete sempre pensato che “Here, My Dear” di Marvin Gaye sia il più velenoso racconto di un divorzio mai messo in musica? Il primo lato di “The Two Sides Of” vi farà ricredere e riassegnare il primato. In Three Times Seven, in All My Money, Alimony, in Morning’s Eye, nella veramente esplicita Dog Me, Bitch, in Take It Out, Tony chiude i conti con la ex-moglie (presumibilmente la lei che campeggia con bambino in braccio sul retro di copertina) sboccando fiele sulle corde della chitarra – ora elettrica, ora acustica – che funge da unico accompagnamento a una voce dal nervoso al predicatorio, dall’aspro allo schiettamente malevolo. Tolto qualche passaggio sognante giusto al centro, la musica è un blues parimenti spigoloso e sferragliante, squillante e affilato come un pugnale con cui scavare nel petto per estrarne il cuore e quindi farlo a pezzi. Spero per costei che queste lettere d’odio non le abbia ascoltate mai. Se però lo ha fatto, sia orgogliosa di averle ispirate, carnalissima nemesi di una Laura De Noves. E poi si cambia lato, se si ha la fortuna di possederlo in vinile questo disco posseduto, e non si riesce a credere non sia cambiato anche il disco. Aperta dallo spettrale ululare di un ARP 2600 su cui dopo una trentina di secondi entra la voce, declamante, The Hunt è una cavalcata di diciannove minuti per sintetizzatore, piano elettrico e batteria elettronica che per avvicinarla in quegli anni bisogna volare in Germania e immaginarsi che i Suicide da lì venissero. A tratti solenne, chiesastica e a tratti petulante, ora stentorea e ora stralunata, ognora ossessiva, The Hunt è esperienza d’ascolto estrema, ma che dà dipendenza. Vedrete. Meno arduo simpatizzare, essendo stavolta l’oggetto degli strali del McPhee la barbara pratica della caccia alla volpe.
Split è uno dei miei dischi preferiti di sempre. I groundhogs godono di un certo rispetto da parte di tutta la scena stoner (li ho visti live nel ’98 e credo le orecchie mi facciano ancora male). Questo non lo conosco, ma me lo devo procurare assolutamente, leggendo la recensione.
“Presi per il culto” è sempre una cose intrigantissima.
E chi se l’aspettava, questo disco di Mc Phee? Mi è passato per le mani quelle anta volte.
Adesso dovrò cercarmelo. E ascoltarmelo.
Dovrò.
Si chiama must, Eddy.