Archivi del mese: luglio 2013

L’anima blues di Eugenio Finardi

Girellando oziosamente per Facebook mentre provo a familiarizzare con la solita massa assurda di nuove uscite, scopro casualmente che proprio ieri Eugenio Finardi compiva gli anni. Mi pare una buona scusa per fargli, per quanto con quelle ventiquattr’ore di ritardo, i miei migliori auguri recuperando una pagina che scrissi per “Audio Review” all’altezza della pubblicazione anche in vinile di “Anima Blues”: splendido album che avrebbe meritato più attenzioni di quelle che ricevette e che tuttavia all’Eugenio ha portato bene. Data più o meno da allora un massiccio e benvenuto revival finardiano che non accenna a esaurirsi. Di “Anima blues” si aspetta però tuttora un seguito, così come si attende una nuova raccolta di canzoni autografe in italiano che da troppo, troppissimo manca.

Eugenio Finardi - Anima blues

Tutti prendono questo mio cantare il blues come un incidente di percorso, un deviare da quello che è il fiume naturale della canzone italiana. In realtà il blues c’è sempre stato”: così Eugenio Finardi lo scorso 7 giugno conversando con il sottoscritto nel lungo percorso in auto dalla sua dimora milanese all’Idroscalo, dove quella sera era in programma un concerto suo ma in un certo senso non suo. Nel senso che il pubblico non avrebbe potuto gustare quasi nessuna (unica in scaletta una Diesel se possibile più mossa e fluida di quella sedimentatasi nella memoria di almeno una generazione di – allora – giovani italiani) delle canzoni per le quali è giustamente celebre. Su tutte Musica ribelle e poi La radio, Extraterrestre, Come un animale, Oggi ho imparato a volare, La C.I.A., Non è nel cuore, Tutto subito, Scimmia, 15 bambini… Per limitarsi a quelle del fecondissimo periodo, dal 1975 al 1979, in cui era accasato alla Cramps ed era un esemplare unico nel pur variegato panorama del pop nostrano: il solo cantautore genuinamente rock’n’roll e insomma uno che ti salvava la vita dai trituramenti di coglioni, antitetici ma ugualmente micidiali, delle canzoni “impegnate” e della pretenziosità progressive. Non che non abbia fatto splendide cose anche dopo, sia chiaro, e anzi chi ha meno di quarant’anni è più facile che lo ricordi per Il vento di Elora o per Favola, La forza dell’amore, Le ragazze di Osaka. Eppure nessun articolo di questo favoloso catalogo sarebbe stato esibito in una notte misericordiosamente fresca e, miracolosamente per il luogo, poco popolata di insetti molesti. Potreste pensare che il pubblico se ne sia tornato a casa deluso e invece no: esaltato. Era arrivato del resto consapevole nella sua stragrande maggioranza che quello cui si apprestava ad assistere non era uno spettacolo del cantautore, che le canzoni dianzi citate le porta ancora in giro ma con un gruppo diverso di accompagnatori (e allora è Finardi & Custodie Cautelari), bensì una serata di blues, per buona parte autografi con qualche gradita quanto personale cover. Ciò che non poteva aspettarsi magari, né in tutta sincerità me lo attendevo io pur avendo apprezzato moltissimo l’album del 2005, “Anima Blues”, che ne ha costituito l’ossatura, è che la serata si trasformasse in un’esperienza a tratti ai limiti del trascendentale. Sarà che pure in questo caso il repertorio, sebbene logicamente più smilzo, è solido. Sarà che gli strumentisti che spalleggiano il Nostro sono di una bravura mostruosa e non saprei chi scegliere fra il giovane chitarrista Massimo Martellotta e i due veterani Pippo Guarnera, monumentale dietro l’Hammond più scalcagnato e meglio suonante ch’io abbia visto in vita mia, e Vince Vallicelli, un turbine assiso dietro piatti e tamburi. Sarà che è intervenuto anche un ospite di vaglia, l’armonicista afroamericano Sugar Blue (per referenze chiedere a Mick Jagger e Keith Richards), e ha eloquentemente chiarito le ragioni della sua fama. Ma sarà soprattutto che di rado in quasi trent’anni che vado a concerti mi è capitato di vedere dei musicisti divertirsi così tanto su un palco, stare così bene insieme, metterci così tanta… anima.

