The Zimmermen – Don’t Go To Sydney (lato A di un singolo, Au-Go-Go, 1985; poi inclusa in “Rivers Of Corn”, 1986)
The Zimmermen – Don’t Go To Sydney (lato A di un singolo, Au-Go-Go, 1985; poi inclusa in “Rivers Of Corn”, 1986)
Terminata l’avventura Henry Cow, e per limitarsi all’essenziale, il tastierista e fiatista Tim Hodgkinson ha suonato post-punk con i Work, hardcore (o per meglio dire artcore) con i God, improv infiltrata di elettronica con i Konk Pack e in proprio musica classica parimenti e preziosamente imbastardita con ogni arnese possibile della modernità, dal synth al laptop. Il chitarrista Fred Frith, dopo avere diviso con il batterista Chris Cutler l’esperienza Art Bears, è stato a lungo uno dei fulcri della New York downtown, collaborando in particolare con John Zorn (anche nei Naked City), con Bill Laswell (nei Massacre), con Tom Cora e Zeena Parkins (negli Skeleton Crew). Ha partecipato a lavori di Brian Eno e dei Residents, ha scritto per il Rova Saxophone Quartet, per il balletto come per il cinema o il teatro e, fra un impegno e l’altro, ha trovato il tempo per pubblicare svariate decine di album da solista. Cutler dal canto suo di dischi da titolare ne ha messi fuori parecchi di meno ma, a contare le partecipazioni, si arriva a sfiorare le cento. Il pubblico del rock ha continuato a seguirlo soprattutto in quanto membro dei Pere Ubu. Pure discografico però, fondatore e motore della ReR, ossia la Recomended Records, il nostro uomo, nonché apprezzato saggista (la serie File Under Popular), laddove Frith da dieci anni insegna composizione al Mills College di Oakland.
Se tanto vari sono stati i progetti che li hanno visti coinvolti dopo quello che sarebbe comunque bastato a inscrivere i loro nomi nel grande libro della musica senza barriere del Novecento, quella mai racchiudibile in toto né nel colto né nel popular, di suo la vicenda Henry Cow era non meno caleidoscopica, benché compressa in un arco temporale assai più breve. Se non si stenta a immaginarseli i ragazzi all’inizio – 1968: ben cinque anni prima di arrivare a pubblicare un LP – della loro vicenda esibirsi di spalla ai Pink Floyd (pensate a cosa erano i Pink Floyd nel ’68), fa decisamente più strano figurarseli, come accadde, prestarsi da turnisti a un’esecuzione dal vivo in uno studio della BBC di “Tubular Bells”. Era il novembre del 1973, il 33 giri che già stava rendendo milionario Mike Oldfield era in circolazione da sei mesi, l’esordio in lungo degli Henry Cow (cui Oldfield aveva dato un piccolo apporto da tecnico del suono) da tre. A parte che uscirono entrambi per la Virgin, arduo immaginarsi due album tanto antipodici nelle filosofie che li sottendono e dai riscontri commerciali più clamorosamente lontani. Eppure: entrambi catalogati alla voce “progressive”. Non so per quante migliaia di dischi ho speso parole in vita mia, ma non ne ricordo molti – perlomeno di belli, di importanti – che diano come “Leg End” ragione all’abusato luogo comune che vuole che scrivere di musica sia come “danzare di architettura”.
Prima cosa indimenticabile di “Leg End”: la copertina, con quel calzino a fare il verso alla mitica banana del debutto dei Velvet Underground. Nel caso l’omaggio a Warhol – quanto ironico? quanto affettuoso? – fosse sfuggito, i successivi “Unrest” (1974) e “In Praise Of Learning” (1975) avrebbero provveduto – e che c’è in arte di più warholiano della serialità? – a replicare. Secondo tratto che permane nel ricordo: il gioco nel titolo fra “Leg End”, “fine della gamba” e dunque piede, e “Legend”. Superimpegnati politicamente, gli Henry Cow, a sinistra della sinistra, ma per fortuna anche sempre pronti a frenare la propensione al dogmatismo con una presa in giro per cominciare a se stessi. Con una risata. A meno che non siate musicisti di quanto scaturisce dai solchi di questo LP stenterete viceversa a fermare nella memoria qualcosa che non sia un’impressione, un colore, un’atmosfera. Disco proverbialmente mercuriale, intreccio di ritmi sinuosi e inconsueti e melodie costantemente impegnate a rincorrersi e mischiarsi, un po’ Frank Zappa e un po’ Canterbury, disco che rimbalza fra avanguardia, jazz e rock come una palla magica che nel momento in cui hai preso nota del punto in cui ha colpito già è da tutt’altra parte. Eppure: in qualche incomprensibile maniera e a parte che non ci si annoia mai, “Leg End” ha una sua godibilità tanto elevata quanto è peculiare. Semplice gioco insomma prima che gioco di specchi. Che chi suona – che sono i tre citati dianzi, presenti negli Henry Cow dal principio alla fine, e in più Geoff Leigh ad assortiti ottoni e John Greaves al basso e al piano – si stia divertendo è palese; che riesca a trasmetterlo quel divertimento – anche nel senso di farlo contagioso – è poco meno che un miracolo in un contesto di tale complessità.
