Eppure lo chiarisce subito il titolo, che diamine: “Personal Record”. Laddove, spiega l’artefice stessa, il “personale” va inteso non come rappresentazione del privato bensì riferendolo al rapporto con la musica di colei che da sempre è metà dei Fiery Furnaces e chissà se ancora lo è. Siccome l’ultimo lavoro insieme di ragazzo e ragazza è faccenda del 2009, il concerto dopo il quale annunciavano un indefinito periodo sabbatico del 2011, a quello stesso anno risale il debutto in proprio di Eleanor e sempre dal 2011 il fratello Matthew ha pubblicato l’impossibile, mantenendo insieme un profilo altissimo (una marea di uscite, per l’appunto) e bassissimo (solo vinile e piccole tirature). Personale. Perché attendersi allora dalla minore dei Friedberger che ogni suo disco sia un’aggiunta al multiforme quanto chiarissimamente identificabile canone del gruppo madre? Quando tutto sembrerebbe indicare che, nel caso il sodalizio non dovesse riannodarsi, sarà semmai Matthew a raccoglierne l’eredità. Se l’esordio della sorella, “Last Summer”, si poneva in qualche modo in continuità rispetto a “I’m Going Away” era soltanto perché quello si rivelava l’articolo nettamente più fruibile del catalogo Fiery Furnaces. Più pop-rock che post-rock o prog-rock, attento alla forma-canzone come non mai e con dentro tre, quattro, cinque brani di clamorosa incisività. Ecco, al massimo di quei Fiery Furnaces Eleanor Friedberger può essere ritenuta una propaggine. Giri al largo da “Personal Record” chi considerò quell’album un deplorevole scendere a patti con il mondo. Giri al largo. Si perderà uno dei più bei dischi del 2013, ma tanto non l’avrebbe apprezzato comunque.
C’è una gran voglia di anni ’70 e ’80 in giro (di ’60 e di ’90: di qualunque decennio non sia questo, contraddittoriamente amorfo e tentacolare), ma probabilmente negli Stati Uniti se ne accorgeranno meno, giacché a scorrere le playlist di tante radio è come si fosse fermi a un ideale 1984 in cui si suonavano in prevalenza pezzi del ’76 o poco su di lì. In quell’epoca la ragazza (che per inciso giusto nel ’76 nasceva) si sarebbe trovata a meraviglia. Da quell’epoca sarebbe stata abbracciata. Oggi una buona mezza dozzina della dozzina di canzoni che sfilano qui si troverebbe allora iscritta alla categoria dei sempreverdi. Che razza di paradosso che sia anche la presenza sempiterna e incombente di quei sempreverdi a impedire che brani del tutto analoghi si conquistino la visibilità che meriterebbero. Tom Petty avrebbe potuto cominciare a costruire l’edificio della sua fama pure partendo da pezzi come la janglesca When I Knew e il rock’n’roll Stare At The Sun, Carole King avrebbe aggiunto titoli al lungo elenco di classici e milioni di dollari al pingue conto in banca con la bossanova Echo Or Encore e una Other Boys fra blues a valzer, i Fleetwood Mac avrebbero felicemente prolungato la stagione rumourosamente aurea con My Own World, Hall & Oates si sarebbero confermati i bianchi più negri con il funk elegante e squillante I Don’t Want To Bother You e una She’s A Mirror – diciamolo – sfacciata: innegabile la sua prossimità a Maneater.
Mi correggo: non uno dei più bei dischi del 2013. Il disco di quest’anno da avere se le parole “pop” e “canzone” per voi significano qualcosa.
L’ho ascoltato parecchio, e ogni volta mi lascia una sensazione di freddezza che quasi mi spinge a riascoltarlo nuovamente, come se qualcosa mi fosse sfuggito. Sensazione che, riprendendo gli artisti citati, una C. King o una S. Nicks mai e poi mai mi avrebbero lasciato. Un disco algido, quanto bello.
Ciao,
M. Rove
Lo dice Cilia, l’ha detto Bordone,
Sicuramente sara’ un discone…
Secondo me piu’ bello il precedente, last summer, comunque condivido l’entusiasmo per le sue sghembe ed inafferrabili melodie pop