Ora: uno potrebbe comunque chiedersi quale sia il senso per un italiano di suonare il blues. Uno che Finardi negli ultimi anni l’ha seguito ma distrattamente, da distante, potrebbe pure pensare, dopo averlo visto alle prese nel nuovo millennio con il fado e addirittura con uno spettacolo di “musiche sacre”, che un po’ abbia perso la bussola. Dimenticherebbe però costui che Eugenio è un italiano a metà, nel senso che è di madre statunitense e perfettamente bilingue, che nei suoi dischi ha più volte infilato brani in inglese (e tutto in inglese era il 45 giri con il quale esordiva discograficamente nel lontano 1973 per la Numero Uno di Mogol e Battisti) e che proprio nel blues, scoperto per tramite dei Rolling Stones, affondano le sue radici più profonde. Dimenticherebbe che in tralice, e non, di musica nera nelle sue cose ce n’è sempre stata a iosa. Se si vuole metterne in discussione la credibilità, allora tanto vale cancellare qualunque bianco si sia mai misurato con le dodici battute da Alexis Korner in poi. Ma basta fargli da avvocato. Metteteci le mani su “Anima Blues”, uno degli album più misconosciuti degli ultimi anni, e vedrete che, esattamente come me, ne resterete folgorati. Subito, a partire da una Mama Left Me funkissima cui va dietro una Heart Of The Country di impianto e intensità spiritual. E poi via, un piccolo capolavoro dopo l’altro: da una Holyland esplosivamente gospel a una Mojo Philtre che rasenta l’hard, dalla ballata squisitamente latina Estrellita a un’invero dolcissima Sweet Surrender, passando per l’unico standard in programma nel CD, una Spoonful con un organo da urlo. Magari metteteci le mani, se vi riesce, nell’edizione in vinile: assai curata, copertina apribile e due pezzi in più, una Barnyard Mama diversa e quel che più conta un altro classico rivisitato, Little Red Rooster. E se Anima Blues la band passerà dalle vostre parti siate saggi, non perdetevela. Scommettiamo che mi ringrazierete?

Adesso da Eugenio Finardi mi aspetto un altro disco e il disco che mi aspetto è il successore di “Anima Blues”. Anche se devo dire, avendone enormemente rivalutato degli anni ’80 e ’90 che viceversa sottovalutavo, che mi dispiacerebbe se non tornasse più, naturalmente trasfondendovi questa nuova e antica esperienza, a misurarsi con una canzone italiana e in italiano di cui è stato uno dei più incompresi (pure quando lo acclamavano) campioni.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.272, ottobre 2006.

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Audio Review n.345

Audio Review 345

Sarà in edicola da domani il numero 345 di “Audio Review”. Include mie recensioni degli ultimi album di Arborea, Barenaked Ladies, Ben Folds Five, Boards Of Canada, Camera Obscura, Jason Isbell, Lapalux, Scott Matthew, Sigur Rós, These New Puritans, John Vanderslice, Waxahatchee e Kanye West e di una recente ristampa di Bobby Whitlock.  Nella rubrica del vinile mi sono occupato di Tim Buckley e Cassandra Wilson.

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Can White Men Live The Blues? La ballata tragica dei Canned Heat

Canned Heat - Boogie With

Quarantasette: tanti i componenti transitati per le fila di un gruppo appena entrato nel quarantasettesimo anno di vita, che è vero che è dal 2007 che non pubblica più dischi ma in fondo non ha necessità di farlo. A garantirgli quanti concerti desidera provvedono il prestigio del brand e un repertorio vastissimo con al centro due brani che chiunque conosce (sebbene non necessariamente dagli artefici). E potrà parere discutibile che la sigla continui a vivere portata in giro principalmente da due membri che in senso stretto non possono essere definiti “originali”, ma i Canned Heat ebbero sin da subito una storia talmente complicata che non ha molto senso appiccicare l’etichetta suddetta a gente il cui passaggio nei ranghi fu fulmineo. Né mettersi a disquisire se bisogna considerare come prima formazione legittimata a dirsi fondatrice quella che nel 1966 registrò un album prodotto da Johnny Otis e rimasto inedito fino al ’70 o piuttosto quella che, l’anno dopo, pubblicò infine su Liberty l’omonimo esordio a 33 giri. Per tutti i fans “i” Canned Heat sono i cinque che fra ottobre e novembre sempre del 1967 mettevano mano al secondo ed epocale album, “Boogie With”, che raggiungeva i negozi, sempre griffato Liberty, nel gennaio ’68: Bob “The Bear” Hite alla voce, Alan “Blind Owl” Wilson all’armonica e alla slide, Henry “Sunflower” Vestine alla chitarra solista, Larry “The Mole” Taylor al basso, l’ultimo arrivato Adolfo “Fito” de la Parra alla batteria. Blind Owl sarà il primo ad andarsene, il 3 settembre 1970, ventisettenne, e a oggi non si sa se l’overdose di pasticche che lo stroncava fu accidentale o un suicidio (più plausibile la seconda, considerando la depressione che notoriamente lo affliggeva pure all’apice delle sue fortune di rockstar e due precedenti tentativi di togliersi la vita). The Bear lo seguirà il 5 ottobre 1981, trentottenne, ed era un infarto (comunque probabilmente propiziato da certe cattive abitudini) a portarselo via. Era un collasso cardiopolmonare a uccidere il 20 ottobre 1997 Sunflower, a poche settimane dal cinquantatreesimo compleanno. E dunque qualcuno può dire qualcosa ai due attempati ragazzi della sezione ritmica se sono loro oggi a gestire la gloriosa ragione sociale? Nessuno può vantare su di essa più diritti e in ogni caso la squadra attuale schiera anche un terzo componente, vale a dire il chitarrista Harvey “The Snake” Mandel, che frequenta la compagnia non da ieri: dal festival di Woodstock, addirittura, cui partecipava in sostituzione di Vestine e che marcava per i Canned Heat l’apice di una popolarità non solo nordamericana. La loro Going Up The Country, che nel film che immortala la tre giorni primigenia di pace, amore e musica svolge funzione di tema conduttore, pochi mesi prima era stata undicesima nella graduatoria USA dei singoli e numero uno in venticinque-dicasi-venticinque altri paesi. Tratta dal terzo lavoro dei Nostri, il monumentale in tutti i sensi “Living The Blues”.