“Leg End” è fresco di ristampa, proprio da parte di ReR, sui canonici 180 grammi di vinile vergine e in una tiratura limitata a mille esemplari. È una riedizione scarna, apprezzabile per il suo riuscire a riprodurre con disinvoltura le infinite sfaccettature di cui si diceva e al contrario bacchettabile per una busta interna non antistatica. A spendere pochi centesimi in più si sarebbe fatto un grande favore all’acquirente, impedendo che qualche superficiale disturbo percepibile al primo ascolto si perpetui nei passaggi successivi. È il medesimo problema che affligge la riedizione (sempre per ReR) di “Hopes And Fears”, il primo LP degli Art Bears di Chris Cutler, Fred Frith e Dagmar Krause. La storia è nota. Negli Henry Cow al lavoro nel 1978 su quello che sarebbe diventato il loro quarto e ultimo 33 giri, “Western Culture”, si crea una fazione contraria alla predominanza nel disco di brani cantati e dalla forma relativamente convenzionale. Il problema è risolto decidendo che le canzoni finiscano su quello che avrebbe dovuto essere l’unico prodotto di una sigla estemporanea (gli Art Bears pubblicheranno invece tre album), mentre gli strumentali verranno tenuti da parte per il gruppo-madre. Il delizioso, ancorché pur’esso non esattamente easy listening, “Hopes And Fears” si fa forte soprattutto della sublime voce operatica della Krause e di una scrittura più (che non vuol dire automaticamente meglio) focalizzata. Nei suoi risvolti, tracce di folk e anticipi di post-rock.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.316, novembre 2010.
Archiviato in archivi
Qualcuno si ricorda ancora di George Thorogood? Negli Stati Uniti parrebbe di sì, se è vero come è vero che ogni volta che esce un suo album puntualmente si inerpica ai vertici della classifica blues di “Billboard”, che non vorrà dire chissà che in termini di vendite ma denota che commercialmente la carriera di uno che suonò al “Live Aid” e di spalla ai Rolling Stones è tutt’altro che finita. In Italia, dove nella prima metà degli ’80 la sua popolarità (principalmente grazie all’appassionata sponsorizzazione di certa stampa) era più che discreta, mi sa nessuno. A parte il sottoscritto.
Archiviato in archivi
Viene proprio da volergli bene agli It’s A Beautiful Day. Per chi un minimo li conosce, pressoché invariabilmente “quelli che sembravano i Jefferson Airplane”. Quelli che fra tutte le band del San Francisco Sound si affacciarono ultimi al proscenio, quasi fuori tempo massimo. Chi sa comunque chi furono, di loro ricorda giusto due canzoni, essendo la seconda Bombay Calling, quella cui i Deep Purple si ispirarono (diciamo così) per farci Child In Time. Oppure una soltanto e allora non può essere che White Bird, gloria e dannazione del gruppo di David LaFlamme e soprattutto di LaFlamme medesimo, che scopriva presto che il suo nome sarebbe rimasto legato per sempre a quell’unico pezzo e provava a fare buon viso a cattivo gioco. A trentaquattro anni dalla pubblicazione White Bird è ancora nella programmazione delle radio americane, ma molti non sanno nulla di chi la incise. Viene proprio da volergli bene agli It’s A Beautiful Day. Mamma mia, che sfigati.
