Bisogna giusto scoprire di quale anno sia fra le migliori uscite questo “Fain”: se del 1969, del ’70, del ’71 oppure del ’72. Massimo massimo, potrebbe essere del ’73. Perché – dai! – quel 2013 che campeggia sul retro di copertina deve per forza riferirsi alla data della prima riedizione di un oscuro classico sfuggito a oggi alle indagini anche dei più accaniti collezionisti di rock progressivo (in senso lato) dei tardi ’60/primi ’70 britannici. Quello nutrito a folk di Fairport Convention e Trees così come quello memore della lezione del blues, e nel contempo proiettato verso empirei hard, di Cream, Groundhogs e Led Zeppelin, pastorale alla Traffic o ancora ossianico alla Black Sabbath, favolistico alla Jethro Tull, duramente urbano alla Edgar Boughton Band, non meno granitico e nondimeno in decollo per tangenti astrali alla Hawkwind. Qualcuno ha citato i Family? Si odono echi pure di costoro. Qualcuno ha menzionato i Mighty Baby? Sì, ci stanno, ma se vogliamo andare decisamente sull’oscuro chiamiamo direttamente in causa i Dark e via. Non ce la si fa, a noi vecchi lupi dei mari del rock, a fregarci così. “Fain” è chiaramente una ristampa. O no?
Naturalmente no. Per gli inglesi (dal Bedfordshire) Wolf People è questo il secondo oppure il terzo album (volendo contare come tale la raccolta di singoli “Tidings”, che anticipava di qualche mese nel 2010 il debutto “Steeple”) e curiosamente tutti usciti per la stessa etichetta (fra l’altro niente affatto passatista, mediamente) americana. Differenze dal predecessore? Infinitesimali. Qui c’è giusto un tocco di folk in più. Forse (ma forse è solo suggestione) un affinamento della scrittura e delle capacità di strumentisti di giovanotti che a occhio, barbe o non barbe, manco erano nati ancora nell’83 e figurarsi dieci anni prima. Hanno un senso nel 2013? In quanto sapiente ricombinazione (perché è un fatto: a cavallo fra ’60 e ’70 nessuno in Gran Bretagna suonava davvero così) di elementi da lungi codificati del canone rock, direi lo stesso dei TV On The Radio. Mutatis mutandis: stilemi ed epoca di riferimento. Molto di più, secondo me e a patto di limitare rigorosamente il discorso alla musica, che non le Savages. Io li trovo straordinari, come a suo tempo (ed era un buon quarto di secolo fa) trovai straordinario il primo Bevis Frond. Che se vogliamo un qualche contatto con l’attualità (una passionaccia per gli Hüsker Dü, ad esempio) ce l’aveva e questi ragazzotti nisba. Ma la sapete una cosa? Chissenefrega. Mi fanno sentire bene, i Wolf People, e questo è quanto. Essendo nati “vecchi”, ho come l’impressione che invecchieranno meglio – e forse per niente – di tante miserie fighette di stagione.
Sembra di essere entrati in una macchina del tempo.
Le immagini ad alta definizione…..addirittura stridono con quegli strumenti d’epoca e quei maglioni tardo hippy.
Rigorosamente in vinile questi eh ? non scherziamo !
Leggersi una recensione mentre Spotify ti fa sentire il disco ?
Non ha prezzo…
…9,90 al mese !!!
Dio la benedica, mister G.L. Bona.
La madonna: gran pezzo, Maestro mio, gran pezzo questo All returns dei Wolf People. Mi rendi felice dopo un pomeriggio post lavoro passato a riascoltare per la 100ma volta i dischi di Betty Davis, in mancanza di fresche novità appetibili.
Mediamente non passatista la Jagjaguwar: mi consenti però che i Wolf People si troveranno abbastanza bene in scuderia insieme ai Black Mountain, Pink Mountaintops, Unknown Mortal Orchestra… e Foxygen? (no, magari coi Foxygen no).
Con Black Mountain e Pink Mountaintops di sicuro. Alla grande.
Ecco, hai colto – una volta di più – il punto: suonare rifacendosi pedissequamente agli stilemi del passato non è necessariamente esercizio di stile o indice di scarsa creatività; è, piuttosto, passione viscerale per certe sonorità, che il tempo e il vinile hanno eternato per un pubblico più o meno vasto, a seconda del (sotto)genere. E quindi non solo “andare indietro” può anche essere un modo per “andare avanti”, ma quando si fa musica non è per nulla obbligatorio, o particolarmente meritorio, sforzarsi di “andare avanti”. Non sempre quello che viene dopo è progresso, qualsiasi significato voglia attribuirsi a tale vocabolo.
questi sono un mio pallino fin da subito 🙂
io ci sento anche un po’ di Battles sul finale e sulla spigolosità del riff
io personalmente preferisco il loro primo album, forse più acerbo ma più spontaneo. Questo loro secondo lavoro è sicuramente più maturo, però difetta troppo (a mio avviso chiaramente) di quell’aura che lo rende datato senza troppa innovazione (lo ascolterò meglio). Un esempio stupido: nel nuovo album del Black Angels, nonostante gli infiniti richiami agli anni ’60 (i Doors su tutti), sono riusciti a dargli un senso di modernità entusiasmante pieno di freschezza. Forse, quello che manca in questo dei Wolf People (come ho già detto, sono solo sensazioni…)