Ecco… pochi bianchi hanno vissuto il blues con la passione, con l’intensità brucianti di Alan Wilson e Bob Hite, musicologi prima che musicisti, accaniti collezionisti (in una celebre apparizione televisiva del novembre 1969 il secondo dichiarava di possedere oltre quindicimila 78 giri), che a un certo punto si mettevano loro a fare dischi più per propagandare l’opera di spesso dimenticati eroi che per cercare gloria per sé. Tant’è che il debutto “Canned Heat” era composto esclusivamente da cover: di Muddy Waters e Willie Dixon, Robert Johnson via Elmore James e Guitar Slim, Sonny Boy Williamson II e Floyd Jones, Tommy Johnson, William Harris e Robert Petway. Ma si fossero fermati a quello i Canned Heat non sarebbero stati il grandissimo gruppo che furono per tre anni e almeno altrettanti album e insomma fino alla prematura dipartita di colui che un gigante di norma avaro di complimenti quale John Lee Hooker definì “un bravo chitarrista ma soprattutto il migliore armonicista ch’io abbia mai sentito”. Non chicagoani, come si sarebbe potuto scommettere ascoltando il primo LP, bensì californiani, i Canned Heat non potevano non restare influenzati da quanto andava accadendo loro intorno, in primis dalla fitta rete di contatti con la scena psichedelica e i suoi immediati dintorni (Vestine arrivava dalle Mothers Of Invention, Stuart Brotman era uno di loro prima di entrare nei Kaleidoscope, idem Mark Andes prima di finire negli Spirit). Già in “Boogie With” il modo di approcciare le dodici battute risultava sì rispettoso della tradizione ma nel contempo ardito, progressivo. Se sotto My Crime potrebbe esserci scritto “Muddy Waters” ed era invece la prima composizione originale ad apparire in un disco dei Nostri, la Evil Woman (da Larry Weiss) che la precede ha mordente hard, così come World In A Jug o una squillante e affilata, autobiografica oltre che autografa, Amphetamine Annie. Se An Owl Song si guarda indietro corteggiando il vaudeville, lampi aciduli screziano una caracollante Turpentine Moan, una Whiskey Headed Woman No.2 dal borbogliante al fragoroso e la lunga (oltre undici minuti) e apposta a suggello Fried Hockey Boogie. Ma è questo innanzitutto l’album di On The Road Again e devo forse raccontarvela? Era la canzone che spalancava al blues le porte del mercato del pop e per una volta il Diavolo oltre alla pentola faceva il coperchio.

“Boogie With” è da poco disponibile in una “limited edition” marchiata Pure Pleasure e distributa in Italia, come il resto del catalogo della casa britannica, dalla toscana Sound & Music. È un’ottima stampa, dal vinile così silenzioso da farsi immateriale e dalle sonorità limpide e terrigne insieme, di un’asciuttezza che non degenera in aridità.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.321, aprile 2011.

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Velvet Gallery (34)

Trent’anni – qualcuno di meno in realtà, giacché si parte dai Remains, e quindi dal 1964, e l’articolo è del ’91 – di rock a Boston compressi in due paginette. Toccava prodursi in simili esercizi di economia quando le riviste di musica non contavano che 64 pagine. Con (fra gli altri)  Buffalo Tom, Cars, Del Fuegos, Galaxie 500, Lemonheads, Modern Lovers, Pixies, Throwing Muses, Ultimate Spinach…

Trent'anni di rock a Boston 1

Trent'anni di rock a Boston 2

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Presi per il culto (35): The dB’s – Stand For Decibels (Albion, 1981)

The dB´s - Stands For Decibels

La copertina della mia copia del primo dB’s è forata: un buco di un centimetro di diametro posizionato a circa tre dal bordo alto e quattro da quello di destra, segnale inequivocabile del fatto che lo acquistai dopo che era finito fra i fuori catalogo. Credo che tutti gli altri tagliati che ho in casa (molte decine e fra essi alcuni dei dischi più belli ch’io abbia mai comprato, diversi Townes Van Zandt per non fare che un nome) siano americani, qualcuno forse canadese. “Stand For Decibels” no. Non potrebbe proprio essere “made in the U.S.A.”, giacché l’album che svelava a un mondo indifferente anziché no lo smisurato talento di Chris Stamey, Peter Holsapple, Gene Holder e Will Rigby negli Stati Uniti non verrà pubblicato che nell’89, direttamente in CD. Non esiste una stampa americana in vinile del primo dB’s. Come i collezionisti ben sanno, le edizioni originali dei primi due sono britanniche, su Albion. Le mie copie sono italiane, su Panarecord, etichetta altrimenti mai incontrata. Chissenefrega. Suonano bene. Acquistai per primo – per corrispondenza, a lire 1.900 – “Repercussion”, pure esso forato. Mi piacque alla follia e così quando qualche settimana dopo mi imbattei, su una bancarella, in un esemplare sigillato del predecessore non esitai a tirarlo su. Mille lire, giuro. Passava qualche mese ancora e in un magazzino milanese catturavo a lire 2.900 cadauno “Like This” e “The Sound Of Music”, il primo di stampa statunitense, il secondo UK. Nessuno dei due presenta mutilazioni in copertina. “The Sound Of Music” non era uscito che da qualche mese e già te lo tiravano dietro. È da ventisei anni che sono innamorato dei dB’s e per i loro quattro LP classici (i primi due decisamente più dei secondi due) spesi in tutto 8.700 lire. Mai felicità fu così a buon mercato.