Classe 1941, nativo del Connecticut, cresciuto a Salt Lake City, al rock LaFlamme arriva partendo da dove più lontano non si potrebbe: da un posto di violinista solista conquistato da fanciullo prodigio nella Utah Symphony Orchestra. Non sente ragioni lo Zio Sam quando si tratta di chiamarlo ad assolvere gli obblighi di leva ed è in prospettiva una fortuna e una condanna che, giunto così in California, Bay Area, il giovanotto se ne innamori e decida, congedato, di fermarvisi. Non è chiaro come spenda gli anni fra il ’63 e il ’66. A quel punto lo ritroviamo immerso e confuso (buon amico di Jerry Garcia, sembra) in una scena folk-rock e presto psichedelica in sboccio. Non approda a traguardi concreti il progetto effimero di una fantomatica Electric Chamber Orchestra. Non dura granché di più la permanenza in una prima incarnazione di Dan Hicks & His Hot Licks. David si è nel frattempo sposato ed è con la moglie Linda, una valida tastierista, che fonda gli It’s A Beautiful Day quando la più fatidica delle estati, quella del 1967 e dell’Amore, incombe. Completano una formazione inusualmente a sei la cantante Pattie Santos, il chitarrista Hal Wagenet, il bassista Mitchell Holman e il batterista Val Fuentes. Ragazze e ragazzi non possono saperlo, ma il loro destino è segnato nell’istante in cui ne assume il management Matthew Katz, che è l’uomo che sta dietro a Jefferson Airplane e Moby Grape e parrebbe una scelta felicissima non sapendo, come gli It’s A Beautiful Day non sanno, che Jefferson Airplane e Moby Grape stanno disperatamente cercando di liberarsene. Convintili che non sono ancora maturi per esporsi in una ribalta già affollata di pezzi da novanta quale quella di San Francisco, Katz li spedisce in una sorta di esilio di studio nella lontana Seattle, dove non possono suonare che in un club di sua proprietà. Impiegheranno mesi a capire di trovarsi in un vicolo cieco, un altro anno a sciogliersi dall’ingombrante tutela e quando infine, rimediato un contratto dalla Columbia, porranno mano al primo LP si sarà fatto il 1969. Sembreranno dei tardi e interessati emuli di un sound che avrebbero invece potuto contribuire a creare. Dei volgari imitatori.
Copertina ispirata da una rivista dei primi del Novecento e stupenda (la si trova spesso in elenchi delle copertine più belle di sempre laddove fra i dischi più belli quello che contiene non è ricordato mai), a bene ascoltarlo “It’s A Beautiful Day” non è affatto il lavoro derivativo che si dice sia. Anzi! A partire dai sei minuti sistemati in apertura della sua canzone più famosa, che echeggia gli Airplane giusto nel gioco di voci maschile e femminile e nel prendere ispirazione da un folk-rock che risolve però altrimenti, spingendosi verso lidi progressivi (almeno negli USA in anticipo dunque sui tempi piuttosto che a rimorchio) in luogo che psichedelici. Pezzo che inchioda sin dal pizzicato che ne disegna la melodia ma che non è giusto che obnubili né l’alternarsi fra momenti raccolti e slanci epici di Hot Summer Day né un Wasted Union Blues dallo stralunato all’ustionante. Men che meno il minuetto favolistico di Girl With No Eyes. Fine della prima facciata. La seconda sceglie definitivamente l’opzione prog con i panorami squisitamente oleografici di Bombay Calling e Bulgaria (in entrambi i casi: nomen omen), prima di soccombere al comunque benemerito eccesso di ambizioni di una Time Is (quasi dieci minuti) ora zingara, ora rock’n’roll, ora tribale. David e variabili sodali non sapranno più riprendere i fili del discorso. Già da un seguito, “Marrying Maiden”, non all’altezza di un’altra copertina fantastica.
Archiviato in culti
Il 24 luglio 1967 gli Yardbirds pubblicavano quello che sarebbe rimasto il loro ultimo album vero, non contando il discutibile frutto nel 2003 di una parzialissima reunion. Così raccontavo “Little Games” dieci anni or sono, prendendo spunto da una riedizione dal programma notevolmente ampliato rispetto ai dieci brani originali.
