La copertina della mia copia del primo dB’s è forata: un buco di un centimetro di diametro posizionato a circa tre dal bordo alto e quattro da quello di destra, segnale inequivocabile del fatto che lo acquistai dopo che era finito fra i fuori catalogo. Credo che tutti gli altri tagliati che ho in casa (molte decine e fra essi alcuni dei dischi più belli ch’io abbia mai comprato, diversi Townes Van Zandt per non fare che un nome) siano americani, qualcuno forse canadese. “Stand For Decibels” no. Non potrebbe proprio essere “made in the U.S.A.”, giacché l’album che svelava a un mondo indifferente anziché no lo smisurato talento di Chris Stamey, Peter Holsapple, Gene Holder e Will Rigby negli Stati Uniti non verrà pubblicato che nell’89, direttamente in CD. Non esiste una stampa americana in vinile del primo dB’s. Come i collezionisti ben sanno, le edizioni originali dei primi due sono britanniche, su Albion. Le mie copie sono italiane, su Panarecord, etichetta altrimenti mai incontrata. Chissenefrega. Suonano bene. Acquistai per primo – per corrispondenza, a lire 1.900 – “Repercussion”, pure esso forato. Mi piacque alla follia e così quando qualche settimana dopo mi imbattei, su una bancarella, in un esemplare sigillato del predecessore non esitai a tirarlo su. Mille lire, giuro. Passava qualche mese ancora e in un magazzino milanese catturavo a lire 2.900 cadauno “Like This” e “The Sound Of Music”, il primo di stampa statunitense, il secondo UK. Nessuno dei due presenta mutilazioni in copertina. “The Sound Of Music” non era uscito che da qualche mese e già te lo tiravano dietro. È da ventisei anni che sono innamorato dei dB’s e per i loro quattro LP classici (i primi due decisamente più dei secondi due) spesi in tutto 8.700 lire. Mai felicità fu così a buon mercato.
Saga pazzesca quella di questi ragazzi di Winston-Salem, North Carolina, messisi però insieme a New York, storia intricatissima e incredibilmente affollata nei ruoli di contorno di personaggi in varia misura celebri. Da Alex Chilton, di cui Stamey era per qualche tempo il bassista subito prima di fondare i dB’s, all’altra metà autorale dei primi Big Star, Chris Bell, cui Stamey stesso dava la possibilità di pubblicare quel gioiellino di I Am The Cosmos. Da Mitch Easter, con Stamey e Holsapple nei seminali Rittenhouse Square (titolari nel ’72, a malapena maggiorenni, di un 33 giri autoprodotto impossibilmente raro) e poi con Stamey e Rigby negli Sneakers, ai R.E.M., che nella seconda metà di carriera faranno di Holsapple un membro aggiunto fisso e stavano pagando un debito, da quei galantuomini che sono sempre stati. Storia intricatissima, ma se vi interessa non faticherete a recuperarla, quantomeno per sommi capi. L’essenziale, se non ce l’avete, è che prima vi siate messi in casa “Stand For Decibels”. Ma anche “Repercussion”, eh? Che rispetto al predecessore vale qualcosa meno se è la genialità il metro di giudizio e qualcosa di più se è solo in termini di scrittura che si ragiona.
Ogni volta che ci si ritrova a stilare elenchi dei capolavori del power pop (scuola “di culto” quasi per antonomasia, siccome a fronte di sparuti million sellers ne hanno segnato gli annali soprattutto dischi di clamorosa bellezza passati inosservati a dispetto di una fruibilità elevatissima) il primo o il secondo dB’s vengono immancabilmente inclusi. Ha particolarmente senso per il debutto, che nel mentre per un verso risultava perfettamente iscritto nel canone di un genere all’incrocio fra rock’n’roll primigenio e British Invasion, fra un folk più pop che rock e un beat mai fattosi psichedelia, fra un soul dagli occhi azzurri e un punk senz’ombra di nichilismo, per un altro li allargava, come forse nessun altro dei suoi capisaldi, prima o dopo. Se i Byrds ci sono ancora, a tratti paiono trasformarsi nei Feelies (Black And White); se i Beatles restano pietra d’angolo (Bad Reputation, Moving In Your Sleep), dietro quell’angolo scorgi una new wave che non disdegna (The Fight, Cycles Per Second) il funk. E il resto come da manuale sono frenesie e malinconie d’amore in cui perdersi e, perdendosi, ritrovarsi.
Possiedo una copia del disco in questione della Line Music (?), etichetta sconosciuta tedesca, e mi sembra registrato assai male, vale solo per questa stampa oppure è proprio il master così lo-fi?
Nei primi ’80 la Line era un’etichetta molto apprezzata dagli appassionati per il suo avere in catalogo un sacco di titoli anni ’60 e ’70 altrimenti irreperibili. E le stampe, come da gloriosa tradizione tedesca, erano assolutamente impeccabili. Posso testimoniarlo, avendone fatte girare parecchie. Quanto a “Stand For Decibels” la sua produzione rientra negli standard del tempo. Non so che dirti. O hai orecchie esageratamente fini, o a suo tempo hai avuto la sfortuna di metterti in casa una rara copia difettosa.
ciao Eddy, approfitto della recensione di un gruppo pop anni 80 per chiederti se prossimamente hai intenzione di scrivere qualcosa su un altro gruppo anni 80 che io amo molto i FELT
Sempre piaciuti e curiosamente (tolte le recensioni di un paio di singoli) mai affrontati i Felt. Un po’ troppo… ehm… famosi per venire presi in considerazione come Culto, però.
il bello (e l’insondabile) del web è che a questa pagina mi ha rimandato un link presente in quella recente di…Eddie Hinton. Beh, che dire: altra commozione. Per quanto mi riguarda, certamente i primi due sono il power-pop eccentrico per eccellenza di quei primi ’80, ma tenderei a non sottovalutare troppo sia Like This che le delicatessen beatlesiane dello splendido The Sound of Music. Qui Stamey ha già lasciato la compagnia e dunque Holsapple è l’uomo solo al comando, ma che pezzi ci sono, che pezzi…(uno per tutti: A Better Place)