Saga pazzesca quella di questi ragazzi di Winston-Salem, North Carolina, messisi però insieme a New York, storia intricatissima e incredibilmente affollata nei ruoli di contorno di personaggi in varia misura celebri. Da Alex Chilton, di cui Stamey era per qualche tempo il bassista subito prima di fondare i dB’s, all’altra metà autorale dei primi Big Star, Chris Bell, cui Stamey stesso dava la possibilità di pubblicare quel gioiellino di I Am The Cosmos. Da Mitch Easter, con Stamey e Holsapple nei seminali Rittenhouse Square (titolari nel ’72, a malapena maggiorenni, di un 33 giri autoprodotto impossibilmente raro) e poi con Stamey e Rigby negli Sneakers, ai R.E.M., che nella seconda metà di carriera faranno di Holsapple un membro aggiunto fisso e stavano pagando un debito, da quei galantuomini che sono sempre stati. Storia intricatissima, ma se vi interessa non faticherete a recuperarla, quantomeno per sommi capi. L’essenziale, se non ce l’avete, è che prima vi siate messi in casa “Stand For Decibels”. Ma anche “Repercussion”, eh? Che rispetto al predecessore vale qualcosa meno se è la genialità il metro di giudizio e qualcosa di più se è solo in termini di scrittura che si ragiona.

Ogni volta che ci si ritrova a stilare elenchi dei capolavori del power pop (scuola “di culto” quasi per antonomasia, siccome a fronte di sparuti million sellers ne hanno segnato gli annali soprattutto dischi di clamorosa bellezza passati inosservati a dispetto di una fruibilità elevatissima) il primo o il secondo dB’s vengono immancabilmente inclusi. Ha particolarmente senso per il debutto, che nel mentre per un verso risultava perfettamente iscritto nel canone di un genere all’incrocio fra rock’n’roll primigenio e British Invasion, fra un folk più pop che rock e un beat mai fattosi psichedelia, fra un soul dagli occhi azzurri e un punk senz’ombra di nichilismo, per un altro li allargava, come forse nessun altro dei suoi capisaldi, prima o dopo. Se i Byrds ci sono ancora, a tratti paiono trasformarsi nei Feelies (Black And White); se i Beatles restano pietra d’angolo (Bad Reputation, Moving In Your Sleep), dietro quell’angolo scorgi una new wave che non disdegna (The Fight, Cycles Per Second) il funk. E il resto come da manuale sono frenesie e malinconie d’amore in cui perdersi e, perdendosi, ritrovarsi.

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Chicano power: il rock meticcio dei primi Santana

Di commesse indimenticabili, acquisti sbagliati, equivoci, amori senili, poliritmie, omicidi, “Festival” e festival.

