La leg(g)end(a) degli Henry Cow

Henry Cow - Leg End

Terminata l’avventura Henry Cow, e per limitarsi all’essenziale, il tastierista e fiatista Tim Hodgkinson ha suonato post-punk con i Work, hardcore (o per meglio dire artcore) con i God, improv infiltrata di elettronica con i Konk Pack e in proprio musica classica parimenti e preziosamente imbastardita con ogni arnese possibile della modernità, dal synth al laptop. Il chitarrista Fred Frith, dopo avere diviso con il batterista Chris Cutler l’esperienza Art Bears, è stato a lungo uno dei fulcri della New York downtown, collaborando in particolare con John Zorn (anche nei Naked City), con Bill Laswell (nei Massacre), con Tom Cora e Zeena Parkins (negli Skeleton Crew). Ha partecipato a lavori di Brian Eno e dei Residents, ha scritto per il Rova Saxophone Quartet, per il balletto come per il cinema o il teatro e, fra un impegno e l’altro, ha trovato il tempo per pubblicare svariate decine di album da solista. Cutler dal canto suo di dischi da titolare ne ha messi fuori parecchi di meno ma, a contare le partecipazioni, si arriva a sfiorare le cento. Il pubblico del rock ha continuato a seguirlo soprattutto in quanto membro dei Pere Ubu. Pure discografico però, fondatore e motore della ReR, ossia la Recomended Records, il nostro uomo, nonché apprezzato saggista (la serie File Under Popular), laddove Frith da dieci anni insegna composizione al Mills College di Oakland.

Se tanto vari sono stati i progetti che li hanno visti coinvolti dopo quello che sarebbe comunque bastato a inscrivere i loro nomi nel grande libro della musica senza barriere del Novecento, quella mai racchiudibile in toto né nel colto né nel popular, di suo la vicenda Henry Cow era non meno caleidoscopica, benché compressa in un arco temporale assai più breve. Se non si stenta a immaginarseli i ragazzi all’inizio – 1968: ben cinque anni prima di arrivare a pubblicare un LP – della loro vicenda esibirsi di spalla ai Pink Floyd (pensate a cosa erano i Pink Floyd nel ’68), fa decisamente più strano figurarseli, come accadde, prestarsi da turnisti a un’esecuzione dal vivo in uno studio della BBC di “Tubular Bells”. Era il novembre del 1973, il 33 giri che già stava rendendo milionario Mike Oldfield era in circolazione da sei mesi, l’esordio in lungo degli Henry Cow (cui Oldfield aveva dato un piccolo apporto da tecnico del suono) da tre. A parte che uscirono entrambi per la Virgin, arduo immaginarsi due album tanto antipodici nelle filosofie che li sottendono e dai riscontri commerciali più clamorosamente lontani. Eppure: entrambi catalogati alla voce “progressive”. Non so per quante migliaia di dischi ho speso parole in vita mia, ma non ne ricordo molti – perlomeno di belli, di importanti – che diano come “Leg End” ragione all’abusato luogo comune che vuole che scrivere di musica sia come “danzare di architettura”.

Prima cosa indimenticabile di “Leg End”: la copertina, con quel calzino a fare il verso alla mitica banana del debutto dei Velvet Underground. Nel caso l’omaggio a Warhol – quanto ironico? quanto affettuoso? – fosse sfuggito, i successivi “Unrest” (1974) e “In Praise Of Learning” (1975) avrebbero provveduto – e che c’è in arte di più warholiano della serialità? – a replicare. Secondo tratto che permane nel ricordo: il gioco nel titolo fra “Leg End”, “fine della gamba” e dunque piede, e “Legend”. Superimpegnati politicamente, gli Henry Cow, a sinistra della sinistra, ma per fortuna anche sempre pronti a frenare la propensione al dogmatismo con una presa in giro per cominciare a se stessi. Con una risata. A meno che non siate musicisti di quanto scaturisce dai solchi di questo LP stenterete viceversa a fermare nella memoria qualcosa che non sia un’impressione, un colore, un’atmosfera. Disco proverbialmente mercuriale, intreccio di ritmi sinuosi e inconsueti e melodie costantemente impegnate a rincorrersi e mischiarsi, un po’ Frank Zappa e un po’ Canterbury, disco che rimbalza fra avanguardia, jazz e rock come una palla magica che nel momento in cui hai preso nota del punto in cui ha colpito già è da tutt’altra parte. Eppure: in qualche incomprensibile maniera e a parte che non ci si annoia mai, “Leg End” ha una sua godibilità tanto elevata quanto è peculiare. Semplice gioco insomma prima che gioco di specchi. Che chi suona – che sono i tre citati dianzi, presenti negli Henry Cow dal principio alla fine, e in più Geoff Leigh ad assortiti ottoni e John Greaves al basso e al piano – si stia divertendo è palese; che riesca a trasmetterlo quel divertimento – anche nel senso di farlo contagioso – è poco meno che un miracolo in un contesto di tale complessità.

“Leg End” è fresco di ristampa, proprio da parte di ReR, sui canonici 180 grammi di vinile vergine e in una tiratura limitata a mille esemplari. È una riedizione scarna, apprezzabile per il suo riuscire a riprodurre con disinvoltura le infinite sfaccettature di cui si diceva e al contrario bacchettabile per una busta interna non antistatica. A spendere pochi centesimi in più si sarebbe fatto un grande favore all’acquirente, impedendo che qualche superficiale disturbo percepibile al primo ascolto si perpetui nei passaggi successivi. È il medesimo problema che affligge la riedizione (sempre per ReR) di “Hopes And Fears”, il primo LP degli Art Bears di Chris Cutler, Fred Frith e Dagmar Krause. La storia è nota. Negli Henry Cow al lavoro nel 1978 su quello che sarebbe diventato il loro quarto e ultimo 33 giri, “Western Culture”, si crea una fazione contraria alla predominanza nel disco di brani cantati e dalla forma relativamente convenzionale. Il problema è risolto decidendo che le canzoni finiscano su quello che avrebbe dovuto essere l’unico prodotto di una sigla estemporanea (gli Art Bears pubblicheranno invece tre album), mentre gli strumentali verranno tenuti da parte per il gruppo-madre. Il delizioso, ancorché pur’esso non esattamente easy listening, “Hopes And Fears” si fa forte soprattutto della sublime voce operatica della Krause e di una scrittura più (che non vuol dire automaticamente meglio) focalizzata. Nei suoi risvolti, tracce di folk e anticipi di post-rock.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.316, novembre 2010.

2 commenti

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2 risposte a “La leg(g)end(a) degli Henry Cow

  1. demismoretti

    Conosco gli Henry Cow in particolare i loro primi tre storici dischi, non sono mai riuscito a capire quale sia il loro vero capolavoro, sui 1000 dischi c’è questo del tuo articolo, sui 600 di blow up c’è quello con la copertina rossa, per il VM quale è il piu’ bello?

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