Lo annotavo, giusto un mese fa, in cima alla recensione della ristampa espansa, su Sunspots, di “Having A Rave Up With”: Yardbirds riformati e in tour. Difficilmente risulterà la notizia più eccitante del 2003. Una successiva mail ricevuta da un distributore ha precisato i contorni dell’operazione. Dell’organico fanno parte, dei componenti storici, i soli Chris Dreja e Jim McCarty, con reduci del pub-rock (da Dr. Feelgood e Nine Below Zero) a completare una formazione logicamente orba di Eric Clapton, Jeff Beck e Jimmy Page e pure di Paul Samwell-Smith, che nella vita ha evidentemente di meglio da fare che andare alla disperata ricerca di passatissime glorie e di qualche spicciolo per assicurarsi che i sessanta incombenti siano, se non proprio favolosi, non troppo disagiati. C’è pure un album in studio in ballo, in uscita a fine aprile (e lì Jeff Beck una comparsata da ospite la fa) e annunciato in pompa magna come il successore di “Little Games”, una faccenda di appena trentacinque anni fa. Quale ne sia il cabotaggio è chiarito da una scaletta che a fronte di sette brani nuovi mette in fila otto classici del bel tempo che fu. Insomma: non ci credono nemmeno loro. Dovremmo crederci noi? Fortuna che un rifugio dalle miserie odierne viene offerto da un riordino (si fa per dire: la confusione, nell’incasinata discografia, cresce anzi) di archivi che, a brevissima distanza dal succitato “Having A Rave Up With”, ha riportato nei negozi giustappunto “Little Games”. Undici anni fa ce n’era già stata una riedizione (sempre su EMI) talmente allargata da richiedere un doppio CD. Questa volta basta un dischetto ma è pieno zeppo, con registrazioni coeve di quelle che furono selezionate per il 33 giri originale e altre radiofoniche, per la BBC, che però in parte già stavano su una raccolta del ’91, “On Air”. Dazed & confused come a questo punto sarete, sento che un’unica ma essenziale domanda vi sorge alle labbra: merita l’acquisto? Assolutamente sì, per un libretto esemplare (venti pagine zeppe di notizie e con un apparato iconografico di prim’ordine) e per il fascinoso ritratto che offre di un gruppo da un lato sempre più allo sbando, dall’altro in volo verso inauditi empirei e altre avventure. Che ci saranno ma con protagonisti perlopiù nuovi e una diversa ragione sociale: Led Zeppelin.
Proprio dalla fine del corposo programma vi consiglio di partire, da una White Summer ulteriormente inacidata dall’eccitazione data dal palco e da una Dazed And Confused fosca e hardelica che transiterà pari pari nel repertorio del Dirigibile. Ci troviamo alla Playhouse di Manchester, è il 6 marzo 1968 e Keith Relf (voce e armonica), Jimmy Page (chitarra), Chris Dreja (basso) e Jim McCarty (batteria) stanno per preparare le valigie per un tour americano di tre mesi che sarà l’ultimo. “Little Games” è uscito nell’estate precedente, solo oltre Atlantico, e la sua performance commerciale è stata modesta. I giornali ne hanno parlato poco. La critica, a posteriori (complice un missaggio opaco che le ristampe correggeranno), sarà sempre tiepida o peggio. Tempo di un po’ di sano revisionismo.
Intendiamoci: non siamo affatto in presenza di un capolavoro, ché i Nostri furono fino all’ultimo complesso da 45 giri piuttosto che da LP, e l’album risulta sommamente frammentario, privo di un’idea unificatrice, teso a cercare nuovi approdi restando tuttavia a metà del guado. Così, dalla marcetta lisergica della canzone che lo battezza e lo inaugura si passa a un classico blues elettrico come Smile On Me. Si azzarda uno straordinario raga come White Summer (a dir poco debitore comunque nei confronti di quel misconosciuto eroe della chitarra che è Davy Graham) e subito ci si rifugia nel beat di Tinker, Tailor, Soldier, Sailor. Si prova a fare il bis della gotica Still I’m Sad con Glimpses e poi ci si produce in un omaggio, tanto calligrafico da farsi plagio, quale Drinking Muddy Water. Si sporcano di psichedelia le dodici canoniche battute di No Excess Baggage e ci si tuffa quindi nel vaudeville di Stealing Stealing. Si ammannisce una squisitezza folk chiamata Only The Black Rose e subito se ne dissipa il sognante effetto con l’ingenua protesta di Little Soldier Boy. Gioco di tentennante equilibrio (squilibrato in realtà) che il corredo di bonus perpetua con brani ad ogni buon conto di buona fattura, fra i quali vorrei segnalare una circense (da Tom Waits ante litteram) I Remember The Night e una svagata e pruriginosa Goodnight Sweet Josephine (ben tre versioni). Mentre con il Bob Dylan rivisitato di Most Likely You Go Your Way (And I’ll Go Mine) siamo davvero soltanto al livello di curiosità.
Eppure, anche se così evidentemente slegato “Little Games” cattura e per due ragioni: una è che vi si avverte più una sana curiosità per il nuovo che andava avanzando che non la paura di farsi superare dai tempi; l’altra è che è come se gli Yardbirds, avvertendo forse che la fine si approssimava, avessero allora deciso di mettersi per intero in un disco. Qui la loro parabola c’è tutta: dal purismo blues degli esordi con Eric Clapton a una psichedelia, via beat, geneticamente disposta con Jimmy Page a farsi hard. È come se fosse un “Greatest Hits” ma paradossalmente senza le hits, che in buona parte stanno invece sulla ristampa di “Having A Rave Up With”. Procurandovi questi due titoli, avrete molto se non tutto di quanto merita avere di una compagine insieme (un altro paradosso) grandemente sopravvalutata e sottovalutata. Certo: non della lega dei Beatles, degli Stones, dei Kinks. Nondimeno capace di fare la storia e non solamente per l’incredibile sequela di chitarristi solisti che vi transitarono.
Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.521, 18 febbraio 2003.
Archiviato in anniversari, archivi
Ho un rapporto un po’ complicato con Joseph Arthur, ma non è colpa mia: è in primis questo cantautore di Akron, Ohio (la città dei Devo: una delle poche influenze non rintracciabili nella sua opera), ad avere un rapporto complicato con sé stesso, non avendo evidentemente ancora deciso che tipo di artista diventare da grande. E dire che il debutto discografico risale a ormai sedici anni or sono e da lungi si è inoltrato negli “anta”. Partiva male la nostra storia. Vedeva la luce a inizio 1997 un album chiamato “Big City Secrets” e c’era di che farsene incuriosire: era il primo disco rock a uscire su Real World, etichetta di proprietà di Peter Gabriel, usualmente in tutt’altre ed etniche faccende affaccendata, ma ascoltandolo sul serio non si riusciva a capire cosa avesse scorto l’ex-Genesis in quella dozzina di canzoni sfocate, ben più interessanti nelle intenzioni – “country psichedelico”, lo definiva “Mojo”, quando per l’autore trattavasi di “folk-rock sperimentale” – che negli esiti. Mi convinceva assai di più tre anni dopo “Come To Where I’m From”, per quanto trovassi inquietante un album incerto se ispirarsi ai Beastie Boys o a Elvis Costello, oppure agli U2, e mi piaceva proprio nel 2002 “Redemption’s Son”, che pure in fatto di schizofrenia era persino più esagerato: capace di mettere insieme in qualche misterioso modo Nirvana e Left Banke, Springsteen e Jane’s Addiction. Da allora la frequentazione si è fatta occasionale. Qualcosa ho ascoltato senza gradirlo molto (“Temporary People”, “The Graduation Ceremony”), altro non l’ho proprio ascoltato. E dunque ho messo su “The Ballad Of Boogie Christ” (che è comunque un titolo fantastico) senza sapere cosa attendermi. Al limite con qualche pregiudizio dato dall’avere letto che trattasi di concept, ideato oltretutto originariamente in forma di raccolta di versi, e non dico di avere con i concept il rapporto che aveva Goebbels con la cultura ma siamo lì. Naturalmente sono stato infilato in contropiede. E stavolta Giuseppe Arturo è andato a rete.
La sua prova migliore di sempre? Perlomeno fra quelle che ho sentito (oltre che di una decina di album il nostro uomo è titolare di un congruo numero di EP e ha scritto parecchio per cinema e TV), certamente sì. Questione ovviamente e in prima istanza di qualità della scrittura, uniformente alta come non mai. Ma a elevare oltre la media della produzione tanto dell’artefice che dell’odierno cantautorato rock “La ballata di Cristo Boogie” è la naturalezza con cui tutto si tiene in quello che è sostanzialmente un bel zibaldone di Americana. Dove davvero la varietà non manca, tant’è – per dire – che si passa dal blues con vista sul gospel di Currency Of Love al folk-rock con uno scorcio di raga di Saint Of Impossible Causes e da quello a una traccia omonima un po’ valzer e un po’ rock’n’roll. E non sono che i primi tre brani! Più avanti ho apprezzato particolarmente la dolente I Miss The Zoo (una versione diversa rispetto a quella inclusa nel 2012 in “Redemption City”), una stoniana It’s OK To Be Young/Gone, gli scatenati errebì Black Flowers e Famous Friends Along The Coast. Solo in dirittura d’arrivo, con la ballatona All The Old Heroes, tentata dal retorico e tirata troppo per le lunghe dopo un bell’attacco quasi cameristico, il disco sbanda e rischia di finire fuori strada. Pare tuttavia peccato veniale, in quanto isolato, per uno che del prendere male le curve aveva a oggi fatto un connotato precipuo.