Santana - Santana

Il primo incontro fu sfortunato oltre che pessimo, il peggiore possibile fra quelli che si potevano fare all’epoca con questo signore. Ragazzetto di fresco sconvolto dalla scoperta del rock e naturalmente ancora ignorante come una capra al riguardo – le sole fonti di informazione un paio di radio locali e “Ciao 2001”, la cui uscita settimanale attendevo con una trepidazione paragonabile solo a quella per un derby – non riuscivo a credere ai miei occhi e alla mia buona sorte quando mi ritrovavo fra le mani, a una cifra abbordabile persino per le mie tasche sempre vuote, una copia di “Festival”. Accadeva nel negozio a due passi dal mio liceo e finalmente potevo passare alla cassa giustificando una presenza costante fra quei banconi,  dovuta non soltanto al loro scoppiare di sconosciute meraviglie ma a due meraviglie di commesse (ovviamente: una bionda e una bruna) che tre decenni dopo ancora mi sogno. Tiravo fuori cinquemila lire e ne ricavavo in cambio “Festival” di/dei Santana (lire tremila), “24 Carat Purple” dei Deep Purple (lire duemila; ce l’ho ancora) e un sorriso da svenimento sul posto della commessa bionda. Mi consolerò pensando di averli spesi in parte, i miei soldi, giusto per quel sorriso. E d’accordo che eccettuate la languido/epica Samba Pa Ti e la fotocopia Europa, a dir poco imperversante, di/dei Santana non conoscevo nulla, ma che un LP di recentissima uscita fosse venduto al prezzo di un economico avrebbe dovuto far squillare qualche allarme. Provai a farmelo piacere “Festival”, impresa disperata con il risultato di imprimermelo nella memoria come il sorriso di cui sopra. Non lo riascolto da secoli, né mai vorrò riascoltarlo, e nondimeno lo affermo senza tema di smentite: quel disco fa cagare. Quel disco è uno dei più offensivi sprechi di plastica che la storia ricordi. Quel disco è uno dei più insulsi e vani vagare in cerca di una minima scintilla di ispirazione, che non scocca mai ma proprio mai, negli annali della musica registrata. È stato a causa di quel disco che per tre o quattro lustri ho attentamente evitato e pubblicamente schifato il baffuto chitarrista di Guadalajara, rifuggendo altresì da qualunque altro miscuglio latin-rock. Siccome non è bello avere pregiudizi e se fai il mestiere che faccio io è pure formidabilmente stupido e deleterio, a un certo punto però ho recuperato. Me lo sono studiato per benino Santana, scoprendo che “Festival” resta la sua prova più infelice anche nel contesto di una produzione che pure ha abbondato da allora in nefandezze e già in precedenza era incorsa in qualche scivolone. A essere onesto, non è che sia diventato un fan. A essere onesti bisognerebbe dirselo che, per quanti fantastilioni di copie abbia venduto e di dollari guadagnato, a radunare tutte le cose davvero degne di nota del Nostro dal jazzato e non disprezzabile “Caravanserai”, che è del ’72, in poi un CD basta e avanza. Si potrebbe aggiungerne uno live ed essere contenti così. Altra cosa i primi tre LP. Più di “3”, del ’71, “Abraxas” del ’70. E più di “Abraxas” l’omonimo debutto messo assieme e pubblicato in un 1969 indimenticabile, nel bene e nel male. Qualche lettore si inquieterà, ma è l’unico album con su scritto “Santana” per il quale mi sento di spendere una parola impegnativa: capolavoro.

Grazie ai buoni uffici del distributore Sound And Music, da qualche settimana posso farne girare una stampa Original Master Recording che, fosse stata riversata uno zero virgola qualcosa più alta, meriterebbe pur’essa la qualifica di cui sopra. Nondimeno, se avete orecchie in grado di intendere e volere vi basterà l’attacco di sincopi tribali e organo negro-ispanico-psichedelico, indeciso fra chiesa e balera, di Waiting per porre mano al portafoglio: per presenza scenica e impatto, seducente senza essere volgare, non c’è gara con il pure ben suonante (rispetto alle piatte edizioni precedenti, ma anche in assoluto) compact Columbia/Legacy del ’98. Se quello possedevate, se non lo rivenderete sarà per via delle tre bonus dal vivo, ma difficilmente lo ascolterete ancora.

A riassumerlo in poche righe fa girare la testa il 1969 dei Santana e tanto per cominciare perché era allora, a latere di registrazioni partite in gennaio in trasferta (Los Angeles, non San Francisco) e subito ferme a causa di un non trascurabile inconveniente (il percussionista Marcus Malone arrestato in flagranza di omicidio), che i Santana diventavano gruppo vero, non più il leader Carlos e una raccogliticcia compagnia. Si faceva paritario il sodalizio a quel punto già triennale con il tastierista Gregg Rolie. Prendeva forma, con l’arrivo del batterista Mike Shrieve e dei percussionisti Mike Carrabello e José Chepito Areas, la ritmica più poliritmica che si ricordi fuor dal binomio Fela Kuti/Tony Allen. Unione di blues, soul e psichedelia, con già un tocco di jazz, tanta Africa e radici saldamente affondate nel pop e nel folk chicani, e alchimia delicatissima proprio per l’abbondanza di componenti, il progetto Santana artisticamente reggerà, prima di degenerare in rock contemporaneamente da stadio e da night, fintanto che egocentrismi e vizietti da star non provocheranno una fuoriuscita via l’altra. Santana saranno grandi fin quando il timone sarà tenuto assieme da Carlos e Rolie, il cui organo dal groove grasso e dinamico è il mattatore principe – più della chitarra elettrica – nel memorabilissimo esordio. Che volava al numero quattro nelle classifiche USA, ove lo sculettante funk Evil Ways nella graduatoria dei singoli si arrestava al nove. Tutto questo dopo che il gruppo in agosto aveva trionfato a Woodstock con l’apoteosi percussiva di Soul Sacrifice. Astutamente, Santana e soci accettavano di comparire nel film-documentario sul festival, per pochi dollari ma garantendosi uno dei migliori spot pubblicitari di sempre. Ancora più astutamente, rifiuteranno invece di figurare nella pellicola girata da lì a qualche mese ad Altamont.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.290, maggio 2008.

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Mademoiselle Mabry, in arte Betty Davis

Se non a grande  a gentile richiesta recupero un breve articolo che scrissi su Betty Davis quando di costei era appena uscita una raccolta che riportava nei negozi parte del catalogo. Oggi la smilza quanto formidabile discografia della signora è di nuovo interamente disponibile. Che il funk sia con voi.

