Girellando oziosamente per Facebook mentre provo a familiarizzare con la solita massa assurda di nuove uscite, scopro casualmente che proprio ieri Eugenio Finardi compiva gli anni. Mi pare una buona scusa per fargli, per quanto con quelle ventiquattr’ore di ritardo, i miei migliori auguri recuperando una pagina che scrissi per “Audio Review” all’altezza della pubblicazione anche in vinile di “Anima Blues”: splendido album che avrebbe meritato più attenzioni di quelle che ricevette e che tuttavia all’Eugenio ha portato bene. Data più o meno da allora un massiccio e benvenuto revival finardiano che non accenna a esaurirsi. Di “Anima blues” si aspetta però tuttora un seguito, così come si attende una nuova raccolta di canzoni autografe in italiano che da troppo, troppissimo manca.
“Tutti prendono questo mio cantare il blues come un incidente di percorso, un deviare da quello che è il fiume naturale della canzone italiana. In realtà il blues c’è sempre stato”: così Eugenio Finardi lo scorso 7 giugno conversando con il sottoscritto nel lungo percorso in auto dalla sua dimora milanese all’Idroscalo, dove quella sera era in programma un concerto suo ma in un certo senso non suo. Nel senso che il pubblico non avrebbe potuto gustare quasi nessuna (unica in scaletta una Diesel se possibile più mossa e fluida di quella sedimentatasi nella memoria di almeno una generazione di – allora – giovani italiani) delle canzoni per le quali è giustamente celebre. Su tutte Musica ribelle e poi La radio, Extraterrestre, Come un animale, Oggi ho imparato a volare, La C.I.A., Non è nel cuore, Tutto subito, Scimmia, 15 bambini… Per limitarsi a quelle del fecondissimo periodo, dal 1975 al 1979, in cui era accasato alla Cramps ed era un esemplare unico nel pur variegato panorama del pop nostrano: il solo cantautore genuinamente rock’n’roll e insomma uno che ti salvava la vita dai trituramenti di coglioni, antitetici ma ugualmente micidiali, delle canzoni “impegnate” e della pretenziosità progressive. Non che non abbia fatto splendide cose anche dopo, sia chiaro, e anzi chi ha meno di quarant’anni è più facile che lo ricordi per Il vento di Elora o per Favola, La forza dell’amore, Le ragazze di Osaka. Eppure nessun articolo di questo favoloso catalogo sarebbe stato esibito in una notte misericordiosamente fresca e, miracolosamente per il luogo, poco popolata di insetti molesti. Potreste pensare che il pubblico se ne sia tornato a casa deluso e invece no: esaltato. Era arrivato del resto consapevole nella sua stragrande maggioranza che quello cui si apprestava ad assistere non era uno spettacolo del cantautore, che le canzoni dianzi citate le porta ancora in giro ma con un gruppo diverso di accompagnatori (e allora è Finardi & Custodie Cautelari), bensì una serata di blues, per buona parte autografi con qualche gradita quanto personale cover. Ciò che non poteva aspettarsi magari, né in tutta sincerità me lo attendevo io pur avendo apprezzato moltissimo l’album del 2005, “Anima Blues”, che ne ha costituito l’ossatura, è che la serata si trasformasse in un’esperienza a tratti ai limiti del trascendentale. Sarà che pure in questo caso il repertorio, sebbene logicamente più smilzo, è solido. Sarà che gli strumentisti che spalleggiano il Nostro sono di una bravura mostruosa e non saprei chi scegliere fra il giovane chitarrista Massimo Martellotta e i due veterani Pippo Guarnera, monumentale dietro l’Hammond più scalcagnato e meglio suonante ch’io abbia visto in vita mia, e Vince Vallicelli, un turbine assiso dietro piatti e tamburi. Sarà che è intervenuto anche un ospite di vaglia, l’armonicista afroamericano Sugar Blue (per referenze chiedere a Mick Jagger e Keith Richards), e ha eloquentemente chiarito le ragioni della sua fama. Ma sarà soprattutto che di rado in quasi trent’anni che vado a concerti mi è capitato di vedere dei musicisti divertirsi così tanto su un palco, stare così bene insieme, metterci così tanta… anima.
Ora: uno potrebbe comunque chiedersi quale sia il senso per un italiano di suonare il blues. Uno che Finardi negli ultimi anni l’ha seguito ma distrattamente, da distante, potrebbe pure pensare, dopo averlo visto alle prese nel nuovo millennio con il fado e addirittura con uno spettacolo di “musiche sacre”, che un po’ abbia perso la bussola. Dimenticherebbe però costui che Eugenio è un italiano a metà, nel senso che è di madre statunitense e perfettamente bilingue, che nei suoi dischi ha più volte infilato brani in inglese (e tutto in inglese era il 45 giri con il quale esordiva discograficamente nel lontano 1973 per la Numero Uno di Mogol e Battisti) e che proprio nel blues, scoperto per tramite dei Rolling Stones, affondano le sue radici più profonde. Dimenticherebbe che in tralice, e non, di musica nera nelle sue cose ce n’è sempre stata a iosa. Se si vuole metterne in discussione la credibilità, allora tanto vale cancellare qualunque bianco si sia mai misurato con le dodici battute da Alexis Korner in poi. Ma basta fargli da avvocato. Metteteci le mani su “Anima Blues”, uno degli album più misconosciuti degli ultimi anni, e vedrete che, esattamente come me, ne resterete folgorati. Subito, a partire da una Mama Left Me funkissima cui va dietro una Heart Of The Country di impianto e intensità spiritual. E poi via, un piccolo capolavoro dopo l’altro: da una Holyland esplosivamente gospel a una Mojo Philtre che rasenta l’hard, dalla ballata squisitamente latina Estrellita a un’invero dolcissima Sweet Surrender, passando per l’unico standard in programma nel CD, una Spoonful con un organo da urlo. Magari metteteci le mani, se vi riesce, nell’edizione in vinile: assai curata, copertina apribile e due pezzi in più, una Barnyard Mama diversa e quel che più conta un altro classico rivisitato, Little Red Rooster. E se Anima Blues la band passerà dalle vostre parti siate saggi, non perdetevela. Scommettiamo che mi ringrazierete?
Adesso da Eugenio Finardi mi aspetto un altro disco e il disco che mi aspetto è il successore di “Anima Blues”. Anche se devo dire, avendone enormemente rivalutato degli anni ’80 e ’90 che viceversa sottovalutavo, che mi dispiacerebbe se non tornasse più, naturalmente trasfondendovi questa nuova e antica esperienza, a misurarsi con una canzone italiana e in italiano di cui è stato uno dei più incompresi (pure quando lo acclamavano) campioni.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.272, ottobre 2006.