Archiviato in recensioni
Si potrebbe partire dalla fine o quasi, dall’ultima canzone eseguita con il gruppo (prima di chiudere con i bis così come aveva iniziato: da solo) nel concerto immortalato nel DVD che accompagna i due CD in un’edizione limitata di “Quiet Please…”: da una (What’s So Funny ’Bout) Peace, Love And Understanding che una volta (soprattutto nella lettura datane nel 1979 da Elvis Costello) suonava come una pungente presa in giro dell’hippismo e oggi… be’, oggi emoziona. Oppure si potrebbe cominciare da un principio che era in realtà un congedo, dalla versione originale, che apre “Quiet Please…”, della canzone di cui sopra, che i Brinsley Schwarz eseguivano nel 1974 in quello che era il loro sesto LP, “The Favourites Of”, e sarebbe rimasto l’ultimo. O, ancora, si potrebbe attaccare dando i numeri, magari sei così ve li potete giocare. 60: gli anni che ha compiuto Nick Lowe lo scorso 25 marzo. 44: gli anni trascorsi da quando firmò (o, più probabilmente, da quando suo padre firmò a suo nome) il primo contratto discografico. 33: gli anni coperti dalla doppia raccolta venuta buona come scusa per dedicare infine una paginetta a un artista tanto straordinario quanto sottovalutato. 49: i brani che sfilano nella suddetta antologia. 20: gli album da cui sono tratti. 12: il piazzamento più alto nelle classifiche britanniche di un singolo del nostro uomo, Cruel To Be Kind. Era il 1979 e per una bizzarrissima coincidenza il 45 giri in questione era un numero 12 pure negli Stati Uniti, in Canada e in Australia. Si può cominciare da qui, da lì o da là, ma è sempre alla stessa conclusione che si arriva al termine delle due ore e mezza di una delle più belle collezioni di sempre e di chiunque: Lowe (che fra l’altro sarà a fine giugno in Italia a dar man forte a un vecchio amico, tal Ry Cooder) è un genio del pop-rock e sarebbe tempo che questa genialità – assoluta per quanto riguarda i testi, quella dell’artigiano più sopraffino per quanto attiene alle musiche – venisse riconosciuta e celebrata universalmente. Se è vero come è vero – Clapton docet – che a determinare la riuscita di un assolo di chitarra non è quanto ci metti dentro ma quanto ne tieni fuori, similmente si potrebbe dire che a dimostrare incontrovertibilmente la grandezza di questo artista è, oltre al tanto che figura in “Quiet Please…”, il tantissimo che è rimasto escluso.
Ci sarebbe voluto un box, diciamo quadruplo o se no quintuplo facendo salvo un DVD comunque prezioso. Forse i Kippington Lodge non ci sarebbero entrati lo stesso e nessuno avrebbe avuto di che ridire: poco più che un peccato di gioventù costoro, bittarello ingenuo e sui generis pressoché fuori tempo massimo, anche se per riuscire a farsi ingaggiare – e nemmeno maggiorenni! – dalla stessa etichetta dei Beatles e cioè Parlophone qualche qualità – rimasta nascosta – dovevano pure averla. In compenso e sacrosantemente i Brinsley Schwarz avrebbero potuto avere rappresentanza più adeguata di una raminga canzone favolosa e furbetta (il lettore scafato impiegherà mezzo secondo a individuare il brano degli Who che, in involontaria collaborazione con Judee Sill, per così dire la ispirò). A essere selettivissimi, se ne sarebbero forse potuti ignorare i primi passi, un omonimo esordio a 33 giri e l’appena più ispirato “Despite It All”, appiattiti su un country-rock simile in maniera e misura sospette ai campioni di vendite AD 1970 Crosby, Stills, Nash e Young. Non i magnifici e crucialissimi “Nervous On The Road”, “Silver Pistol”, “Please Don’t Ever Change”, pionieristici apripista per quel pub-rock che farà da apripista al punk, che farà da apripista alla new wave. Fieramente controcorrente lungo l’intera prima metà degli anni ’70, epoca a) di glam, b) di progressive e c) di lagne cantautorali, Nick Lowe si trovava inopinatamente, in perfetta coincidenza con l’inizio della sua carriera solistica, a essere in prima linea sul fronte del cambiamento. Era lui nel 1976 a inaugurare con il 7” So It Goes/Heart Of The City il catalogo di quella Stiff per la quale subito dopo cominciava a lavorare anche come produttore ed ecco, in un cofanetto ideale del Nostro non dovrebbe mancare un disco dedicato alle sue produzioni. Per non citarne che alcune: quello che è considerato il primo singolo del punk inglese, vale a dire New Rose, e il susseguente debutto a 33 giri dei Damned; l’esordio di Graham Parker “Howlin’ Wind”; i primi tre storici ed eccezionali LP di Elvis Costello; Stop Your Sobbing, biglietto da visita per i Pretenders. Il perfetto cofanetto del Nostro dovrebbe poi tenere conto che se formalmente il gruppo messo insieme nel ’77 con l’eterno amico/rivale Dave Edmunds non pubblicava, per una serie di complicate ragioni contrattuali, che un album, in realtà il sodalizio ne fruttava diversi di più: tutti i lavori usciti fra il ’77 e l’81 a nome Nick Lowe oppure Dave Edmunds sono nei fatti dischi dei Rockpile.