Betty Davis

Album meraviglioso in toto “Filles de Kilimanjaro”, a leggere i sacri testi della materia quello con cui nel 1968 Miles Davis diede l’addio al jazz, alle viste la discussa svolta elettrica e un suono tutto nuovo iniettato di rock e di funk. Non andò proprio così e, ad ascoltare con attenzione, “Bitches Brew” in tralice si scorge più nel disco in questione che nel successivo “In A Silent Way”. Dettaglio in ogni caso ininfluente qui, conta che per il corposo programma apice e suggello coincidano, 16’32” sospinti verso rarefatti empirei da levitazioni di piano elettrico e vampe di basso in spirali di blues disincarnato ed elissi d’Africa. La tromba un dardo che saetta improvviso e spacca il cuore. Fin dove bisogna risalire per scovare una donna omaggiata da un uomo con tanto sentimento? A Petrarca? Questo capolavoro si chiama Mademoiselle Mabry e Mabry era il cognome da nubile di Betty “non sono una signora” Davis. La donna che più di qualunque altra fece perdere la testa al divino trombettista. La donna che si fece tatuare sul culo “this ass invented fusion” e non millantava. La donna che, parola dello stesso Miles, fosse apparsa alla ribalta dieci anni dopo avrebbe messo fuori gioco Madonna e Prince, perché lei era Madonna e Prince insieme. Solo che il 1973 non era pronto per Betty Davis, per una sessualità tanto esplicita (alla faccia dei “liberati” anni ’70) (Tina Turner una suora al confronto), per un funk di una fissità oltre la disco e una ferocia oltre l’hard più muscolare e tagliente. Betty Davis inventò la fusion, o per meglio dire il crossover visto che il termine “fusion” ha finito per designare altro, non solo mettendo in contatto Miles Davis e Jimi Hendrix, forse rivali in amore sebbene lei abbia sempre negato e per certo uno ammiratore dell’altro, ma pure in prima persona. Parlano chiaro in tal senso i tre album che pubblicò in altrettanti anni, i primi due su Just Sunshine – l’omonimo debutto e “They Say I’m Different” – e l’ultimo – “Nasty Gal” – su Island. O in questo istante, non essendo nessuno dei tre disponibile in CD, la generosa raccolta, fresca di stampa per Vampisoul, “This Is It!”: non ascolterete nulla di più eccitante quest’anno o in questo secolo.

Avrete notato: un lustro fra “Filles de Kilimanjaro” e “Betty Davis”. Fra questo e quello un tumultuoso divorzio e due LP fantasma, il primo per colpa dello stesso Davis, che temeva che il successo gliel’avrebbe fatta perdere (e la perse egualmente per la sua ringhiosa possessività), il secondo (registrato con quelli che sarebbero stati i Commodores) perché la Motown pretendeva la proprietà delle edizioni musicali per pubblicarlo e ricevette quel che si meritava: un vaffanculo. Non sono ovviamente le stesse incisioni, ma dovrebbero essere le medesime canzoni le otto che si incontrano in “Betty Davis”, sei delle quali riprese in “This Is It!”: una più spettacolare dell’altra, da una If I’m In Luck I Might Get Picked Up il cui deflagrare è innescato da un organo sfrigolante a una sculettante Anti Love Song che sul serio inventa Prince, a una Ooh Yea data dall’elevazione al cubo dell’addizione James Brown + George Clinton. E la voce: che voce! Un grugnito, un rigurgito, un graffio, Millie Jackson che si fa Diamanda Galas, credeteci o no. E il gruppo: che gruppo! Transfughi da Sly & The Family Stone e Santana e le Pointer Sisters ai cori. “They Say I’m Different” replicherà con fra il resto la Shoo-B-Doop And Cop Him che Ice Cube campionerà estesamente, l’iperacida e minimalissima Don’t Call Her No Tramp e una Git In There da fare a pezzi i Red Hot Chili Peppers.

Lasciata New York, intreccio di ricordi dolorosi dopo le morti di Hendrix e dell’amica Devon Wilson (colei che le aveva presentato il chitarrista), per San Francisco, da lì la Davis puntava Londra. Vi troverà sponsor appassionati in Marc Bolan, in Robert Palmer (un po’ più di un amico), nella redazione di “Sounds” e sarà la sua unica volta in copertina. Su sollecitazione di Palmer trovava anche un nuovo contratto discografico e con la Island, nientemeno, ma “Nasty Gal” non andrà da nessuna parte, a dispetto di una traccia omonima impossibilmente ammiccante, dell’inaudito romanticismo di You And I e della ruggente This Is It, che tre tondi decenni dopo battezzerà l’antologia che sapete.

La corsa di Betty Davis finiva lì, complice la scomparsa del padre che la sprofondava in abissi di depressione dai quali impiegherà anni a riemergere. Oggi è una bella sessantenne senza rimpianti, che guarda a quella sua versione giovane e sfacciata con distaccata benevolenza e spia le eredi soggiogare il mondo con i trucchi che inventò. I nomi dovreste conoscerli: Missy Elliott, Kelis, Macy Gray.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.609, aprile 2005.

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Eleanor Friedberger – Personal Record (Merge)

Eleanor Friedberger - Personal Record

Eppure lo chiarisce subito il titolo, che diamine: “Personal Record”. Laddove, spiega l’artefice  stessa, il “personale” va inteso non come rappresentazione del privato bensì riferendolo al rapporto con la musica di colei che da sempre è metà dei Fiery Furnaces e chissà se ancora lo è. Siccome l’ultimo lavoro insieme di ragazzo e ragazza è faccenda del 2009, il concerto dopo il quale annunciavano un indefinito periodo sabbatico del 2011, a quello stesso anno risale il debutto in proprio di Eleanor e sempre dal 2011 il fratello Matthew ha pubblicato l’impossibile, mantenendo insieme un profilo altissimo (una marea di uscite, per l’appunto) e bassissimo (solo vinile e piccole tirature). Personale. Perché attendersi allora dalla minore dei Friedberger che ogni suo disco sia un’aggiunta al multiforme quanto chiarissimamente identificabile canone del gruppo madre? Quando tutto sembrerebbe indicare che, nel caso il sodalizio non dovesse riannodarsi, sarà semmai Matthew a raccoglierne l’eredità. Se l’esordio della sorella, “Last Summer”, si poneva in qualche modo in continuità rispetto a “I’m Going Away” era soltanto perché quello si rivelava l’articolo nettamente più fruibile del catalogo Fiery Furnaces. Più pop-rock che post-rock o prog-rock, attento alla forma-canzone come non mai e con dentro tre, quattro, cinque brani di clamorosa incisività. Ecco, al massimo di quei Fiery Furnaces Eleanor Friedberger può essere ritenuta una propaggine. Giri al largo da “Personal Record” chi considerò quell’album un deplorevole scendere a patti con il mondo. Giri al largo. Si perderà uno dei più bei dischi del 2013, ma tanto non l’avrebbe apprezzato comunque.

C’è una gran voglia di anni ’70 e ’80 in giro (di ’60 e di ’90: di qualunque decennio non sia questo, contraddittoriamente amorfo e tentacolare), ma probabilmente negli Stati Uniti se ne accorgeranno meno, giacché a scorrere le playlist di tante radio è come si fosse fermi a un ideale 1984 in cui si suonavano in prevalenza pezzi del ’76 o poco su di lì. In quell’epoca la ragazza (che per inciso giusto nel ’76 nasceva) si sarebbe trovata a meraviglia. Da quell’epoca sarebbe stata abbracciata. Oggi una buona mezza dozzina della dozzina di canzoni che sfilano qui si troverebbe allora iscritta alla categoria dei sempreverdi. Che razza di paradosso che sia anche la presenza sempiterna e incombente di quei sempreverdi a impedire che brani del tutto analoghi si conquistino la visibilità che meriterebbero. Tom Petty avrebbe potuto cominciare a costruire l’edificio della sua fama pure partendo da pezzi come la janglesca When I Knew e il rock’n’roll Stare At The Sun, Carole King avrebbe aggiunto titoli al lungo elenco di classici e milioni di dollari al pingue conto in banca con la bossanova Echo Or Encore e una Other Boys fra blues a valzer, i Fleetwood Mac avrebbero felicemente prolungato la stagione rumourosamente aurea con My Own World, Hall & Oates si sarebbero confermati i bianchi più negri con il funk elegante e squillante I Don’t Want To Bother You e una She’s A Mirror – diciamolo – sfacciata: innegabile la sua prossimità a Maneater.

Mi correggo: non uno dei più bei dischi del 2013. Il disco di quest’anno da avere se le parole “pop” e “canzone” per voi significano qualcosa.

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µ-Ziq Is Love – Il proteiforme Mike Paradinas

E chi se lo aspettava più? Dopo lunga latitanza (quando i suoi anni ’90 furono da autentico stakanovista) si riaffaccia alla ribalta – e oltretutto usando l’alias dalla produzione senz’altro più significativa: µ-Ziq – Mike Paradinas. Per chi a certa elettronica arrivava partendo dal rock, una delle sigle più stimolanti di un periodo fecondo che invece difficilmente tornerà. Il nuovo album, “Chewed Corners”, è annunciato in uscita per domani. In questo articolo di sedici anni fa spendevo qualche parola sui primi.