Senza mettersi a fare ragioneria spicciola deplorando, giacché va sempre a gusti, l’assenza di questa o quella canzone quando poi le quarantanove presenti sono tutte (tutte) imperdibili, l’ultima precisazione da fare su “Quiet Life…” è che, carrellata su una vicenda artistica di rare longevità e consistenza, è scelta scientemente, programmaticamente orientata e parziale. Lungi dall’ignorare le cose più rock’n’roll, privilegia le ballate, qualcuna delle quali si sarebbe potuta ascoltare (qualcuna la si ascoltò) da un Johnny Cash (a proposito: per qualche tempo suocero del Nostro e dopo restarono amici), qualcun’altra da un Frank Sinatra.
Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.658, maggio 2009.
Archiviato in archivi
Archiviato in archivi
Credo che di nessun album mi siano passate per le mani più copie che di questo. Fatto è che lo acquistai quando non era uscito da molto, forse sette o otto mesi, perché innamorato del singolo e all’edizione non feci caso. Stampa italiana. Ben suonante, niente da dire. Solo che da lì a qualche mese ancora a casa di un amico mi trovavo davanti l’inglese e dire che ci restavo insieme a bocca aperta e malissimo è poco. Era così che scoprivo che nel Bel Paese avevano pensato bene di risparmiare sull’inserto: uno stupendo libretto fotografico – esplicativo il titolo: Church – formato 29,8 per 29,8 di sedici pagine. Un dolore quasi fisico constatarne l’assenza nel mio “The Garden”. Per anni in ogni negozio di dischi nel quale sono entrato per prima cosa ho verificato se ne avessero uno comme il faut. Non mi era necessario girare la copertina per capirlo, mi bastava soppesarlo. “The Garden” era ovunque, ma immancabilmente italiano. E poi un bel giorno dell’inverno ’86-’87 da un rivenditore d’usato milanese alla quinta o sesta copia (mi capita di sognarmelo quel posto: giuro) che tiravo su di seguito un tuffo al cuore: la ricerca era finita. Lo so che nel 2008 di quello che fu il secondo capitolo della vita post-Ultravox di Dennis Leigh, in arte John Foxx, è uscita una “Deluxe Edition” e non vi dico di non comprarvela, no. Ma prima o dopo di “The Garden” dovrete comunque portarvene a casa uno come quello che ho io. In vinile. Con il libro. No, è importante. Di questa mirabilissima opera d’arte la grafica è parte integrante e decisiva. Senza, non è la stessa. Senza, pur restando rimarchevole la suggestione che ne promana si dimezza.
Di solito, quando ad andarsene è il leader, un gruppo che a sommare i talenti di tutti i restanti e del subentrante non si pareggia quello del dimissionario fa una misera fine. Non era il caso degli Ultravox, che orbi di John Foxx e con al suo posto Midge Ure passavano da culti a superstar, prendendo a collezionare dischi d’oro e platino quando in precedenza non uno dei loro 33 giri, non uno dei loro 45 si era affacciato nelle classifiche britanniche, né in quelle di qualunque altro paese. A me i secondi Ultravox – retorici piuttosto che romantici, barocchi in luogo che teutonici – non hanno mai detto nulla. Non baratterei nessuna nemmeno delle loro poche canzoni che non mi dispiacciono con alcunché di quanto contenuto nei tre LP realizzati con Foxx al comando – “Ultravox!”, “Ha! Ha! Ha” e “Systems Of Romance”, trilogia di capolavori con pochi pari nella new wave (forse giusto gli Wire) – e manco farei cambio con “Metamatic” e, va da sé, “The Garden”. E se posso capire perché loro ebbero successo non riuscirò viceversa mai a farmi una ragione della modestia, al confronto, delle fortune commerciali di un uomo che aveva tutto – persino l’aspetto – per essere un secondo David Bowie.