Mike Paradinas

A guardarlo, nelle poche foto di lui che circolano, Mike Paradinas è il ritratto perfetto del nerd, o dell’hacker (a seconda che lo si ritenga un bravo ragazzo un po’ imbranato o un genio un po’ malandrino: è una cosa e l’altra; Paradinas è sempre una cosa e svariate altre): tenuta da studentello, capello lungo ma non oltraggioso, occhialetti tondi da miope, una faccia che denuncia almeno quattro o cinque anni meno di quelli, che già sono pochi, che ha. Non lo si direbbe certo una star e in effetti, dati di vendita alla mano, non lo è. Non ancora. Potrebbe presto diventarlo però, seguendo le orme del suo fraterno amico Richard James. Per intanto, con lo stesso James e con Luke Vibert, è il solista di maggiore spessore offertoci in questo decennio dalla fecondissima scena elettronica britannica. I tre hanno in comune un paio di caratteristiche insieme fastidiose ed esaltanti per l’appassionato: l’incredibile prolificità, che si accompagna a un livello medio delle uscite eccezionalmente alto, e la mania (che è sempre stata tipica della techno) di celarsi sotto una caterva di pseudonimi. Così James è anche (soprattutto) Aphex Twin e Polygon Window. Vibert fa dischi anche a nome Wagon Christ e Plug. Paradinas esagera: se non mi è sfuggito nulla (e davvero non potrei garantire al riguardo) ha finora pubblicato usando sette differenti ragioni sociali e senza per il momento fare ricorso alla sua vera identità anagrafica. Senza che mai, tolti i primi due lavori a nome µ-Ziq, cui collaborò Francis Naughton, e l’album a metà con Richard James, dietro nomi che sembrano di gruppi si nasconda altri che lui. Un forzato della musica.

Considerate che ha appena venticinque anni e che esordì a ventuno e la consistenza quantitativa e qualitativa della sua discografia risulterà tanto più stupefacente. Ancora più ammirevole la varietà di influenze esibite e di stili praticati e la peculiarità di un tocco che tutto amalgama e rende inconfondibile: una rarità nell’elettronica, e in qualunque altro genere di musica. È una personalità fortissima quella del giovanotto, ancorché schizofrenica al massimo grado (eptofrenica?). I differenti alias trovano una giustificazione nelle diverse colorazioni che prevalgono, sempre presente però l’intero spettro, a seconda dello pseudonimo usato.

Generalizzando, µ-Ziq rappresenta il versante dell’affaire Paradinas più portato al confronto con gli (alla fusione degli) stili prevalenti nell’elettronica degli anni ’90, vale a dire ambient, techno e drum’n’bass, ove però di techno e drum’n’bass si elabora l’aspetto più cerebrale, meno legato alla fisicità del ballo. Kid Spatula e, soprattutto, Tusken Raiders puntano maggiormente proprio sulla fisicità. Jake Slazenger omaggia le radici jazz e soul del Nostro. Gary Moscheles si diletta a inventare gustosi connubi fra elettronica, exotica ed easy listening. Generalizzando ancora di più, µ-Ziq è la firma che Paradinas riserva alle uscite più impegnative, adoperando le altre quando vuole divertirsi. Ma, ripeto, generalizzando, perché gli album di Slazenger e Moscheles non sono per niente minori (fra i primi, anzi, da mettersi in casa della folta discografia del Nostro) ed entrambi contengono brani che potrebbero figurare sull’uno o sull’altro, indifferentemente. E le incursioni nella musica nera d’antan non sono rare nei dischi a nome µ-Ziq.

È la capacità di fare coesistere grandi melodie e scansioni ritmiche irresistibili ed estrarre armonia dal caos che fa grande Mike Paradinas. Che qui ricorda Philip Glass e là Curtis Mayfield, qui rielabora i dettami della techno di Detroit, là un tema da sitcom. Che richiama alla memoria i Kraftwerk come Brian Eno o gli 808 State nello stesso brano e in quello dopo sa di Billy Preston, di Funkadelic (George Clinton oggi ucciderebbe per scrivere un pezzo come Funk Yo Ass, su “Shaped To Make Your Life Easier”), di America Latina o magari, giusto per confondere e stupire piacevolmente ancora di più, di 4AD (Phiesope, su “In Pine Effect”, potrebbe essere dei This Mortal Coil). Valgono ancora, per cercare di afferrare la sostanza di una musica che ogni volta che ti sembra di averla definita ti sfugge di mano come una saponetta, le parole vergate da un anonimo nelle note di copertina del primo (doppio) LP di µ-Ziq, “Tango N’Vectif”, uscito quando Paradinas aveva ventun’anni, composto in larga parte quand’era a malapena maggiorenne.

“…musica da ascoltare passeggiando sulla faccia nascosta della luna. Quando è µ-Ziq a maneggiarla, l’elettronica non risulta per niente minacciosa. È anzi allegra e vivace, e deliziosamente orecchiabile, e tanto trascinante ritmicamente che la si può ballare… Melodie giocose sono servite con un contorno di suoni ticchettanti, fischi, gorgoglii, gemiti, singhiozzi ed esplosioni, soffocate e non. Può sembrare caotica, ma ad ascoltarla bene è organizzata al livello di una creazione di Schönberg.

Pubblicato per la prima volta su “Trance”, n.2, novembre/dicembre 1997.

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Velvet Gallery (33)

“A fare di J Mascis una stella sarà la sua capacità di scrivere canzoni semplicissime ma assolutamente irresistibili, lisce o con noise. Scommettiamo che fra dieci anni, magari fra venti, sarà ancora sulla breccia?”: così scrissi e, da allora, di anni ne sono trascorsi ventidue.

Dinosaur Jr 1

 

Dinosaur Jr 2

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