A “The Garden” piace vincere facile. Comincia con il singolo di cui sopra, Europe After The Rain, e lo sai subito che sarà letteralmente indimenticabile. Pur travolto dalla sua epicità dolcissima, da quel luccicare di piano in contrasto e simbiosi sublimi con la ritmica krauta, due cose ti sono immediatamente chiare: che non sarà possibile sostenere per un album intero un simile climax e che non è lo stesso mondo che abitava il precedente “Metamatic”. Grande disco anche quello ma davvero diversissimo, algida parata di sintetizzatori e batterie elettroniche che dal primo all’ultimo secondo rimandano direttamente ai Kraftwerk laddove nel successore le macchine non sembrano mai robotiche, umanissime anzi. Laddove nel successore riappaiono gli arnesi del rock e in particolare è spettacolare la chitarra di un altro ex-Ultravox, Robin Simon: ficcante e spezzata, a tratti urlante senza una nota di troppo. “The Garden” è techno-pop in versione colta, aristocratica, è new wave che getta ponti verso il glam ma negandolo, sono i Roxy Music non a Berlino “by the wall” ma sotto la pioggia in un pineto ognimmodo nordico. Per molto tempo ho pensato che l’inusitato Pater Noster gregoriano in battuta disco (il lavoro intero è segnato dal complesso rapporto dell’artefice con il cattolicesimo) in chiusura di primo lato ne sciupasse un po’ equilibri altrimenti perfetti. Oggi non più. Oggi mi pare pausa sapiente e raccordo ideale fra l’ossessività di Dancing Like A Gun e il cyber-funky-blues Night Suit. Postilla adeguata alla nevrosi sentimentale di When I Was A Man And You Were A Woman, ponte verso la lodgeriana Fusion/Fission, annunciazione di un’angelicata, pastorale traccia omonima di grazia ineffabile, irripetibile. E difatti John Foxx non si ripeterà.
Archiviato in culti
“I like my man like I like my whiskey/aged and mellow”, cantava Esther Phillips quando era ancora Little Esther, e non se la prenderà Mavis Staples, che è donna di mondo oltre che di chiesa, se si estende un simile, profano paragone a una voce che sembra assurdo dire, gettando l’occhio a catalogo e storia pregressi, che più passano gli anni e più si fa invincibile, ma è proprio così. Favolosa questa seconda (terza? quarta?) giovinezza di una che ha appena festeggiato il settantaquattresimo compleanno e calpesta palcoscenici dacché ancora doveva spegnere l’undicesima di candelina. Principiava nel 2007 con l’approdo alla Anti e quel “We’ll Never Turn Back” sapientemente curato in regia da Ry Cooder e tutto incentrato sull’epopea della lotta per i diritti civili negli Stati Uniti dei ’60 e, dopo un parimenti strepitoso “Live: Hope At The Hidehout” spedito nei negozi alla vigilia delle elezioni che per la prima volta portavano un uomo di colore alla Casa Bianca, trovava essenziale continuità nel 2010 con “You Are Not Alone”. Prodotto, quello, da Jeff Tweedy degli Wilco. Squadra che vince non si cambia.
Non c’è niente da fare: qualunque cosa canti la più giovane di casa Staples automaticamente si trasforma in gospel, anche e tanto più stupefacentemente quando in origine non lo era. Vale per Can You Get To That, che nella versione primigenia dei Funkadelic inclusa nel capitale “Maggot Brain” più che rimandare a cerimonie domenicali prefigurava, con un bel po’ di anticipo, tal Prince Rogers Nelson e che adesso ha il cielo come unico limite e obiettivo. Differenza fatta tutta da Mavis, siccome l’arrangiamento attuale non si discosta, se non per dettagli scarsamente significativi, da quello del ’71. Vale tanto di più per una scarna, felpata e di intensità rabbrividente Holy Ghost, che inaugura l’album e con l’immediatamente successiva Every Step – appesa a un arpeggio statico fintanto che ritmica e coro non la fanno decollare verso empirei gioiosamente indicibili – ne stabilisce il tono. Arriva dai Low e, guarda che caso, da “The Invisible Way”, recente ed eccelso lavoro del trio di Duluth diretto da Tweedy. Che è l’autore di Every Step – e più avanti di una dolcisssima Jesus Wept; e infine del blues che strascicando i piedi si porge da congedo di One True Vine – e non si sa se preoccuparsi del prossimo Wilco, temendo che stia dando via le canzoni migliori, o viceversa sognare – preso atto di un simile stato di… grazia – il capolavoro che cancellerà i capolavori precedenti. Relativo a quel punto lo stupore nello scorgere la firma di Nick Lowe sotto una giocosa Far Celestial Shore, rassicurante (fin quando un’ustionante chitarra solista non apre il primo e unico scorcio e squarcio di rock) vedere quella dello scomparso da lungi patriarca di casa Staples, Roebuck detto “Pops”, sotto l’altrimenti suadente I Like The Things About Me. Sow Good Seeds, invita esplosiva la settima traccia di dieci. Woke Up This Morning (With My Mind On Jesus) racconta un’esultante nona e sì, capita pure a me di svegliarmi e rivolgere come prima cosa il pensiero a Nostro Signore, ma in maniera diversa da questo scricciolo con voce da leonessa. Ad ascoltarla, Mavis Staples, quasi ti viene voglia di emendarti, di pentirti, di crederci. D’altronde Bobbie Dylan non è uno che si innamora di persone banali.
Archiviato in recensioni